A
casa di Renato Nalli i poliziotti non trovano nulla di rilevante: Juliano è
infuriato perché è la seconda volta che fa un buco nell’acqua, dopo la scuola
di Thiene. Infastidito dalla situazione ed una volta tornato in Questura, il
commissario medita sul passo successivo da compiere, ovvero la perquisizione di
un nuovo deposito di armi situato nei pressi della Certosa di Vigodarzere:
secondo Pezzato, infatti, la nuova “santabarbara” sarebbe gestita da uno dei
fratelli Pavanetto che è pure grande amico di Giuseppe Brancato.
Pezzato, tuttavia, non sa fornire altre informazioni precise sull’ubicazione esatta del deposito e Juliano, quindi, si ritrova costretto a mettere sotto controllo, ventiquattr’ore su ventiquattro, il vecchio monastero in disuso del piccolo paese in provincia di Padova.
I turni si susseguono a ciclo continuo e tutta la Squadra Mobile – Juliano compreso – è coinvolta negli appostamenti. Una notte, di turno, c’è proprio il commissario Juliano.
Pasquale Juliano (ex questore): «Ero di turno nei dintorni della Certosa di Vigodarzere, insieme ai soliti Pezzato e Tommasoni, divenuti ormai ospiti fissi in Questura. Ci eravamo portati sul luogo con la mia auto privata così da passare, per quanto possibile, inosservati. Rimase tutto tranquillo fino alle 2:00 del mattino quando, improvvisamente, apparve una macchina. Era una FIAT 850 e pareva essere quella di Giuseppe Brancato. Chiesi ai due che erano con me se riconoscessero l’automobile come quella appartenente a Brancato ma entrambi, un po’ per il buio e un po’ per la notevole distanza che ci separava dalla vettura che pian piano si stava avvicinando, non furono in grado di esserne certi. Tantomeno si riusciva a scorgere la targa, i cui numeri erano pressoché invisibili quasi fossero stati alterati di proposito o fossero state manomesse le lampadine che avrebbero dovuto illuminarli. Con Pezzato e Tommasoni ipotizzammo che l’850 arrivasse dalla Certosa e che fosse diretta verso Padova. L’unica cosa che eravamo riusciti a scorgere era la presenza di tre persone a bordo, cosa piuttosto insolita a quell’ora di notte. Decisi di seguire la FIAT: alla peggio si sarebbe rivelato un giro inutile ed avremmo perso un po’ di tempo. Ma tanto valeva provare. Cercai di mantenermi distante così da non creare sospetti negli occupanti dell’850: di altre vetture, in giro, non ce n’erano e sarebbe bastato un attimo per capire che stavamo seguendo proprio loro. Non feci in tempo a pensarlo: la FIAT iniziò ad accelerare compiendo giri sempre più lunghi, effettuando svolte improvvise e tornando indietro. Sembrava di stare in un film poliziesco in cui i delinquenti cercano di seminare la Polizia. Con un po’ di fortuna riuscii a star loro dietro finché giungemmo in via Beato Pellegrino, a Padova, nei pressi della casa dove abitava Giuseppe Brancato.»
Ormai sicuri di essere stati scoperti, il commissario Juliano e gli altri due vengono salvati da una trovata di Tommasoni che, abbassato il finestrino dell’auto del poliziotto, urla «sporchi fascisti!» al terzetto capitanato da Brancato fingendo, in questo modo, di essere un gruppo di comunisti a caccia di neofascisti da prendere a botte.
Il 16 giugno, mentre Juliano pensa a quanto vorrebbe chiudere l’indagine sugli attentati dinamitardi affidatagli dal questore Manganella per poter tornare ai suoi casi abituali, ecco che accade qualcosa: alle 8:30 del mattino, Juliano riceve una telefonata da parte di Nicolò Pezzato.
Pasquale Juliano (ex questore): «Fui chiamato dal centralino da cui mi dissero che c’era Pezzato in linea. Dissi loro di passarmelo e Pezzato esordì con un “commissario, ci siamo!”. Gli chiesi di spiegarmi e lui rispose che l’esplosivo che aspettavano era finalmente arrivato. Mi disse che si trovava sparpagliato per i depositi di cui mi avevano già detto lui e Tommasoni ma che, una parte, si trovava a casa di Massimiliano Fachini.»
Massimiliano Fachini, classe 1942, nasce a Tirana, in Albania. Figlio dell’ex questore di Verona durante gli anni della Repubblica di Salò, Fachini trascorre infanzia e giovinezza a Padova. Intrapresi gli studi universitari, inizia ad avvicinarsi alla politica della sua città. Diviene consigliere provinciale del FUAN – il Fronte Universitario d’Azione Nazionale – e, negli anni successivi, consigliere comunale dapprima nelle fila dell’MSI (fino al 1973) e poi come indipendente (fino al 1975 quando termina il suo mandato). Dopo i coinvolgimenti in diversi attentati dinamitardi – come quello al rettore Opocher, all’ex questore di Padova Allitto Bonanno, alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana e alla stazione di Bologna – per i quali venne prosciolto, viene arrestato per i reati di banda armata ed associazione sovversiva. Secondo le testimonianze di parecchi imputati nei diversi processi per gli attentati dinamitardi che si susseguirono a partire dal 1969, Massimiliano Fachini non solo era un esponente di spicco di Ordine Nuovo in Veneto, ma era pure legato a doppio filo col SID – il Servizio Informazioni della Difesa – che lo avrebbe protetto ed aiutato a sottrarsi agli ordini di cattura che lo riguardavano. Scarcerato nel 1983, inizia a lavorare come agente di commercio. Morirà il 3 febbraio 2000 in un maxi-tamponamento sull’autostrada A4 Torino-Venezia nei pressi di Grisignano di Zocco, in provincia di Vicenza.
Il commissario Juliano ricorda bene il nome di Fachini poiché faceva parte del gruppo che comprendeva anche Domenico Obriedan, Gustavo Bocchini Padiglione, Francesco Petraroli e Giuseppe Brancato. Da quando aveva preso in mano le indagini sugli attentati dinamitardi di quella prima metà del 1969, Juliano era incappato moltissime volte nel nome di Fachini. E proprio per questa ragione, decide di dar credito alle parole di Pezzato e lo invita a proseguire col suo racconto.
Pasquale Juliano (ex questore): «Chiesi a Pezzato se fosse sicuro di quel che stesse dicendo. Lui assentì ed io gli chiesi dove abitasse questo Fachini e come facesse, Pezzato, ad essere sicuro della presenza dell’esplosivo in casa del consigliere. Pezzato rivelò di aver visto l’esplosivo coi propri occhi ed aggiunse che il materiale non si trovava direttamente in casa di Fachini bensì in una soffitta di sua proprietà all’interno dello stesso stabile al numero 15 di piazza dell’Insurrezione 26 aprile.»
Piazza dell’Insurrezione 26 aprile si trova a due passi dal centro di Padova e, al numero 15, si trova il palazzo dove risiede Massimiliano Fachini: si tratta di quel palazzo silenzioso e signorile dove, poco meno di tre mesi dopo, Alberto Muraro morirà cadendo “accidentalmente” nella tromba delle scale. Ma Pasquale Juliano, pur addentrandosi sempre più profondamente all’interno della realtà neofascista di Padova, ancora non può cogliere questa strana coincidenza e tantomeno immaginare cosa capiterà da lì a pochissime settimane.
Pasquale Juliano (ex questore): «Dopo che mi ebbe rivelato il luogo in cui Massimiliano Fachini avrebbe detenuto l’esplosivo, Pezzato, per il timore che i sospetti del gruppo si concentrassero su di lui, mi chiese espressamente di non intervenire né a casa del consigliere, né alla Certosa di Vigodarzere e né a Thiene dove abitava Petracca. Io provai a ribattere perché temevo che l’esplosivo potesse essere usato prima che lo sequestrassimo, ma Pezzato mi rassicurò dicendomi che le bombe sarebbero servite per un fatto eclatante e che, per il momento, nessuno avrebbe toccato nulla. Ci lasciammo con la promessa che Pezzato mi avrebbe avvertito prima che l’esplosivo potesse essere utilizzato in qualche altro attentato.»
Ma quella mattina, a Juliano, non giunge solo la telefonata di Nicolò Pezzato: ne arriva un’altra – questa volta anonima – durante la quale il misterioso interlocutore invita la Polizia a perquisire l’abitazione di Fachini perché ci sarebbero state interessantissime “scoperte fragorose” da fare. Il Capo della Squadra Mobile, da fine investigatore qual è, comincia così a riflettere su quanto spesso, negli ultimi giorni, sia inciampato nel nome di Fachini: se è vero che, per la Questura di Padova – e nella fattispecie per l’Ufficio Politico – il consigliere provinciale del FUAN è «un elemento di indubbie capacità organizzative e portato per il suo fanatismo ideologico anche a pericolose intemperanze di estremismo politico», per Juliano, che ne conosce la storia per sommi capi, non può essere una semplice coincidenza che Fachini stia diventando un punto nevralgico delle sue indagini.
Senza indugio, si alza dalla sedia e corre nell’ufficio del questore Manganella. Arrivato pure il commissario Molino, i tre decidono sul da farsi. Vengono così richiesti, al procuratore di Padova Aldo Fais, i mandati di perquisizione per le abitazioni di Massimiliano Fachini e di tutti i suoi sodali: Giuseppe Brancato, Francesco Petraroli, Gustavo Bocchini Padiglione e Pier Giorgio Pavanetto. Alla Procura di Vicenza, invece, viene chiesto il mandato per l’abitazione di Thiene di Fernando Petracca. Nell’ufficio del Questore viene definita la strategia che si spera possa portare agli arresti che chiuderanno le indagini: squadre miste, composte sia da membri della Squadra Mobile sia da quelli dell’Ufficio Politico, effettueranno gli appostamenti presso i presunti depositi di armi e le perquisizioni presso le abitazioni degli indagati.
In piazza dell’Insurrezione, la Polizia si nasconde all’interno della pizzeria-birreria Italia Pilsner: oltre a Pasquale Juliano, ci sono il commissario Giosuè Salomone e il maresciallo Noventa, l’agente Giordano Barozzi – in forza alla Squadra Mobile – e l’agente Aldo Mariuzza, in forza all’Ufficio Politico. Le vetrate della pizzeria sono il luogo perfetto per poter sorvegliare il portone del palazzo in cui risiede Fachini: non solo si è in grado di vedere chi entri o chi esca, ma pure la direzione da cui si sta provenendo o verso cui si stia andando.
Intorno alle 11:00 circa del mattino, Nicolò Pezzato fa la sua apparizione all’interno del locale. Senza proferire parola, Pezzato di dirige immediatamente verso la toilette, subito seguito dal commissario Juliano. La discussione che hanno è brevissima e, in quella sede, il confidente si limita a confermare al poliziotto che l’unico posto che vale la pena sorvegliare è quello in cui si trovano esattamente in quel momento: il numero 15 di piazza dell’Insurrezione 26 aprile. Andato via Pezzato, Juliano confida al commissario Salomone ciò che gli era stato riferito nel bagno della pizzeria.
Pasquale Juliano (ex questore): «Nel breve incontro avuto con Pezzato nella toilette della pizzeria, il confidente mi disse che l’unico luogo che valesse la pena sorvegliare era il palazzo dove abitava Fachini. Appena Pezzato se ne fu andato, mi consigliai col mio pari grado Salomone il quale, dopo qualche istante di riflessione, convenne sul fatto che, se davvero Pezzato stava dicendo la verità, era inutile tener d’occhio tutti quei posti fra Padova e Vicenza. A maggior ragione se pure dalle altre parti non stava succedendo nulla così come stava capitando a noi. Decisi di seguire il consiglio del mio commissario e insieme a lui rientrai in Questura, non prima di aver raccomandato ai miei uomini che non dovevano assolutamente muoversi da lì.»
Alle 19:00 di quello stesso giorno, però, ecco che accade qualcosa.
Un giovane, che sembra provenire dai portici di via dei Borromeo, si infila nel portone al numero 15 di piazza dell’insurrezione 26 aprile. L’agente Mariuzza lo riconosce: si tratta di Giancarlo Patrese, persona già nota alla Questura per essere un attivista di spicco dell’MSI. Patrese, impiegato postale, ha 31 anni e vive a Padova con sua moglie, Bruna Rampazzo. I poliziotti capiscono subito che non si tratta di una coincidenza fortuita: se Giancarlo Patrese è entrato in quel palazzo, di sicuro deve incontrare Massimiliano Fachini.
Il maresciallo Noventa esce dalla pizzeria e va in piazza. Fingendo di essere interessato alle mercanzie di due venditori ambulanti, si avvicina al palazzo nel quale è entrato Patrese. Anche gli altri due poliziotti fanno altrettanto e si mescolano alla gente che cammina in piazza, tenendosi, però, a distanza dal collega più alto in grado senza mai, tuttavia, perderlo d’occhio.
Trascorsi circa quarantacinque minuti, gli agenti della Questura vedono Patrese uscire dallo stabile di piazza dell’Insurrezione. Il maresciallo Noventa inizia a seguirlo mentre, dall’altro lato della piazza, gli vanno incontro Mariuzza e Barozzi. Quando gli sono addosso, Patrese si blocca perché capisce immediatamente che quelle persone sono poliziotti e che stanno cercando proprio lui.
Noventa, Barozzi e Mariuzza si qualificano e, mentre lo stanno facendo, si accorgono che Giancarlo Patrese, fra le mani, regge un pacchetto che non aveva con sé quando era entrato nel palazzo. Gli uomini della Questura chiedono all’uomo cosa ci fosse nel pacco ma lui, per tutta risposta, dice di non saperlo. Pochi minuti dopo, Giancarlo Patrese si ritrova in Questura per gli accertamenti di rito.
Pasquale Juliano (ex questore): «Giancarlo Patrese fu portato in Questura dove fu messo a sedere nella stanza degli interrogatori. Da quando i miei erano rientrati da piazza dell’Insurrezione, continuavo a chiedermi perché mai Pezzato non mi avesse mai parlato di questo Patrese. Eh sì che di nomi ne aveva fatti, accidentaccio! Ma non quello di Giancarlo Patrese!»
Mentre il commissario Juliano si arrovella sui motivi che potevano aver spinto Pezzato a tacergli il ruolo di Patrese all’interno del gruppo di Fachini, nella stanza degli interrogatori, il maresciallo Noventa comincia ad aprire il pacchetto che, sulle prime, pareva non contenere nulla di rilevante. Dopo aver rimosso la carta che fungeva da involucro esterno, il maresciallo della Noventa trova un manifesto del FUAN che avvolgeva altri due pacchetti. Il primo, simile ad un mattone, era chiaramente materiale esplosivo. L’altro, più pesante, contiene una pistola Beretta avente matricola non abrasa e corrispondente al numero 792056. Noventa chiede spiegazioni a Patrese che, dal canto suo, dichiara di non saperne nulla e di volere la presenza de suo avvocato, tale Lionello Luci che era pure il segretario della sezione padovana del Movimento Sociale Italiano.
Una volta relazionato in merito al primo interrogatorio di Patrese, Pasquale Juliano capisce che la svolta delle indagini che attendeva da settimane, è finalmente arrivata. A questo punto avrebbe voluto subito reinterrogare il giovane missino ma, non essendoci né Salomone né Molino – usciti per mangiare un boccone – deve per forza attendere. Nel frattempo, il solerte funzionario si dà da fare per organizzare tutto il lavoro che, da lì a qualche ora, sarebbe sfociato in controlli e perquisizioni a tappeto fra le provincie di Padova e Vicenza. Organizza con cura gli equipaggi delle auto mescolando i suoi uomini con quelli dell’Ufficio Politico, nomina i capisquadra e dà, ad ognuno, un luogo preciso da controllare. Alla fine Juliano, esauriti tutti i compiti che poteva svolgere e sollecitato dal maresciallo Noventa, acconsente ad andare a cena.
Quando il Capo della Squadra Mobile ed il suo maresciallo rientrano in Questura, Giancarlo Patrese è nuovamente sotto interrogatorio, incalzato dai commissari Molino e Salomone.
Pasquale Juliano (ex questore): «Quando io e Noventa rientrammo in ufficio, Salomone e Molino stavano interrogando Giancarlo Patrese. Entrai pure io nella stanza degli interrogatori per ascoltare cosa avesse da dire.»
Il copione del secondo interrogatorio è identico al primo: da una parte i poliziotti chiedono e richiedono a Patrese se sapesse cosa ci fosse all’interno del pacco; dall’altra Patrese risponde di non saperne nulla. E più i poliziotti lo incalzano, più Patrese nega. E mentre Juliano ascolta attentamente in religioso silenzio, ecco che Molino e Salomone chiedono al giovane fermato chi gli avesse consegnato materialmente il pacco contenente la pistola e l’esplosivo. Mai e poi mai i tre commissari si sarebbero aspettati la risposta che Patrese diede a quella domanda: a dargli quel pacco di cui lui assolutamente ignorava il contenuto, era stato nientemeno che Nicolò Pezzato quando si erano incontrati quel giorno.
Nella stanza degli interrogatori scende il gelo: Juliano, Molino e Salomone si guardano attoniti perché non hanno la minima idea di cosa diavolo stesse succedendo. Ma soprattutto, ad essere sconcertato e a rimanere senza fiato quasi avesse ricevuto un pugno nello stomaco, è proprio Pasquale Juliano che non capisce perché il suo confidente abbia consegnato dell’esplosivo a Patrese.
I tre poliziotti, senza proferire parola ma intendendosi solamente con lo sguardo, proseguono l’interrogatorio per capire come si siano svolti i fatti e cosa c’entrasse Pezzato in quella faccenda che iniziava a farsi davvero intricata. A tal proposito, quindi, Molino e Salomone ripartono con domande a raffica tese a ricostruire i movimenti di Giancarlo Patrese di quel 16 giugno 1969.
Secondo quanto Patrese riferisce alla Polizia, dalle 7:00 del mattino alle 14:00 o poco più, sarebbe stato in posta, a lavorare. Alle 11:00 circa, mentre stava lavorando, avrebbe ricevuto la visita di Nicolò Pezzato e di uno studente che conosceva di vista e di cui sapeva solo il cognome, tale Marinoni. I due volevano che Patrese consegnasse loro le chiavi della sezione dell’MSI che, in quei giorni, Patrese custodiva per poter esporre la bandiera a lutto in seguito alla morte di Arturo Michelini, l’allora segretario nazionale del Movimento Sociale Italiano. Non avendo con sé le chiavi e non potendo lasciare il lavoro perché l’orario non era ancora terminato, Patrese avrebbe invitato i due ad andare a casa sua e farsele consegnare da sua moglie. Trascorso poco tempo da quando i due avevano l’asciato l’ufficio postale, secondo il racconto di Patrese, sua moglie gli avrebbe telefonato in ufficio per farsi autorizzare a consegnar loro le chiavi. Verso 14:15, Patrese sarebbe tornato a casa per pranzo e, intorno le 15:30, si sarebbe recato alla sezione dell’MSI per verificare cosa Pezzato e Marinoni stessero facendo.
Gli investigatori pesano ogni parola che Patrese pronuncia, incerti se credergli o meno. Juliano, fra i tre, continua ad essere il più incredulo per via del nuovo ruolo che Pezzato sembrava avere nelle indagini. È ormai notte inoltrata e Giancarlo Patrese prosegue col suo racconto.
Giunto alla sede dell’MSI e non vedendo né Pezzato e né Marinoni, Patrese si sarebbe fermato ad attenderli. Ma avrebbe notato, nella cassetta delle lettere vicino all’ingresso, l’avviso di telegramma lasciato dal postino. E siccome gli uffici postali erano ancora aperti, Patrese avrebbe deciso di andare a ritirarlo. Nel mentre sarebbe arrivato Pezzato e, insieme, sarebbero andati a prendere il telegramma – annunciante i funerali dell’onorevole Michelini per il giorno 17 giugno 1969 – per poi consegnarlo all’avvocato Luci quale segretario provinciale. Una volta giunti allo studio dell’avvocato in via S. Fermo, Patrese e Pezzato, dopo avergli lasciato il telegramma, si sarebbero fatti dare la somma di 10.000 lire per organizzare il viaggio della delegazione padovana dell’MSI che, a Roma, avrebbe presenziato ai funerali dell’onorevole Michelini. Usciti dallo studio dell’avvocato, i due sarebbero tornati alla sede dell’MSI per sbrigare alcune faccende ed attendere di ritornare nuovamente, verso le 19:00, dall’avvocato Luci per farsi dare altri soldi poiché la somma ricevuta nel pomeriggio non sarebbe stata sufficiente per tutte e cinque le persone che avrebbero composto la delegazione. Venuti via dallo studio dell’avvocato ottenendo altre 3.000 lire, Pezzato avrebbe chiesto a Patrese di accompagnarlo in piazza dell’Insurrezione dove avrebbe dovuto ritirare delle cose.
Patrese, acconsentendo alla richiesta di Pezzato, si sarebbe così diretto verso piazza dell’Insurrezione, sapendo che, al numero 15, ci abitava Massimiliano Fachini. Percorso il tragitto in silenzio e giunti a destinazione, i due sarebbero entrati nel palazzo e preso l’ascensore per salire al terzo piano. Arrivati sul pianerottolo, Pezzato avrebbe chiesto a Patrese di aspettarlo lì e si sarebbe infilato dentro un appartamento la cui porta di ingresso era stata lasciata aperta. Trascorso qualche minuto, Pezzato ne sarebbe uscito con un pacco in mano.
Pasquale Juliano (ex questore): «Patrese raccontò che, quando Pezzato fu uscito dall’appartamento, gli avrebbe consegnato il pacco e gli avrebbe ordinato di scendere al pianterreno con l’ascensore. Aggiunse che l’avrebbe seguito a momenti prendendo le scale. Patrese avrebbe quindi preso l’ascensore e sarebbe sceso al pianterreno dove, in attesa di Pezzato, avrebbe chiacchierato col portinaio, il signor Alberto Muraro. Poi sarebbe uscito in strada e lì sarebbe stato fermato dalla Polizia. Ovviamente ripeté più volte che Pezzato non gli disse alcunché in merito al contenuto del pacco, e che mai e poi mai avrebbe avuto intenzione di organizzare qualsivoglia attentato dinamitardo servendosi dell’esplosivo col quale lo avevamo sorpreso.»
Pasquale Juliano, che aveva seguito l’interrogatorio di Giancarlo Patrese per filo e per segno senza dire una parola, esce dalla stanza degli interrogatori e chiama i poliziotti che erano stati in appostamento dinanzi alla casa di Fachini per tutta la giornata del 16 giugno.
Pasquale Juliano (ex questore): «Dopo aver ascoltato attentamente l’interrogatorio di Patrese ed appreso del coinvolgimento di Pezzato, chiamai Noventa, Barozzi e Mariuzza. Chiesi loro se, oltre a Patrese, avessero visto qualcun altro entrare con lui all’interno del palazzo dove abitava Fachini. Tutti e tre, sicuri del loro dire, risposero che in compagnia di Patrese non c’era stato nessuno, eccezion fatta per il portiere dello stabile. Ma soprattutto dissero che Pezzato non era mai entrato né uscito da quel palazzo. L’unico momento in cui lo avevano visto, era quando era venuto in pizzeria per parlarmi.»
Nicolò Pezzato non si fa pregare e racconta agli investigatori tutti i suoi movimenti di quel 16 giugno 1969: verso mezzogiorno si trovava nei pressi della posta centrale di Padova dove sarebbe stato avvicinato da Marinoni e da Luigi Vettore Presilio, un altro militante di estrema destra. I due sarebbero andati da Pezzato per chiedergli se avesse visto Patrese in quanto dovevano farsi dare le chiavi della sede dell’MSI. Dopo pochi minuti, andatolo a chiamare, Patrese sarebbe uscito dall’ufficio ed avrebbe detto a Marinoni e a Vettore Presilio di andare a casa da sua moglie e farsi dare le chiavi da lei. I due si sarebbero quindi avviati verso la casa di Patrese mentre quest’ultimo avrebbe invitato Pezzato al bar – sito all’interno del medesimo stabile dove c’era anche l’ufficio postale – offrendogli un caffè. Pezzato avrebbe quindi lasciato Patrese e sarebbe rientrato presso la sua abitazione, dato che era ora di pranzo. Il confidente del commissario Juliano sarebbe poi uscito, verso le 15:40, per recarsi alla sede del Movimento Sociale. La porta era chiusa e lui sarebbe rimasto ad aspettare che qualcuno aprisse. Pochi minuti dopo sarebbe apparso Giancarlo Patrese che avrebbe aperto la sede e che gli avrebbe chiesto di accompagnarlo presso lo studio di Lionello Luci. Giunti dall’avvocato verso le 16:30, Patrese si sarebbe messo a discutere per farsi dare altri soldi per la trasferta romana della delegazione padovana dell’MSI. Tornati alla sede del Movimento Sociale, Pezzato sarebbe rimasto con Patrese fino alle 19:00 circa per poi accompagnarlo, nuovamente, dall’avvocato Luci dove Patrese doveva tornare per ritirare il resto del denaro promessogli dal segretario missino. Ma arrivati in via S. Fermo nei pressi dello studio dell’avvocato, Pezzato e Patrese si sarebbero definitivamente separati: Pezzato doveva assolutamente rientrare perché, quella sera stessa, avrebbe dovuto cenare fuori insieme a sua moglie, ai suoi amici Francesco Tommasoni, Giuliano Comunian e le rispettive fidanzate.
Pasquale Juliano (ex questore): «Pezzato riferì di essere rientrato a casa intorno alle 19:30 e lì cominciò a litigare con sua moglie. Quella sera dovevano andare per cena fuori Padova – a Murelle – e il mio confidente, secondo sua moglie, era rincasato troppo tardi. Fra il ritardo di Pezzato ed il tempo impiegato a litigare, il quintetto rinunciò all’uscita e rimase a casa di Pezzato. Verso le 22:00, i tre uomini si recarono al bar sotto casa di Pezzato per bere qualcosa e parlare ancora un po’ trattenendosi lì fin oltre la mezzanotte. Rientrato a casa, Pezzato andò a coricarsi e rimase a letto finché non arrivammo noi per portarlo in Questura.»
Incalzato dal commissario Juliano che vuole sapere se gli stia dicendo o meno la verità, Nicolò Pezzato conferma il suo racconto e nega apertamente sia di aver ricevuto il pacchetto da Fachini, sia di averlo consegnato a Giancarlo Patrese. Nega, altresì, di essere a conoscenza che, dentro il pacco, vi fossero dell’esplosivo e una pistola Beretta. E per confermare la sua buona fede, invita il commissario a perquisire casa sua perché è sicuro di non aver nulla da nascondere. Il Capo della Squadra Mobile non se lo fa ripetere due volte e, insieme al maresciallo Noventa, si porta presso l’abitazione di Pezzato ed effettua la perquisizione che, come il confidente aveva predetto, non dà alcun risultato: i poliziotti non trovano nulla di rilevante ed attinente alle indagini sui presunti depositi di armi ed esplosivo del gruppo di Massimiliano Fachini.
La situazione è abbastanza confusa: nemmeno il confronto diretto fra Pezzato e Patrese porta ad una versione univoca dei fatti: entrambi rimangono fermi sulle rispettive posizioni col primo che nega di essere andato in piazza dell’Insurrezione, e il secondo che afferma il contrario. A Juliano, quindi, per sbrogliare l’intricata matassa, non resta che convocare, quanto prima, il portiere dello stabile al numero 15 di piazza dell’Insurrezione 26 aprile: Alberto Muraro.
Pezzato, tuttavia, non sa fornire altre informazioni precise sull’ubicazione esatta del deposito e Juliano, quindi, si ritrova costretto a mettere sotto controllo, ventiquattr’ore su ventiquattro, il vecchio monastero in disuso del piccolo paese in provincia di Padova.
I turni si susseguono a ciclo continuo e tutta la Squadra Mobile – Juliano compreso – è coinvolta negli appostamenti. Una notte, di turno, c’è proprio il commissario Juliano.
Pasquale Juliano (ex questore): «Ero di turno nei dintorni della Certosa di Vigodarzere, insieme ai soliti Pezzato e Tommasoni, divenuti ormai ospiti fissi in Questura. Ci eravamo portati sul luogo con la mia auto privata così da passare, per quanto possibile, inosservati. Rimase tutto tranquillo fino alle 2:00 del mattino quando, improvvisamente, apparve una macchina. Era una FIAT 850 e pareva essere quella di Giuseppe Brancato. Chiesi ai due che erano con me se riconoscessero l’automobile come quella appartenente a Brancato ma entrambi, un po’ per il buio e un po’ per la notevole distanza che ci separava dalla vettura che pian piano si stava avvicinando, non furono in grado di esserne certi. Tantomeno si riusciva a scorgere la targa, i cui numeri erano pressoché invisibili quasi fossero stati alterati di proposito o fossero state manomesse le lampadine che avrebbero dovuto illuminarli. Con Pezzato e Tommasoni ipotizzammo che l’850 arrivasse dalla Certosa e che fosse diretta verso Padova. L’unica cosa che eravamo riusciti a scorgere era la presenza di tre persone a bordo, cosa piuttosto insolita a quell’ora di notte. Decisi di seguire la FIAT: alla peggio si sarebbe rivelato un giro inutile ed avremmo perso un po’ di tempo. Ma tanto valeva provare. Cercai di mantenermi distante così da non creare sospetti negli occupanti dell’850: di altre vetture, in giro, non ce n’erano e sarebbe bastato un attimo per capire che stavamo seguendo proprio loro. Non feci in tempo a pensarlo: la FIAT iniziò ad accelerare compiendo giri sempre più lunghi, effettuando svolte improvvise e tornando indietro. Sembrava di stare in un film poliziesco in cui i delinquenti cercano di seminare la Polizia. Con un po’ di fortuna riuscii a star loro dietro finché giungemmo in via Beato Pellegrino, a Padova, nei pressi della casa dove abitava Giuseppe Brancato.»
Ormai sicuri di essere stati scoperti, il commissario Juliano e gli altri due vengono salvati da una trovata di Tommasoni che, abbassato il finestrino dell’auto del poliziotto, urla «sporchi fascisti!» al terzetto capitanato da Brancato fingendo, in questo modo, di essere un gruppo di comunisti a caccia di neofascisti da prendere a botte.
Il 16 giugno, mentre Juliano pensa a quanto vorrebbe chiudere l’indagine sugli attentati dinamitardi affidatagli dal questore Manganella per poter tornare ai suoi casi abituali, ecco che accade qualcosa: alle 8:30 del mattino, Juliano riceve una telefonata da parte di Nicolò Pezzato.
Pasquale Juliano (ex questore): «Fui chiamato dal centralino da cui mi dissero che c’era Pezzato in linea. Dissi loro di passarmelo e Pezzato esordì con un “commissario, ci siamo!”. Gli chiesi di spiegarmi e lui rispose che l’esplosivo che aspettavano era finalmente arrivato. Mi disse che si trovava sparpagliato per i depositi di cui mi avevano già detto lui e Tommasoni ma che, una parte, si trovava a casa di Massimiliano Fachini.»
Massimiliano Fachini, classe 1942, nasce a Tirana, in Albania. Figlio dell’ex questore di Verona durante gli anni della Repubblica di Salò, Fachini trascorre infanzia e giovinezza a Padova. Intrapresi gli studi universitari, inizia ad avvicinarsi alla politica della sua città. Diviene consigliere provinciale del FUAN – il Fronte Universitario d’Azione Nazionale – e, negli anni successivi, consigliere comunale dapprima nelle fila dell’MSI (fino al 1973) e poi come indipendente (fino al 1975 quando termina il suo mandato). Dopo i coinvolgimenti in diversi attentati dinamitardi – come quello al rettore Opocher, all’ex questore di Padova Allitto Bonanno, alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana e alla stazione di Bologna – per i quali venne prosciolto, viene arrestato per i reati di banda armata ed associazione sovversiva. Secondo le testimonianze di parecchi imputati nei diversi processi per gli attentati dinamitardi che si susseguirono a partire dal 1969, Massimiliano Fachini non solo era un esponente di spicco di Ordine Nuovo in Veneto, ma era pure legato a doppio filo col SID – il Servizio Informazioni della Difesa – che lo avrebbe protetto ed aiutato a sottrarsi agli ordini di cattura che lo riguardavano. Scarcerato nel 1983, inizia a lavorare come agente di commercio. Morirà il 3 febbraio 2000 in un maxi-tamponamento sull’autostrada A4 Torino-Venezia nei pressi di Grisignano di Zocco, in provincia di Vicenza.
Il commissario Juliano ricorda bene il nome di Fachini poiché faceva parte del gruppo che comprendeva anche Domenico Obriedan, Gustavo Bocchini Padiglione, Francesco Petraroli e Giuseppe Brancato. Da quando aveva preso in mano le indagini sugli attentati dinamitardi di quella prima metà del 1969, Juliano era incappato moltissime volte nel nome di Fachini. E proprio per questa ragione, decide di dar credito alle parole di Pezzato e lo invita a proseguire col suo racconto.
Pasquale Juliano (ex questore): «Chiesi a Pezzato se fosse sicuro di quel che stesse dicendo. Lui assentì ed io gli chiesi dove abitasse questo Fachini e come facesse, Pezzato, ad essere sicuro della presenza dell’esplosivo in casa del consigliere. Pezzato rivelò di aver visto l’esplosivo coi propri occhi ed aggiunse che il materiale non si trovava direttamente in casa di Fachini bensì in una soffitta di sua proprietà all’interno dello stesso stabile al numero 15 di piazza dell’Insurrezione 26 aprile.»
Piazza dell’Insurrezione 26 aprile si trova a due passi dal centro di Padova e, al numero 15, si trova il palazzo dove risiede Massimiliano Fachini: si tratta di quel palazzo silenzioso e signorile dove, poco meno di tre mesi dopo, Alberto Muraro morirà cadendo “accidentalmente” nella tromba delle scale. Ma Pasquale Juliano, pur addentrandosi sempre più profondamente all’interno della realtà neofascista di Padova, ancora non può cogliere questa strana coincidenza e tantomeno immaginare cosa capiterà da lì a pochissime settimane.
Pasquale Juliano (ex questore): «Dopo che mi ebbe rivelato il luogo in cui Massimiliano Fachini avrebbe detenuto l’esplosivo, Pezzato, per il timore che i sospetti del gruppo si concentrassero su di lui, mi chiese espressamente di non intervenire né a casa del consigliere, né alla Certosa di Vigodarzere e né a Thiene dove abitava Petracca. Io provai a ribattere perché temevo che l’esplosivo potesse essere usato prima che lo sequestrassimo, ma Pezzato mi rassicurò dicendomi che le bombe sarebbero servite per un fatto eclatante e che, per il momento, nessuno avrebbe toccato nulla. Ci lasciammo con la promessa che Pezzato mi avrebbe avvertito prima che l’esplosivo potesse essere utilizzato in qualche altro attentato.»
Ma quella mattina, a Juliano, non giunge solo la telefonata di Nicolò Pezzato: ne arriva un’altra – questa volta anonima – durante la quale il misterioso interlocutore invita la Polizia a perquisire l’abitazione di Fachini perché ci sarebbero state interessantissime “scoperte fragorose” da fare. Il Capo della Squadra Mobile, da fine investigatore qual è, comincia così a riflettere su quanto spesso, negli ultimi giorni, sia inciampato nel nome di Fachini: se è vero che, per la Questura di Padova – e nella fattispecie per l’Ufficio Politico – il consigliere provinciale del FUAN è «un elemento di indubbie capacità organizzative e portato per il suo fanatismo ideologico anche a pericolose intemperanze di estremismo politico», per Juliano, che ne conosce la storia per sommi capi, non può essere una semplice coincidenza che Fachini stia diventando un punto nevralgico delle sue indagini.
Senza indugio, si alza dalla sedia e corre nell’ufficio del questore Manganella. Arrivato pure il commissario Molino, i tre decidono sul da farsi. Vengono così richiesti, al procuratore di Padova Aldo Fais, i mandati di perquisizione per le abitazioni di Massimiliano Fachini e di tutti i suoi sodali: Giuseppe Brancato, Francesco Petraroli, Gustavo Bocchini Padiglione e Pier Giorgio Pavanetto. Alla Procura di Vicenza, invece, viene chiesto il mandato per l’abitazione di Thiene di Fernando Petracca. Nell’ufficio del Questore viene definita la strategia che si spera possa portare agli arresti che chiuderanno le indagini: squadre miste, composte sia da membri della Squadra Mobile sia da quelli dell’Ufficio Politico, effettueranno gli appostamenti presso i presunti depositi di armi e le perquisizioni presso le abitazioni degli indagati.
In piazza dell’Insurrezione, la Polizia si nasconde all’interno della pizzeria-birreria Italia Pilsner: oltre a Pasquale Juliano, ci sono il commissario Giosuè Salomone e il maresciallo Noventa, l’agente Giordano Barozzi – in forza alla Squadra Mobile – e l’agente Aldo Mariuzza, in forza all’Ufficio Politico. Le vetrate della pizzeria sono il luogo perfetto per poter sorvegliare il portone del palazzo in cui risiede Fachini: non solo si è in grado di vedere chi entri o chi esca, ma pure la direzione da cui si sta provenendo o verso cui si stia andando.
Intorno alle 11:00 circa del mattino, Nicolò Pezzato fa la sua apparizione all’interno del locale. Senza proferire parola, Pezzato di dirige immediatamente verso la toilette, subito seguito dal commissario Juliano. La discussione che hanno è brevissima e, in quella sede, il confidente si limita a confermare al poliziotto che l’unico posto che vale la pena sorvegliare è quello in cui si trovano esattamente in quel momento: il numero 15 di piazza dell’Insurrezione 26 aprile. Andato via Pezzato, Juliano confida al commissario Salomone ciò che gli era stato riferito nel bagno della pizzeria.
Pasquale Juliano (ex questore): «Nel breve incontro avuto con Pezzato nella toilette della pizzeria, il confidente mi disse che l’unico luogo che valesse la pena sorvegliare era il palazzo dove abitava Fachini. Appena Pezzato se ne fu andato, mi consigliai col mio pari grado Salomone il quale, dopo qualche istante di riflessione, convenne sul fatto che, se davvero Pezzato stava dicendo la verità, era inutile tener d’occhio tutti quei posti fra Padova e Vicenza. A maggior ragione se pure dalle altre parti non stava succedendo nulla così come stava capitando a noi. Decisi di seguire il consiglio del mio commissario e insieme a lui rientrai in Questura, non prima di aver raccomandato ai miei uomini che non dovevano assolutamente muoversi da lì.»
Alle 19:00 di quello stesso giorno, però, ecco che accade qualcosa.
Un giovane, che sembra provenire dai portici di via dei Borromeo, si infila nel portone al numero 15 di piazza dell’insurrezione 26 aprile. L’agente Mariuzza lo riconosce: si tratta di Giancarlo Patrese, persona già nota alla Questura per essere un attivista di spicco dell’MSI. Patrese, impiegato postale, ha 31 anni e vive a Padova con sua moglie, Bruna Rampazzo. I poliziotti capiscono subito che non si tratta di una coincidenza fortuita: se Giancarlo Patrese è entrato in quel palazzo, di sicuro deve incontrare Massimiliano Fachini.
Il maresciallo Noventa esce dalla pizzeria e va in piazza. Fingendo di essere interessato alle mercanzie di due venditori ambulanti, si avvicina al palazzo nel quale è entrato Patrese. Anche gli altri due poliziotti fanno altrettanto e si mescolano alla gente che cammina in piazza, tenendosi, però, a distanza dal collega più alto in grado senza mai, tuttavia, perderlo d’occhio.
Trascorsi circa quarantacinque minuti, gli agenti della Questura vedono Patrese uscire dallo stabile di piazza dell’Insurrezione. Il maresciallo Noventa inizia a seguirlo mentre, dall’altro lato della piazza, gli vanno incontro Mariuzza e Barozzi. Quando gli sono addosso, Patrese si blocca perché capisce immediatamente che quelle persone sono poliziotti e che stanno cercando proprio lui.
Noventa, Barozzi e Mariuzza si qualificano e, mentre lo stanno facendo, si accorgono che Giancarlo Patrese, fra le mani, regge un pacchetto che non aveva con sé quando era entrato nel palazzo. Gli uomini della Questura chiedono all’uomo cosa ci fosse nel pacco ma lui, per tutta risposta, dice di non saperlo. Pochi minuti dopo, Giancarlo Patrese si ritrova in Questura per gli accertamenti di rito.
Pasquale Juliano (ex questore): «Giancarlo Patrese fu portato in Questura dove fu messo a sedere nella stanza degli interrogatori. Da quando i miei erano rientrati da piazza dell’Insurrezione, continuavo a chiedermi perché mai Pezzato non mi avesse mai parlato di questo Patrese. Eh sì che di nomi ne aveva fatti, accidentaccio! Ma non quello di Giancarlo Patrese!»
Mentre il commissario Juliano si arrovella sui motivi che potevano aver spinto Pezzato a tacergli il ruolo di Patrese all’interno del gruppo di Fachini, nella stanza degli interrogatori, il maresciallo Noventa comincia ad aprire il pacchetto che, sulle prime, pareva non contenere nulla di rilevante. Dopo aver rimosso la carta che fungeva da involucro esterno, il maresciallo della Noventa trova un manifesto del FUAN che avvolgeva altri due pacchetti. Il primo, simile ad un mattone, era chiaramente materiale esplosivo. L’altro, più pesante, contiene una pistola Beretta avente matricola non abrasa e corrispondente al numero 792056. Noventa chiede spiegazioni a Patrese che, dal canto suo, dichiara di non saperne nulla e di volere la presenza de suo avvocato, tale Lionello Luci che era pure il segretario della sezione padovana del Movimento Sociale Italiano.
Una volta relazionato in merito al primo interrogatorio di Patrese, Pasquale Juliano capisce che la svolta delle indagini che attendeva da settimane, è finalmente arrivata. A questo punto avrebbe voluto subito reinterrogare il giovane missino ma, non essendoci né Salomone né Molino – usciti per mangiare un boccone – deve per forza attendere. Nel frattempo, il solerte funzionario si dà da fare per organizzare tutto il lavoro che, da lì a qualche ora, sarebbe sfociato in controlli e perquisizioni a tappeto fra le provincie di Padova e Vicenza. Organizza con cura gli equipaggi delle auto mescolando i suoi uomini con quelli dell’Ufficio Politico, nomina i capisquadra e dà, ad ognuno, un luogo preciso da controllare. Alla fine Juliano, esauriti tutti i compiti che poteva svolgere e sollecitato dal maresciallo Noventa, acconsente ad andare a cena.
Quando il Capo della Squadra Mobile ed il suo maresciallo rientrano in Questura, Giancarlo Patrese è nuovamente sotto interrogatorio, incalzato dai commissari Molino e Salomone.
Pasquale Juliano (ex questore): «Quando io e Noventa rientrammo in ufficio, Salomone e Molino stavano interrogando Giancarlo Patrese. Entrai pure io nella stanza degli interrogatori per ascoltare cosa avesse da dire.»
Il copione del secondo interrogatorio è identico al primo: da una parte i poliziotti chiedono e richiedono a Patrese se sapesse cosa ci fosse all’interno del pacco; dall’altra Patrese risponde di non saperne nulla. E più i poliziotti lo incalzano, più Patrese nega. E mentre Juliano ascolta attentamente in religioso silenzio, ecco che Molino e Salomone chiedono al giovane fermato chi gli avesse consegnato materialmente il pacco contenente la pistola e l’esplosivo. Mai e poi mai i tre commissari si sarebbero aspettati la risposta che Patrese diede a quella domanda: a dargli quel pacco di cui lui assolutamente ignorava il contenuto, era stato nientemeno che Nicolò Pezzato quando si erano incontrati quel giorno.
Nella stanza degli interrogatori scende il gelo: Juliano, Molino e Salomone si guardano attoniti perché non hanno la minima idea di cosa diavolo stesse succedendo. Ma soprattutto, ad essere sconcertato e a rimanere senza fiato quasi avesse ricevuto un pugno nello stomaco, è proprio Pasquale Juliano che non capisce perché il suo confidente abbia consegnato dell’esplosivo a Patrese.
I tre poliziotti, senza proferire parola ma intendendosi solamente con lo sguardo, proseguono l’interrogatorio per capire come si siano svolti i fatti e cosa c’entrasse Pezzato in quella faccenda che iniziava a farsi davvero intricata. A tal proposito, quindi, Molino e Salomone ripartono con domande a raffica tese a ricostruire i movimenti di Giancarlo Patrese di quel 16 giugno 1969.
Secondo quanto Patrese riferisce alla Polizia, dalle 7:00 del mattino alle 14:00 o poco più, sarebbe stato in posta, a lavorare. Alle 11:00 circa, mentre stava lavorando, avrebbe ricevuto la visita di Nicolò Pezzato e di uno studente che conosceva di vista e di cui sapeva solo il cognome, tale Marinoni. I due volevano che Patrese consegnasse loro le chiavi della sezione dell’MSI che, in quei giorni, Patrese custodiva per poter esporre la bandiera a lutto in seguito alla morte di Arturo Michelini, l’allora segretario nazionale del Movimento Sociale Italiano. Non avendo con sé le chiavi e non potendo lasciare il lavoro perché l’orario non era ancora terminato, Patrese avrebbe invitato i due ad andare a casa sua e farsele consegnare da sua moglie. Trascorso poco tempo da quando i due avevano l’asciato l’ufficio postale, secondo il racconto di Patrese, sua moglie gli avrebbe telefonato in ufficio per farsi autorizzare a consegnar loro le chiavi. Verso 14:15, Patrese sarebbe tornato a casa per pranzo e, intorno le 15:30, si sarebbe recato alla sezione dell’MSI per verificare cosa Pezzato e Marinoni stessero facendo.
Gli investigatori pesano ogni parola che Patrese pronuncia, incerti se credergli o meno. Juliano, fra i tre, continua ad essere il più incredulo per via del nuovo ruolo che Pezzato sembrava avere nelle indagini. È ormai notte inoltrata e Giancarlo Patrese prosegue col suo racconto.
Giunto alla sede dell’MSI e non vedendo né Pezzato e né Marinoni, Patrese si sarebbe fermato ad attenderli. Ma avrebbe notato, nella cassetta delle lettere vicino all’ingresso, l’avviso di telegramma lasciato dal postino. E siccome gli uffici postali erano ancora aperti, Patrese avrebbe deciso di andare a ritirarlo. Nel mentre sarebbe arrivato Pezzato e, insieme, sarebbero andati a prendere il telegramma – annunciante i funerali dell’onorevole Michelini per il giorno 17 giugno 1969 – per poi consegnarlo all’avvocato Luci quale segretario provinciale. Una volta giunti allo studio dell’avvocato in via S. Fermo, Patrese e Pezzato, dopo avergli lasciato il telegramma, si sarebbero fatti dare la somma di 10.000 lire per organizzare il viaggio della delegazione padovana dell’MSI che, a Roma, avrebbe presenziato ai funerali dell’onorevole Michelini. Usciti dallo studio dell’avvocato, i due sarebbero tornati alla sede dell’MSI per sbrigare alcune faccende ed attendere di ritornare nuovamente, verso le 19:00, dall’avvocato Luci per farsi dare altri soldi poiché la somma ricevuta nel pomeriggio non sarebbe stata sufficiente per tutte e cinque le persone che avrebbero composto la delegazione. Venuti via dallo studio dell’avvocato ottenendo altre 3.000 lire, Pezzato avrebbe chiesto a Patrese di accompagnarlo in piazza dell’Insurrezione dove avrebbe dovuto ritirare delle cose.
Patrese, acconsentendo alla richiesta di Pezzato, si sarebbe così diretto verso piazza dell’Insurrezione, sapendo che, al numero 15, ci abitava Massimiliano Fachini. Percorso il tragitto in silenzio e giunti a destinazione, i due sarebbero entrati nel palazzo e preso l’ascensore per salire al terzo piano. Arrivati sul pianerottolo, Pezzato avrebbe chiesto a Patrese di aspettarlo lì e si sarebbe infilato dentro un appartamento la cui porta di ingresso era stata lasciata aperta. Trascorso qualche minuto, Pezzato ne sarebbe uscito con un pacco in mano.
Pasquale Juliano (ex questore): «Patrese raccontò che, quando Pezzato fu uscito dall’appartamento, gli avrebbe consegnato il pacco e gli avrebbe ordinato di scendere al pianterreno con l’ascensore. Aggiunse che l’avrebbe seguito a momenti prendendo le scale. Patrese avrebbe quindi preso l’ascensore e sarebbe sceso al pianterreno dove, in attesa di Pezzato, avrebbe chiacchierato col portinaio, il signor Alberto Muraro. Poi sarebbe uscito in strada e lì sarebbe stato fermato dalla Polizia. Ovviamente ripeté più volte che Pezzato non gli disse alcunché in merito al contenuto del pacco, e che mai e poi mai avrebbe avuto intenzione di organizzare qualsivoglia attentato dinamitardo servendosi dell’esplosivo col quale lo avevamo sorpreso.»
Pasquale Juliano, che aveva seguito l’interrogatorio di Giancarlo Patrese per filo e per segno senza dire una parola, esce dalla stanza degli interrogatori e chiama i poliziotti che erano stati in appostamento dinanzi alla casa di Fachini per tutta la giornata del 16 giugno.
Pasquale Juliano (ex questore): «Dopo aver ascoltato attentamente l’interrogatorio di Patrese ed appreso del coinvolgimento di Pezzato, chiamai Noventa, Barozzi e Mariuzza. Chiesi loro se, oltre a Patrese, avessero visto qualcun altro entrare con lui all’interno del palazzo dove abitava Fachini. Tutti e tre, sicuri del loro dire, risposero che in compagnia di Patrese non c’era stato nessuno, eccezion fatta per il portiere dello stabile. Ma soprattutto dissero che Pezzato non era mai entrato né uscito da quel palazzo. L’unico momento in cui lo avevano visto, era quando era venuto in pizzeria per parlarmi.»
Per
capire cosa stesse effettivamente succedendo, a Juliano non rimane altro da
fare che sentire direttamente Nicolò Pezzato. Insieme al maresciallo Noventa, sale sull’auto di servizio e si dirige presso l’abitazione del confidente, sita in
via Perosi.
Pasquale
Juliano (ex questore): «Arrivati sotto la casa di Pezzato, scesi dall’auto di
servizio e suonai al citofono. Ci volle qualche minuto prima che rispondesse,
vista l’ora tarda. Gli dissi di scendere immediatamente perché dovevo
parlargli. Quando fu arrivato, lo caricammo in macchina perché dovevamo fargli
parecchie domande. Lui, per tutto il tragitto, rimase in silenzio. Quando lo
portammo nella stanza degli interrogatori, gli chiedemmo di riferirci cosa
avesse fatto quel giorno.»Nicolò Pezzato non si fa pregare e racconta agli investigatori tutti i suoi movimenti di quel 16 giugno 1969: verso mezzogiorno si trovava nei pressi della posta centrale di Padova dove sarebbe stato avvicinato da Marinoni e da Luigi Vettore Presilio, un altro militante di estrema destra. I due sarebbero andati da Pezzato per chiedergli se avesse visto Patrese in quanto dovevano farsi dare le chiavi della sede dell’MSI. Dopo pochi minuti, andatolo a chiamare, Patrese sarebbe uscito dall’ufficio ed avrebbe detto a Marinoni e a Vettore Presilio di andare a casa da sua moglie e farsi dare le chiavi da lei. I due si sarebbero quindi avviati verso la casa di Patrese mentre quest’ultimo avrebbe invitato Pezzato al bar – sito all’interno del medesimo stabile dove c’era anche l’ufficio postale – offrendogli un caffè. Pezzato avrebbe quindi lasciato Patrese e sarebbe rientrato presso la sua abitazione, dato che era ora di pranzo. Il confidente del commissario Juliano sarebbe poi uscito, verso le 15:40, per recarsi alla sede del Movimento Sociale. La porta era chiusa e lui sarebbe rimasto ad aspettare che qualcuno aprisse. Pochi minuti dopo sarebbe apparso Giancarlo Patrese che avrebbe aperto la sede e che gli avrebbe chiesto di accompagnarlo presso lo studio di Lionello Luci. Giunti dall’avvocato verso le 16:30, Patrese si sarebbe messo a discutere per farsi dare altri soldi per la trasferta romana della delegazione padovana dell’MSI. Tornati alla sede del Movimento Sociale, Pezzato sarebbe rimasto con Patrese fino alle 19:00 circa per poi accompagnarlo, nuovamente, dall’avvocato Luci dove Patrese doveva tornare per ritirare il resto del denaro promessogli dal segretario missino. Ma arrivati in via S. Fermo nei pressi dello studio dell’avvocato, Pezzato e Patrese si sarebbero definitivamente separati: Pezzato doveva assolutamente rientrare perché, quella sera stessa, avrebbe dovuto cenare fuori insieme a sua moglie, ai suoi amici Francesco Tommasoni, Giuliano Comunian e le rispettive fidanzate.
Pasquale Juliano (ex questore): «Pezzato riferì di essere rientrato a casa intorno alle 19:30 e lì cominciò a litigare con sua moglie. Quella sera dovevano andare per cena fuori Padova – a Murelle – e il mio confidente, secondo sua moglie, era rincasato troppo tardi. Fra il ritardo di Pezzato ed il tempo impiegato a litigare, il quintetto rinunciò all’uscita e rimase a casa di Pezzato. Verso le 22:00, i tre uomini si recarono al bar sotto casa di Pezzato per bere qualcosa e parlare ancora un po’ trattenendosi lì fin oltre la mezzanotte. Rientrato a casa, Pezzato andò a coricarsi e rimase a letto finché non arrivammo noi per portarlo in Questura.»
Incalzato dal commissario Juliano che vuole sapere se gli stia dicendo o meno la verità, Nicolò Pezzato conferma il suo racconto e nega apertamente sia di aver ricevuto il pacchetto da Fachini, sia di averlo consegnato a Giancarlo Patrese. Nega, altresì, di essere a conoscenza che, dentro il pacco, vi fossero dell’esplosivo e una pistola Beretta. E per confermare la sua buona fede, invita il commissario a perquisire casa sua perché è sicuro di non aver nulla da nascondere. Il Capo della Squadra Mobile non se lo fa ripetere due volte e, insieme al maresciallo Noventa, si porta presso l’abitazione di Pezzato ed effettua la perquisizione che, come il confidente aveva predetto, non dà alcun risultato: i poliziotti non trovano nulla di rilevante ed attinente alle indagini sui presunti depositi di armi ed esplosivo del gruppo di Massimiliano Fachini.
La situazione è abbastanza confusa: nemmeno il confronto diretto fra Pezzato e Patrese porta ad una versione univoca dei fatti: entrambi rimangono fermi sulle rispettive posizioni col primo che nega di essere andato in piazza dell’Insurrezione, e il secondo che afferma il contrario. A Juliano, quindi, per sbrogliare l’intricata matassa, non resta che convocare, quanto prima, il portiere dello stabile al numero 15 di piazza dell’Insurrezione 26 aprile: Alberto Muraro.
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