25 dicembre 2020

LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA (puntata n° 2)

Ora cambiamo scena: usciamo dalla rotonda della Banca Nazionale dell’Agricoltura e spostiamoci più avanti, tra via Beccaria e piazza San Babila.
Il centro del capoluogo lombardo è illuminato a festa: le luci delle vetrine dei negozi e delle luminarie si riflettono sulle gocce di pioggia che bagnano le automobili. Fa molto freddo ma, come abbiamo visto, per strada c’è moltissima gente che gira per i negozi e che, nei bar, sorseggia un caffè o beve il primo aperitivo della serata. Agli angoli delle strade ci sono i venditori di caldarroste mentre, sotto i portici, gli zampognari allietano i passanti con le loro nenie natalizie.
È tutto perfetto, quasi magico: i tumulti di quel periodo – tutto il 1968 e buona parte del 1969 – sembrano appartenere ad un’epoca remota e, in quel 12 dicembre, tutto ciò che è stato non importa più a nessuno. Il giornalista e scrittore Daniele Biacchessi, descrivendo quei giorni, dirà: «Tutti noi italiani ci sentivamo felici, immortali, allegri, innocenti.»
Nel punto in cui ci siamo spostati, all’improvviso appare un’immagine che stride totalmente con l’atmosfera natalizia che abbiamo appena descritto: l’immagine è quella di un uomo che corre disperatamente. Ha le braccia alzate – sembra si stia arrendendo – ed urla come un pazzo. Ha i vestiti tutti bruciacchiati ed è ferito: il sangue gli copre entrambe le mani e parte del volto perché ha un taglio profondo sulla testa. La gente che lo incontra cerca di calmarlo senza riuscirci. Pronuncia frasi sconnesse ed è visibilmente sotto shock. Ma anche se l’uomo fatica ad esprimersi e a farsi capire, con la mano sporca di sangue continua ad indicare un punto preciso in fondo a via Beccaria: lì c’è piazza Fontana.
Cos’è successo in piazza Fontana?
Fortunato Zinni (ex dipendente e funzionario della Banca Nazionale dell’Agricoltura): «Mi trovavo al mio posto di lavoro, allo sportello 15, a cui avevo fatto ritorno dopo aver regolarizzato una contrattazione tra i signori Paolo Gerli e Gerolamo Papetti. Poco dopo le 16:30 sono stato chiamato al piano rialzato per delle questioni di lavoro. Mi sono così spostato da dietro il bancone per andare di sopra. Una volta giunto nel locale dove mi attendevano, mi sono reso conto di non aver dato, ai due agricoltori, la ricevuta della transazione appena conclusa. Mi sono avvicinato ad una delle finestre e l’ho aperta per chiamarli. Ma di sotto, nella sala delle contrattazioni, c’era troppo chiasso e, visto che i due non mi sentivano, ho quindi chiuso la finestra appoggiandomi con la schiena contro di essa.»
Per recarsi al piano rialzato, il signor Zinni deve attraversare il salone delle contrattazioni. Lì ci sono il signor Silva che parla coi suoi vecchi amici ed il signor Gaiani che deve vendere le sue mucche. Ci sono il signor Arnoldi, che deve mediare sulla compravendita della cascina di Lodi, ed il signor Dendena che, al tavolo ottagonale, non riesce a capire da dove provenga quello strano odore di bruciato che sente da quando si è seduto. Ci sono poi Patrizia ed Enrico che, in coda allo sportello, attendono il loro turno per conto dei loro genitori.
Chiunque veda il signor Zinni passare, lo ferma per un consiglio, per una domanda, o perché ha bisogno della sua presenza per concludere una transazione.
Fortunato Zinni (ex dipendente e funzionario della Banca Nazionale dell’Agricoltura): «Stavo parlando coi miei colleghi quando, alle 16:37, ci fu un botto colossale. Mi ritrovai a terra, disteso, circa cinque metri più avanti rispetto al punto in cui stavo. Ero disorientato e non capivo cosa fosse accaduto… Non vedevo niente perché era tutto buio.»
È successo che, nel centro della rotonda, proprio sotto al tavolo ottagonale, si è verificata una tremenda esplosione. La fiammata è dapprima andata giù, scavando un buco di circa un metro di diametro sul pavimento, e poi è andata su, investendo chi si trovava nelle immediate vicinanze come il signor Dendena. L’onda d’urto ad altissimo potenziale ha distrutto completamente il tavolo ottagonale, le vetrate degli sportelli, quelle del piano rialzato e quelle a cupola sopra la rotonda, finendo per scaricarsi quasi completamente sul lato sinistro del salone della banca. Pezzi di muro, frammenti di legno e di vetro, macchine da scrivere, timbri e penne vengono scagliati tutt’intorno come fossero proiettili che feriscono, dilaniano, lacerano ed uccidono ogni persona che incontrano sulla loro traiettoria. Vanno in frantumi pure le vetrate esterne della banca: la violenza dell’esplosione è così elevata che molti frammenti arrivano fino al vicino ristorante L’Angelo e sui palazzi vicini. Addirittura, diverse persone che si trovavano vicino all’entrata dell’istituto di credito, vengono sbalzate all’esterno, in mezzo alla strada, come accade nei film d’azione.
Fortunato Zinni (ex dipendente e funzionario della Banca Nazionale dell’Agricoltura): «Cercai di rialzarmi in piedi pur essendo disorientato. Molti colleghi, anch’essi feriti, correvano verso l’esterno della banca per mettersi in salvo. La stessa cosa la facevano i clienti… C’era una confusione estrema e, quando mi rimisi in piedi, cercai di scendere di sotto. Quando giunsi nel salone, sentii squillare i telefoni che si trovavano sul bancone. Afferrai una delle cornette e, dall’altro capo del telefono, un poliziotto del centralino della Questura di Milano mi chiese cosa fosse successo perché, da loro, era scattato l’allarme che identificava la nostra banca. Io gli risposi che c’era stato un boato forte ma che non sapevo nulla di più. Il poliziotto, rimanendo in linea, mi chiese di andare a vedere e di dirgli quale fosse la situazione. La scena che mi si parò davanti era agghiacciante: c’erano distruzione e devastazione ovunque. Le urla delle persone ferite si mescolavano all’odore acre di bruciato. C’era un buco sul pavimento e, al suo fianco, una sedia miracolosamente intatta. Ad un tratto un signore mi prese per i pantaloni chiamandomi per nome. Era in un lago di sangue ed aveva una gamba tranciata di netto… Mi implorava di aiutarlo ma io non sapevo cosa fare. Mi inginocchiai ed iniziai a piangere e a tremare…»
L’esplosione uccide il signor Pietro Dendena ma anche i signori Carlo Gaiani e Giovanni Arnoldi. Muoiono Carlo Silva, i signori Gerolamo Papetti, Paolo Gerli ed altre otto persone. Patrizia ed Enrico riescono a salvarsi ma rimangono gravemente feriti: Patrizia riporterà ustioni gravi in buona parte del corpo mentre Enrico, investito maggiormente dall’esplosione, oltre alle ustioni perderà parte del piede sinistro e tre dita del piede destro.
I primi soccorsi si materializzano nella persona di Michele Priore: è un allievo sottufficiale di Pubblica Sicurezza che, al momento dello scoppio, si trova sull’autobus della linea N che passa da piazza Fontana transitando dinanzi alla Banca Nazionale dell’Agricoltura.
Insieme al resto dei passeggeri vede il bagliore dell’esplosione e la sente anche: l’autobus, investito dall’onda d’urto, traballa mentre continua a muoversi lentamente davanti alla banca distrutta. Priore non crede ai suoi occhi ma poi, ripresosi dallo shock, attraversa il pullman in direzione del conducente a cui ordina di fermarsi. L’autista dell’ATM, anch’esso scosso dalla scena cui aveva appena assistito, ferma il mezzo e Priore, di corsa, si precipita verso la Banca Nazionale dell’Agricoltura.
Il poliziotto dapprima vede i superstiti che, feriti ed ustionati, escono dall’istituto di credito barcollando come fossero degli zombie. Ma è quando entra nella banca che non crede ai suoi occhi: un uomo senza un braccio è in piedi dinanzi a lui e gli si avvicina implorandolo di aiutarlo ma, nel momento in cui Priore reagisce, l’uomo cade a terra svenuto. Dentro la rotonda è un inferno: sul pavimento, tre persone strisciano per allontanarsi. Il sottufficiale riesce a distinguere chiaramente solo una donna perché le altre due sono talmente ustionate da essere irriconoscibili.
L’aria è irrespirabile perché l’odore di bruciato – misto a quello di carne umana carbonizzata e di sangue – soffoca ogni respiro. Ma il poliziotto, pur volendo scappare via da quel girone dantesco, rimane per prestare soccorso a tutti coloro che ne avessero bisogno. Vede il buco che, nel centro della sala, è circondato da frammenti di legno, pezzi di corpi umani, organi interni e materia cerebrale. Sotto un mucchio di macerie, di detriti e di corpi dilaniati, Michele Priore vede una mano che si muove: quando l’allievo sottufficiale l’afferra, convinto appartenga ad un superstite, si rende conto che si tratta di un braccio staccato di netto.
Michele Priore non è il solo che tenta di dare una mano agli sventurati che, alle 16:37 del 12 dicembre 1969, si trovavano dentro alla Banca Nazionale dell’Agricoltura; c’è anche don Corrado Fioravanti – l’allora parroco di Cinisello Balsamo – che si trovava lì per depositare i proventi di una cooperativa che gestiva una fabbrica di aceto che lo stesso parroco aveva contribuito a creare.
Don Corrado si salva solo perché si trovava dietro una delle colonne del salone che, al momento dell’esplosione, gli ha fatto da scudo. Anche lui, come Priore, non crede a ciò che i suoi occhi stanno vedendo: gente letteralmente a pezzi, senza arti o con intere parti del corpo liquefatte dal calore dell’esplosione, che grida, urla e si lamenta per il dolore delle ferite riportate.
Don Corrado Fioravanti (ex parroco di Cinisello Balsamo): «Una scena apocalittica, da inferno sulla terra. Mi è venuta incontro una ragazza senza un braccio. Con l’altro mi ha tirato la tonaca implorandomi di aiutarla. Anche altri mi hanno tirato la veste. Uno gridava di non sentire più la gamba… Ed era vero perché la gamba non l’aveva più. Ma c’era anche chi, oltre ad essere rimasto senza una gamba, aveva perso anche un braccio: così, atrocemente mutilata, giaceva a terra una ragazza. E poi altre voci che mi chiedevano di toglier loro di dosso pezzi di tavolo, sedie, macerie. Io toglievo… E più toglievo, più trovavo gente mutilata o quasi sciolta o che ancora bruciava rotolandosi a terra in fiamme. Uno scempio… Uno scempio… Ho pregato per tutti loro: per quelle maschere di sangue, per quei ventri squarciati e per quei poveri brandelli di sangue. Ho dato a tutti l’assoluzione, la benedizione di Dio.»
Il bilancio dell’esplosione di piazza Fontana è spaventoso, il più alto mai registrato in Italia in tempo di pace: i morti sul colpo sono dodici. Diventeranno tredici il mattino dopo e sedici nei giorni successivi. La diciassettesima vittima giungerà all’appello addirittura quattordici anni più tardi – nel 1983 – a causa di un’infezione aggravata dalle ferite riportate in piazza Fontana. I feriti, invece, annoverati tra gli impiegati della banca, i clienti ed i passanti, sono ottantasei.
Diciassette morti ed ottantasei feriti: una strage.


L'esterno della Banca Nazionale dell'Agricoltura subito dopo l'esplosione (fotografia reperita su Archivio De Bellis - Fotogramma)


L'esterno della Banca Nazionale dell'Agricoltura subito dopo l'esplosione (fotografia reperita su Internet)


L'interno della Banca Nazionale dell'Agricoltura subito dopo l'esplosione (fotografia reperita su Archivio De Bellis - Fotogramma)


L'interno della Banca Nazionale dell'Agricoltura subito dopo l'esplosione (fotografia reperita su Internet)


L'interno della Banca Nazionale dell'Agricoltura subito dopo l'esplosione (fotografia reperita su Internet)


L'interno della Banca Nazionale dell'Agricoltura subito dopo l'esplosione (fotografia reperita su Internet)


L'interno della Banca Nazionale dell'Agricoltura subito dopo l'esplosione (fotografia reperita su Internet)


Il corpo di una delle vittime (fotografia reperita su Internet)


L'interno della Banca Nazionale dell'Agricoltura subito dopo l'esplosione (fotografia reperita su Archivio De Bellis - Fotogramma)


L'interno della Banca Nazionale dell'Agricoltura subito dopo l'esplosione (fotografia reperita su Archivio De Bellis - Fotogramma)


L'interno della Banca Nazionale dell'Agricoltura subito dopo l'esplosione (fotografia reperita su Archivio De Bellis - Fotogramma)


L'interno della Banca Nazionale dell'Agricoltura subito dopo l'esplosione (fotografia reperita su Archivio De Bellis - Fotogramma)


L'interno della Banca Nazionale dell'Agricoltura subito dopo l'esplosione (fotografia reperita su Archivio De Bellis - Fotogramma)


Il buco sul pavimento della sala delle contrattazioni causato dall'esplosione (fotografia reperita su Internet)


Il buco sul pavimento della sala delle contrattazioni causato dall'esplosione (fotografia reperita su Internet)


Uno dei superstiti mentre esce, con le sue gambe, dalla Banca Nazionale dell'Agricoltura (fotografia reperita su Archivio De Bellis - Fotogramma)


Una vittima viene caricata sul furgone degli addetti dell'obitorio (fotografia reperita su Archivio De Bellis - Fotogramma)

12 dicembre 2020

LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA (puntata n° 1)

La storia che sto per raccontarvi è la prima di una lunga serie di storie brutte, di quelle storie che, solo a sentirle, fanno venire i brividi per tutto il corpo. Come ha detto il giudice Guido Salvini, all'inizio del suo libro La maledizione di piazza Fontana, «questa è una storia che non vorrebbe essere scritta e che nessuno vorrebbe scrivere». È una storia fatta di morti, di feriti e di attentatori. Ma è anche una storia fatta di depistaggi, dove alcuni “pezzi” dello Stato hanno agito, nell’ombra, proprio contro quello Stato che avrebbero dovuto servire e proteggere: questa è la storia della strage di piazza Fontana.
La nostra storia inizia il 12 dicembre 2020, di sabato. Il centro città è vestito a festa nonostante l'annus horribils che stiamo vivendo a causa dell'epidemia di Covid-19.
In piazza Duomo, lo stile gotico e rigoroso della cattedrale sormontata dalla “Madunìna” contrasta col rosso sfavillante del tecnologico albero targato Coca-Cola mentre, poco più in là, nella galleria Vittorio Emanuele II, le luminarie col logo del Comune di Milano sormontano l'albero di Swarovski i cui cristalli, scintillando, regalano tutt’attorno un’atmosfera magica degna di una favola per bambini. In via Monte Napoleone e in via della Spiga le griffe del “quadrilatero della moda” attendono la gente facoltosa che può permettersi di acquistare nei loro atelier mentre La Rinascente di piazza Duomo aspetta l’arrivo della gente comune per dare il via allo shopping natalizio.
Ma lasciamo la Milano di oggi in tempo di pandemia e facciamo un salto indietro di cinquantun anni: è il 12 dicembre 1969. È venerdì e mancano tredici giorni a Natale. La giornata è grigia, fredda e piovosa. Sono le 16:30 ed il centro di Milano è affollato dalla gente che, com’è stato fino all’anno scorso, guarda le vetrine dei negozi alla ricerca dei regali per i propri cari.
Al cinema Rivoli danno Un uomo da marciapiede (con Dustin Hoffman) e all’Excelsior Nell’anno del Signore (con Nino Manfredi). Al Teatro alla Scala va in scena Il Barbiere di Siviglia di Gioacchino Rossini.
Nei bar Haiti e Barba si servono caffè in continuazione – 50 lire il costo di una tazzina – mentre da Savini, pasticcini e torte addolciscono il palato degli avventori infreddoliti da quella grigia giornata di dicembre su cui è già calata la sera.
A pochi passi da piazza Duomo c’è una piccola piazza che si chiama piazza Fontana. Il suo nome deriva proprio da quella fontana che si trova nel centro della grande aiuola e che è la prima costruita a Milano per opera dell’architetto Giuseppe Piermarini.
In piazza Fontana c’è una banca che si chiama Banca Nazionale dell’Agricoltura e che ha sede in un edificio solido e squadrato di tre piani, dalla forma pentagonale, situato di fronte alla Curia arcivescovile. La Banca Nazionale dell’Agricoltura non è una banca qualsiasi: oltre alle normali operazioni bancarie di routine, per una concessione governativa risalente agli anni Venti, funge anche da mercato per le contrattazioni di allevatori, agricoltori e produttori di mangime. È una banca molto grande: conta quasi trecento dipendenti e proprio quel venerdì, giorno di contrattazioni, è affollata da allevatori, agricoltori e fittavoli provenienti da quasi tutta la Lombardia.
Fortunato Zinni (ex dipendente e funzionario della Banca Nazionale dell’Agricoltura): «Quel pomeriggio la banca era piena di gente. L’atmosfera era di festa, anche se la giornata era uggiosa e molto buia. Milano era addobbata ed illuminata a giorno. Contrariamente a tutte le altre banche del centro che avrebbero chiuso alle 16:30, noi avremmo continuato l’orario dello sportello fino alle 17:30 perché il venerdì era giorno di mercato. Nel salone della banca ci saranno state circa duecento persone. Io stavo dietro allo sportello numero 15 che era riservato alle contrattazioni ma, dovendo poi avallarle di persona, continuavo a fare la spola tra il mio posto e la sala.»
Fortunato Zinni, classe 1940, è originario di Roccascalegna, un paesino in provincia di Chieti situato sull’Appennino abruzzese. Rimasto orfano di padre – morto nel 1941 durante la Seconda Guerra mondiale sul confine albanese – a 5 anni viene spedito in orfanotrofio dove resterà sino al conseguimento della maturità in ragioneria. Inizia presto a collaborare con la locale redazione del quotidiano Il Messaggero per poi passare a quella di Roma dove si trasferirà. Interrotti gli studi universitari che nel frattempo aveva intrapreso, Zinni emigra in Svizzera – a Lucerna – dove dapprima farà il muratore, poi l’operaio in una vetreria e, infine, l’impiegato in una ditta di import/export. Nel 1962 rientra in Italia e si stabilisce a Bresso, nell’hinterland di Milano. Inizia a lavorare nella filiale monzese della Banca Nazionale dell’Agricoltura per poi essere assegnato, nel 1963, nella sede principale di piazza Fontana.
Impiegato ormai esperto, Fortunato Zinni è “l’uomo delle contrattazioni”: all’epoca, in una realtà molto diversa da quella di oggi, le transazioni tra acquirenti e venditori si chiudevano con una stretta di mano su cui i mediatori apponevano le proprie sancendo il buon esito della trattativa. Un altro metodo che i mediatori – e lo stesso Zinni – utilizzavano, era quello di “spaccare” letteralmente la stretta di mano tra gli attori col taglio della propria mano.
La sala di cui parla Zinni è situata proprio al centro della banca: di forma circolare e sormontata da due grandi vetrate a cupola – i dipendenti della banca ed i clienti la chiamano “la rotonda” – ha, nel centro, un grande tavolo ottagonale. Fatto di pesante legno di mogano e circondato da numerose sedie, questo tavolo viene utilizzato dai clienti per compilare le distinte di pagamento, gli assegni e discutere dei loro affari.
Tra le persone che affollano la rotonda, c’è un signore che si chiama Giovanni Arnoldi: ha 42 anni e viene da Magherno – in provincia di Pavia – dove il signor Arnoldi possiede un cinema, il cinema Nuovo. Arnoldi lo apre nel 1952, dopo essersi fatto liquidare la sua quota dell’azienda agricola di famiglia. L’attività del cinema va molto bene nei primi anni ma poi, con l’avvento della televisione in molte case del paesino della campagna pavese, gli affari iniziano a peggiorare. Avendo una famiglia sulle spalle – sua moglie Costantina ed i figli Carlo e Giuseppina – Arnoldi decide di tornare al suo vecchio lavoro di agricoltore affiancandolo alla gestione del cinema. Affitta una stalla, dei terreni ed inizia pure a vendere bestiame. Essendo molto bravo, Arnoldi diventa presto anche mediatore e, proprio per questo motivo, quel giorno si trova lì, in piazza Fontana.
Carlo Arnoldi (figlio di Giovanni Arnoldi): «Quel giorno papà avrebbe dovuto restare a casa. C’era parecchia nebbia e lui non stava bene. Avrebbe dovuto recarsi a Milano ma, non sentendosi al meglio, aveva rinviato i suoi appuntamenti al venerdì successivo. Verso le 15:00, però, ha ricevuto la telefonata di un agricoltore di Lodi che doveva comprare una cascina e che necessitava urgentemente della sua presenza a Milano, in piazza Fontana. Papà, di malavoglia, si è vestito e, con la sua auto, si è diretto verso il capoluogo.»
È proprio in quel momento che in banca entra, di corsa e tutto trafelato, il signor Pietro Dendena. Uno degli agricoltori – suo amico – lo vede e gli cede il suo posto al tavolo ottagonale. Mentre Dendena cerca il taccuino delle mediazioni all’interno della giacca, avverte un odore strano. E difatti lo dice all’amico che gli ha lasciato la sedia: «Sento un odore strano. Un odore di bruciato.»
Pietro Dendena ha 45 anni ed è di Lodi: anche lui fa il mediatore agricolo e quel pomeriggio, con sua moglie, è stato in provincia di Cremona ai funerali di un congiunto. Dovendo però correre a Milano per curare i suoi affari, affida la moglie ad uno dei parenti presenti alle esequie e se ne va. Ha fretta il signor Pietro: il giorno dopo sarà S. Lucia che, a Lodi, è quasi come fosse Natale e lui, dopo aver sbrigato le mediazioni, avrebbe comprato i regali per i suoi figli Francesca e Paolo. Parcheggia vicino al palazzo di giustizia e, dopo aver consegnato le chiavi della sua vettura al parcheggiatore, si mette a correre in direzione della Banca Nazionale dell’Agricoltura.
Tra gli oltre duecento clienti che affollano il salone della banca, ci sono anche Carlo Silva e Carlo Gaiani. Il primo ha 71 anni e vive in provincia di Lodi: ex agente di commercio di una ditta di lubrificanti per macchine agricole ed ormai in pensione, il signor Silva non ha perso il vizio di recarsi al mercato del venerdì per incontrare gli amici ed i conoscenti che, in tanti anni di lavoro, aveva collezionato. A casa lo aspettano la moglie e i due figli. Il secondo, invece, ha 57 anni, abita a Milano ed è il proprietario di un podere che si trova ai confini della città, vicino al Parco Forlanini. Quel giorno si trova in banca per vendere del bestiame. È molto preoccupato, il signor Gaiani: gli affari non vanno affatto bene perché il vicino aeroporto di Linate continua ad espandersi e teme che presto, oltre alle sue ultime quattordici mucche, dovrà vendere anche il terreno.
Poi c’è anche un bambino che si chiama Enrico Pizzamiglio: ha 12 anni ed è in compagnia della sorella quindicenne Patrizia. Patrizia ed Enrico sono in coda ad uno degli sportelli perché i genitori, che lavorano nell’edicola che gestiscono, li hanno mandati in banca per pagare una cambiale e delle bollette. Enrico non vede l’ora di uscire per andare a vedere i negozi e comprare i regali di Natale ma, per farlo, dovrà per forza aspettare, in banca insieme a sua sorella, che i genitori vadano a prenderli non appena avranno finito di lavorare.
Infine c’è un uomo: è uno come tanti, uno che nessuno nota e che fa di tutto per non farsi notare. Dopo essere entrato in banca, va verso la rotonda e si dirige al tavolo ottagonale. Le sedie sono tutte occupate dai clienti che stanno compilando, scrivendo, chiacchierando tra di loro mentre mostrano, gli uni agli altri, i regali che hanno acquistato per le loro famiglie. Non appena una delle sedie si libera, l’uomo la occupa. Tra le mani regge una borsa di pelle nera, molto bella ed elegante, con la fibbia di metallo: è una Mosbach-Gruber, utilizzata soprattutto dai medici e dai giuristi.
L’uomo, facendo finta di niente e cercando di avere un atteggiamento più naturale possibile, poggia la borsa a terra e la spinge sotto al tavolo ottagonale. Attende qualche minuto e poi, sempre senza farsi notare né dare nell’occhio, si alza e se ne va. La borsa nera, invece, rimane sotto al tavolo, esattamente nel punto in cui l’uomo l’ha posizionata.


La sede dell'ex Banca Nazionale dell'Agricoltura di piazza Fontana, a Milano (fotografia reperita su Internet)