30 gennaio 2021

LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA (puntata n° 4)

Nelle ore immediatamente successive ai fatti di piazza Fontana, quasi tutti avevano pensato che, ad uccidere e ferire tutte quelle persone all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura, fosse stato lo scoppio della caldaia posta nel seminterrato dell’istituto di credito oppure quello di una tubatura del gas. Invece no: a fare quella strage di poveri innocenti, è stata una bomba.
Gli indizi trovati sul luogo dell’esplosione dagli esperti della Scientifica, non lasciano dubbi: vicino a quello strano buco sul pavimento, ci sono pezzi di metallo fuso mescolati ai resti di una borsa di pelle. Non solo: all’interno della banca di piazza Fontana, oltre all’odore di carne bruciata, ce n’è un altro più dolce simile a quello di mandorla che è tipico dell’esplosivo al plastico. Dalle analisi sui reperti recuperati alla Banca Nazionale dell’Agricoltura e sulla devastazione causata a cose e persone, la Scientifica affermerà, senza alcuna incertezza, che ci sia voluto circa un chilogrammo e mezzo di gelignite chiuso e compresso dentro ad una cassetta portavalori contenuta nella borsa di pelle. In sintesi, un ordigno ad alto potenziale che aveva dovuto svolgere due compiti quasi in contemporanea: rompere la cassetta metallica in cui era contenuto e rilasciare l’energia dal basso verso l’alto affinché causasse il maggior numero di danni possibile.
Ma l’attentato di piazza Fontana non sarà l’unico perché, sempre quel giorno, come raccontato dal telegiornale della sera, una bomba inesplosa verrà ritrovata ancora a Milano mentre, a Roma, di bombe ne esploderanno addirittura tre.
Poco distante da piazza Fontana c’è un’altra piazza che si chiama piazza della Scala. Lì, oltre al famoso Teatro alla Scala, c’è un’altra banca: la Banca Commerciale Italiana. Circa dieci minuti prima che scoppi la bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, un impiegato nota una borsa lasciata per terra vicino all’ascensore di servizio di un corridoio del pianterreno. La borsa è molto bella ed elegante: è una Mosbach-Gruber nera. L’uomo, pensando fosse stata dimenticata da qualche cliente, si avvicina e la prende.
La prima cosa che colpisce l’impiegato è il peso rilevante di quella borsa per cui, immaginando che all’interno ci fossero dei preziosi o comunque oggetti di un certo valore, decide di consegnarla ad un funzionario che la apre. Dentro, oltre ad una cassetta metallica portavalori chiusa a chiave, c’è una busta di plastica contenente una scatoletta, anch’essa di plastica, provvista di un disco graduato da zero a sessanta. Il disco emette uno strano rumore ma. senza porsi troppe domande, il funzionario mette la borsa in cassaforte nell’attesa di restituirla al legittimo proprietario. Poi, però, in piazza Fontana esplode la bomba e il direttore della Banca Commerciale Italiana, nel frattempo avvertito del ritrovamento della borsa di pelle che in quel momento è chiusa in cassaforte, si spaventa e chiama subito la Polizia.
Achille Serra (ex prefetto): «Mentre eravamo in piazza Fontana, giunse, dalla centrale operativa, una chiamata. Ci dissero di andare subito alla Banca Commerciale di piazza della Scala perché avevano trovato una borsa incustodita e avevano pensato si trattasse di una bomba. Io e dei colleghi ci recammo sul posto in pochissimi minuti, dato che distava pochi passi da dove ci trovavamo. Ricordo che il direttore era agitatissimo e non smetteva di parlare. Io cercai di calmarlo come potei dicendogli che non avrebbe più dovuto preoccuparsi di niente perché ci saremmo occupati noi di tutto. Quando arrivarono gli artificieri, presero in consegna la borsa e la portarono nel cortile della banca per verificare se si trattasse effettivamente di una bomba.»
Per gli inquirenti si tratta di un colpo di fortuna inatteso: la borsa rinvenuta intatta in piazza della Scala, rappresenta un tassello importantissimo per individuare i mandanti e gli esecutori materiali di quell’orribile attentato. Aiuterebbe a capire come sia stato confezionato l’ordigno, dove siano stati reperiti i componenti e chi li abbia acquistati. Ma, come abbiamo visto con la caduta di Alberto Muraro tre mesi prima della strage di piazza Fontana, anche quel 12 dicembre 1969 accade qualcosa.
Achille Serra (ex prefetto): «La borsa ritrovata alla Banca Commerciale venne portata nel cortile interno dell’edificio dagli artificieri. Io credevo che l’avessero portata lì per cederla alla Scientifica che avrebbe dovuto analizzarla. Invece, verso le 21:00 di quella stessa sera, fu ricoperta da diversi sacchi di cemento e fu fatta esplodere. Ricordo molto nitidamente l’odore di aglio bruciato che si sentì subito dopo la deflagrazione… Era l’odore tipico del tritolo.»
Ugo Paolillo (ex magistrato): «Andai anch’io, coi Carabinieri, alla sede della Banca Commerciale Italiana di piazza della Scala. Mi fecero entrare dal seminterrato e, mentre percorrevo il lungo corridoio che avrebbe dovuto portarmi dove avevano depositato la borsa, sentii una deflagrazione notevolissima. Ho pensato che la bomba fosse scoppiata in mano agli artificieri mentre la stavano mettendo in sicurezza. Mai avrei immaginato che la bomba fosse stata fatta saltare in aria apposta!»
In una storia normale, la Mosbach-Gruber nera sarebbe subito passata nelle mani della Scientifica affinché tutti i possibili indizi fossero catalogati e decifrati. Ma qui no: l’ingegner Teonesto Cerri – perito balistico presso il Tribunale di Milano che si sta occupando dell’analisi degli ordigni ritrovati nel capoluogo lombardo – teme che la bomba contenuta nella valigetta recuperata intatta alla Banca Commerciale possa esplodere, ripetendo il disastro avvenuto in piazza Fontana. Consiglia, quindi, di far saltare in aria la bomba e di repertane i resti. Il consiglio dell’ingegner Cerri viene subito accolto e qualcuno ordina agli artificieri di far “brillare” la valigetta ritrovata in piazza della Scala, facendo sì che tutte le potenziali prove vengano distrutte per sempre. Negli anni avvenire, diversi periti esperti di esplosivo, fra cui il maresciallo artificiere dell’Esercito Italiano Guido Bizzarri, affermeranno senza incertezza alcuna, che, per come era stata confezionata quella bomba, sarebbe stato meno pericoloso disinnescarla che farla esplodere.
Ugo Paolillo (ex magistrato): «La bomba ritrovata in piazza della Scala non doveva assolutamente essere fatta esplodere perché, se la si fosse analizzata, noi inquirenti avremmo trovato delle tracce utilissime per l’indagine ed avremmo, così, risparmiato un sacco di tempo prezioso.»
Ugo Paolillo nasce a Roma nel 1940 e, dopo la scuola superiore, si iscrive all’università laureandosi in giurisprudenza. Superato l’esame di stato per entrare in magistratura, prende servizio a Bologna per poi approdare, qualche anno dopo, alla Procura di Milano. Quando esplode la bomba in piazza Fontana, il sostituto procuratore Paolillo ha da poco compiuto 29 anni e, quel giorno, è proprio il magistrato di turno. Giudice onesto, molto attento agli abusi edilizi e lontano da ogni coinvolgimento politico, chiuderà la sua carriera di magistrato prima alla Procura di Rieti (sia in veste di pretore che di sostituto procuratore) e poi all’Aquila come consigliere di Corte d’Appello.
Ora, però, abbandoniamo Milano e spostiamoci verso sud di circa seicento chilometri. Andiamo a Roma, sempre quel giorno e quasi alla stessa ora: sono le 16:55 e la prima bomba esplode alla sede della Banca Nazionale del Lavoro di via S. Basilio.
L’esplosione avviene in un corridoio del seminterrato della banca dove ci sono il centralino ed alcuni uffici: a quell’ora, pur essendo chiuso, nell’istituto di credito ci sono una ventina di impiegati che stanno ancora lavorando. I vetri vanno in frantumi ed i detriti arrivano fino al lato opposto della strada. Fortunatamente non muore nessuno ma i feriti saranno quattordici. La seconda bomba scoppia alle 17:22 all’Altare della Patria, sotto il pennone della bandiera nei pressi della tomba del Milite Ignoto: il pennone si spezza e crolla una parte del basamento che lo sostiene. L’energia della deflagrazione è tale che i frammenti del basamento vengono scagliati tutt’attorno e finiscono per far crollare il cornicione di un palazzo vicino. La terza bomba esplode alle 17:30, sempre all’Altare della Patria ma sul lato opposto. Era stata lasciata sugli scalini che portano al Museo Centrale del Risorgimento e, quando scoppia, i vetri del museo vanno in pezzi mentre uno dei battenti della porta viene scagliato a diversi metri di distanza. Crolla anche parte del soffitto della basilica di S. Maria in Ara Coeli che si trova nei pressi del museo. Restano feriti in quattro: un carabiniere, accorso al Vittoriano dopo la prima esplosione, ed altre tre persone che, a bordo di una FIAT 600, si trovavano a transitare nei pressi del Vittoriano – l’altro nome con cui è noto l’Altare della Patria – nel momento esatto dell’esplosione.
Cinque bombe tutte nello stesso giorno e tutte nelle stesse ore. E, tra di esse, c’è quella di piazza Fontana che ha causato una strage. In Italia, una cosa del genere non si era mai vista né tantomeno immaginata.
Dopo lo scoppio della bomba in piazza Fontana ed il rinvenimento di quella inesplosa in piazza della Scala, gli inquirenti credono che si tratti di un atto dimostrativo finito male. Entrambe le bombe avrebbero dovuto solamente essere ritrovate o, alla peggio, dovevano scoppiare alcune ore dopo che le banche avevano chiuso. Quando però esplodono le bombe a Roma, appare chiaro che ci si trova dinanzi ad attentati studiati a tavolino con l’intento preciso di uccidere e ferire. Si tratta di un fatto nuovo che avrebbe potuto capitare ovunque e a chiunque: è un atto terroristico in piena regola.
Giorgio Boatti (giornalista e scrittore): «Io non credo assolutamente all’ipotesi dell’atto dimostrativo e che le bombe di Milano e di Roma fossero un errore. Si è detto che non dovevano esplodere o che dovevano scoppiare a diverse ore dalla chiusura delle banche. C’è un crescendo che lega gli attentati di Milano e di Roma: gli stessi ordigni confezionati allo stesso modo ed esplosi praticamente a pochi minuti di distanza gli uni dagli altri. Quei morti e quei feriti sono stati lucidamente voluti: la persona che ha messo la bomba sotto al tavolo della Banca Nazionale dell’Agricoltura lo ha fatto intenzionalmente. Ha visto i visi di quella povera gente, ha visto quelle persone parlare tra loro, scherzare, compilare i moduli per le transazioni. E, dopo esserseli guardati per bene, ha lasciato la valigetta sotto il tavolo ben sapendo che, da lì a pochissimo, sarebbero tutti morti.»
Ma perché quelle bombe? Perché uccidere tutta quella gente innocente che non aveva nessuna colpa?
Per capire il contesto in cui è maturato l’attentato di piazza Fontana, dobbiamo parlare di cosa accadde in Italia e nel mondo in quel periodo.
A partire dal 1968, in tutti i Paesi occidentali si creano movimenti spontanei ed eterogenei che si dichiarano apertamente avversi al sistema sociale e politico costituito, contestandone ideologie e politiche economico-sociali: negli Stati Uniti, accanto alle manifestazioni studentesche contro la guerra del Vietnam in cui l’America è ormai impegnata – senza sosta – dal 1955, ci sono le lotte della minoranza nera – capeggiata da Martin Luther King, Angela Davis e Malcom X – che mira ad ottenere gli stessi diritti dei bianchi soprattutto negli stati del sud dove la segregazione razziale è ancora una cruda realtà.
Anche l’Europa vive uno stato di cambiamento tumultuoso e repentino: in Francia, Inghilterra e Germania, dove pure nascono movimenti contro la guerra del Vietnam, le tensioni sociali vedono contrapposti i conservatori ad orde di studenti ed operai che si oppongono al colonialismo, alle riforme “tecnocratiche” delle università e che prendono le distanze dal conformismo “borghese” visto come la panacea di tutti i mali.
Diversa è la situazione dei Paesi europei aderenti al Patto di Varsavia: con l’avvento di Brežnev quale capo del Soviet supremo, qualsiasi spinta alla democratizzazione dell’Unione Sovietica viene meno. L’ingerenza dello stato nella vita dei cittadini è pressoché totale e ne controlla ogni aspetto. Tuttavia, nonostante la forte oppressione della Russia, in Cecoslovacchia la voglia di avere sistema statale che fosse meno centrale e dove la popolazione potesse partecipare maggiormente alla vita politica della nazione, fa montare la protesta degli studenti che passerà alla storia col nome di “Primavera di Praga”. Per tutta risposta, l’Unione Sovietica decide di porre un freno alle proteste occupando militarmente la Cecoslovacchia.
Il 1969 diventa così la naturale prosecuzione di ciò che era cominciato l’anno prima: la spinta liberista e rivoluzionaria diventa sempre più viva sfociando in fatti che rimarranno indelebili nella storia: è il 16 gennaio quando, in piazza San Venceslao a Praga, lo studente ventunenne Jan Palach, per protestare contro l’occupazione sovietica del suo Paese, si dà fuoco dopo essersi cosparso il corpo con della benzina. Morirà all’ospedale dopo tre giorni di agonia. Subito emulato da altri studenti, il gesto di Palach fu determinante per spingere la Russia ad abbandonare la Cecoslovacchia. Ma Il fatto più importante di quell’anno resta, senza alcun dubbio, ciò che accade alle 4:15 di domenica 20 luglio, quando l’Apollo 11 atterra sulla Luna e Neil Armstrong, pronunciando la frase «è un piccolo passo per l’uomo ma un grande passo per l’umanità», muoverà i primi passi dell’uomo sul suolo lunare.
A livello nazionale, la ventata di “aria nuova” che ha scosso il resto del mondo non si fa attendere. Nel frattempo, grazie al boom economico, nelle case degli italiani hanno già fatto la loro comparsa i televisori, i frigoriferi, i primi elettrodomestici ed il telefono. Quest’ultimo, spesso e volentieri, nei condomini veniva impiegato in modalità “duplex” per risparmiare un po’ sulla bolletta telefonica: due numeri telefonici differenti erano collegati alla stessa linea. Sollevando la cornetta per telefonare, un relè abilitava un apparecchio ed escludeva automaticamente l’altro. E, se da una parte i costi di gestione diminuivano, dall’altra aumentavano le liti tra i condòmini per via delle lunghissime telefonate degli uni a scapito degli altri.
Lo stipendio medio si aggirava attorno a 120.000 lire, un litro di benzina valeva 145 lire e una tazzina di caffè costava 50 lire. Nelle fabbriche si produceva a più non posso tanto che, all’epoca, un operaio specializzato aveva un salario più alto di quello di un poliziotto. In estate, file di automobili – diventate più o meno alla portata di tutti – si riversavano sulle strade in direzione delle spiagge e, per i giovani, possedere la Lambretta o la Vespa era un sogno ad occhi aperti.
L’influsso straniero irrompe sempre di più nella vita degli italiani: al cinema arrivano pellicole come Easy Rider – interpretato da Peter Fonda e Dennis Hopper – che celebrano il mondo “hippie” col suo desiderio di libertà a trecentosessanta gradi. La musica dei Beatles e dei Rolling Stones inizia a diventare sempre più popolare insieme a quella proveniente dallo storico concerto di Woostock che si tiene, proprio nel 1969, dal 15 al 18 agosto. Ma anche l’arte nostrana non va affatto male: attori del calibro di Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, Raimondo Vianello, Aldo Fabrizi, insieme al duo comico composto da Franco e Ciccio, riempiono i cinematografi come mai prima. A livello musicale c’è di tutto un po’: si spazia dai melodici puri come Claudio Villa, Domenico Modugno, Orietta Berti, Gigliola Cinquetti e Nilla Pizzi, agli “urlatori” come Adriano Celentano, Mina, Gianni Morandi, Little Tony e Caterina Caselli, ai gruppi come i Pooh, i Dik Dik, i Collage, gli Alunni del Sole.
Tra tutti i brani pubblicati in quell’anno, ci sarà una canzone – Je t’aime moi non plus interpretata da Jane Birkin e Serge Gainsbourg – che, a causa della sua sensualità giudicata estrema, verrà addirittura censurata dalla RAI, scomunicata dal Vaticano e, infine, ritirata dal mercato su ordine della Procura di Milano. Al Festival di Sanremo, dove vincerà la coppia Iva Zanicchi e Bobby Solo con Zingara, si metterà in luce l’esordiente Lucio Battisti che, in coppia con Wilson Pickett, si piazzerà al nono posto con il brano Un’avventura.
Ma il 1969 è anche un anno di forti tensioni sociali che sfoceranno in quello che verrà battezzato “l’autunno caldo”: nelle fabbriche gli operai si organizzano in sindacati per ottenere migliori condizioni di lavoro e salari più alti. Gli scioperi – spesso organizzati all’ultimo momento senza l’autorizzazione delle questure – diventano via via sempre più frequenti, finendo per bloccare interi stabilimenti quando, magari, a scioperare era solo un gruppo di lavoratori di un determinato reparto. Nelle piazze cresce il numero di manifestazioni dove, oltre agli operai, aderiscono gli studenti. La maggior parte delle volte bastava un niente per trasformare le manifestazioni in bolge violente in cui i manifestanti si scontravano tra di loro oppure contro i reparti celere di Polizia e Carabinieri. Nelle fabbriche e nelle università erano in moltissimi a militare in organizzazioni extraparlamentari sia di destra che di sinistra: nomi come Lotta Continua, Potere Operaio, Avanguardia Nazionale ed Ordine Nuovo, accompagneranno le cronache dell’Italia di quegli anni perché, da esse, si staccarono frange ancora più estremiste che sfoceranno nella lotta armata come i NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari) e le Brigate Rosse.
Per l’Italia si tratta, quindi, di un anno cruciale che la sta traghettando verso una prima vera forma di democrazia che sta letteralmente sbocciando: nuove idee, nuove visioni e nuove speranze mettono in contatto tra di loro – quasi amalgamandoli – ceti sociali che, fino ad allora, erano sempre stati separati. Ed è proprio in questo clima di fortissimo cambiamento, che il tutto il Paese verrà scosso in modo indelebile dalla strage di piazza Fontana.


La prima pagina del Corriere della Sera del 7 luglio 1969 (fotografia reperita su Internet)


L'occupazione sovietica della Cecoslovacchia durante la "Primavera di Praga" (fotografia reperita su Internet) 


Manifestazione operaia a Roma durante "l'autunno caldo" del 1969 (fotografia reperita su Internet)


Manifestazione operaia a Milano durante "l'autunno caldo" del 1969 (fotografia reperita su Internet)


Scorcio sulla folla di giovani presenti al concerto di Woodstock del 1969 (fotografia reperita su Internet)

02 gennaio 2021

LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA (puntata n° 3)

In ogni romanzo giallo che si rispetti, la trama si compone di un intreccio di fatti e di colpi di scena che contribuiscono a fornire la suspence necessaria alla prosecuzione della lettura. E dato che la nostra storia è molto più che un romanzo giallo, i colpi di scena non mancheranno. Saranno tanti, troppi e, purtroppo, tutti tesi al raggiungimento dello stesso scopo: nascondere, confondere e camuffare la verità.
Il primo colpo di scena della storia della strage di piazza Fontana avviene lontano da Milano: ci troviamo a Padova, in Veneto, circa tre mesi prima che l’esplosione della Banca Nazionale dell’Agricoltura catalizzi l’attenzione delle cronache di tutto il Paese.
È il 13 settembre 1969, un sabato. Al numero 15 di piazza dell’Insurrezione 26 aprile c’è un palazzo molto grande e signorile: è un condominio di tre piani che, sotto, ha dei porticati che ne delimitano tutto il perimetro. Sotto i portici ci sono i negozi e, nell’androne che porta alle abitazioni, c’è la portineria con la sua guardiola.
Il portiere di quel palazzo si chiama Alberto Muraro: è un carabiniere in pensione che, dopo il congedo, ha deciso di aiutare sua moglie Onorina nella gestione della portineria. È mattina presto: sono le 7:00 di un tranquillo giorno di fine estate ed Alberto sta per iniziare le pulizie. Nel palazzo regna il silenzio più assoluto: è sabato, è mattina presto e nessuno, a parte Muraro e sua moglie, è ancora uscito dal proprio appartamento. Il signor Muraro si avvia così verso l’ascensore portando con sé una pattumiera, una scopa ed il secchio per lavare i pavimenti. I gesti sono calmi, quasi meccanici. Pensa a ciò che avrebbe dovuto fare dopo due giorni e, nonostante sembri tranquillo, dentro di sé prova molta inquietudine. Ovviamente, per non fare preoccupare sua moglie, fa finta di niente e cerca di comportarsi come di consueto.
Una volta giunto al terzo ed ultimo piano, Muraro esce dall’ascensore ed inizia a scopare i pavimenti come è solito fare tutte le mattine. Nel palazzo al numero 15 di piazza dell’Insurrezione, il silenzio di quella tranquilla mattina di settembre è interrotto solo dalla scopa di Alberto che sfrega sul pavimento del pianerottolo.
All’improvviso, però, accade qualcosa.
In una storia normale, dove tutto va come dovrebbe andare, il signor Muraro starebbe svolgendo tranquillamente il suo lavoro. Ma nella storia della strage di piazza Fontana, che di normale non ha assolutamente nulla, Alberto Muraro sta volando lungo la tromba delle scale. Ma non sta volando: sta cadendo da quel pianerottolo dove lo avevamo lasciato con la scopa in mano. Percorre i quindici metri di altezza in pochissimi secondi senza neanche avere il tempo di urlare e, quando sbatte violentemente sul pavimento dell’androne, il portiere muore sul colpo. Il secchio e rimasto lassù, al terzo piano, mentre la pattumiera è lì con lui, sul pavimento, insieme alla scopa che l’ex carabiniere tiene ancora fra le mani.
Sua moglie Onorina, dopo aver svolto le sue faccende, rientra in guardiola alle 7:30 circa. Di solito sente Alberto che pulisce ma, stranamente, nel palazzo non si sente alcun rumore. Attende qualche minuto per vedere se suo marito si faccia vivo. Ma niente: tutto tace e di Alberto non vi è alcuna traccia. Preoccupata, Onorina decide di andare a cercarlo. Apre la porta dell’ascensore e, rimanendo di sasso, trova il marito, morto, proprio lì dentro.
Fermiamoci qui per il momento: avremo modo di riparlare di Alberto Muraro e della sua strana morte più avanti. Ora dobbiamo forzatamente tornare a Milano, in quel tremendo venerdì 12 dicembre 1969.
Siamo in via Fatebenefratelli, in Questura. Alla Sezione Volanti c’è un giovane di 28 anni che si chiama Achille Serra.
Achille Serra (ex prefetto): «Era freddo, quel giorno. Il classico freddo col grigiore tipico della Milano di quegli anni. Ero impegnato a completare dei rapporti quando, poco prima delle 17:00, squillò il telefono. Il mio capo di allora, il commissario Ernesto Panvini, rispose alla chiamata e mi disse di andare subito alla Banca Nazionale dell’Agricoltura perché pareva fosse scoppiata una tubatura del gas e c’era stata un’esplosione.»
Achille Serra nasce a Roma nel 1941 e, dopo essersi laureato in giurisprudenza, nel 1968 fa il concorso per entrare nel Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza (come si chiamava, allora, l’attuale Polizia di Stato). Lo vince e, col grado di vice commissario, viene mandato a Milano, suo sogno da sempre. Inizia a lavorare alla Sezione Volanti per poi passare alla Squadra Mobile di cui, dopo qualche tempo, ne diviene il dirigente. Da qui in avanti, la bravura di Serra unita all’esperienza che ha maturato negli anni più difficili della Repubblica, gli permetteranno di diventare questore nel 1991. Dopo aver diretto le questure di Cremona e di Sondrio, nel 1993 diventa questore di Milano, la città dove la sua famiglia è sempre rimasta. Passa poi alla direzione del Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato e, nel 1994, viene nominato prefetto di prima classe giungendo a ricoprire il ruolo di vice capo della Polizia. Infine, tra il 1996 ed il 2013, viene eletto in Parlamento prima tra le file di Forza Italia, poi nel Partito Democratico e poi nell’UDC.
Achille Serra (ex prefetto): «Quando giungemmo in piazza Fontana a sirene spiegate, c’era un caos infernale. I detriti e i pezzi di vetro infranto erano dappertutto ed il fumo era talmente denso che faticavo a vedere la sagoma della banca. Ma è quando entrai dentro che assistetti ad una scena che, ancora oggi a distanza di tanti anni, è stampata nella mia testa: l’esplosione era stata gigantesca tanto da aver liquefatto le persone. L’odore era fortissimo e ci misi alcuni minuti a capire che si trattava della puzza di carne bruciata. Alcune persone avevano i corpi liquefatti per metà e molti arti umani erano stati scagliati fino al piano rialzato restando attaccati alle pareti. La prima cosa che feci, dopo essermi reso conto di essere finito in un girone infernale neanche lontanamente immaginabile, fu quello di tornare all’auto di servizio e prendere la radio per chiamare la centrale operativa. Ero agitatissimo e fortemente scosso. Con tutto il coraggio che riuscii a trovare, chiamai e chiesi di mandare cento ambulanze. Il collega della centrale, pensando che fosse lo shock a farmi straparlare, mi rispose di calmarmi, che non era successo niente di grave e che avrebbero mandato i soccorsi. Io, mettendomi a gridare, gli dissi che l’esplosione era stata grandissima e che dovevano mandare subito tutte le ambulanze disponibili. Nel frattempo, mentre parlavo alla radio, un mucchio di persone si era riversato in piazza Fontana per vedere cosa fosse capitato. Sentivo parecchie sirene in lontananza, segno che alla centrale operativa mi avevano creduto e che, finalmente, qualcosa si stesse muovendo. Quando mi mossi di nuovo in direzione della banca, vidi Ernesto Panvini, il mio capo, seduto a terra con la testa fra le mani, mentre piangeva. Era sporco di sangue e quando mi avvicinai, mi disse che, una volta entrato in banca, gli era caduto addosso il corpo di un uomo senza testa.»
All’esterno della banca, tra le migliaia di persone che affollano la piazza, cominciano a circolare le voci più diverse: una bomba, una caldaia, una tubatura del gas. Ed anche se allora era giovane ed inesperto, il prefetto Serra su una cosa non si era affatto sbagliato: nella Banca Nazionale dell’Agricoltura, quel 12 dicembre 1969, si era scatenato l’inferno.
Ugo Paolillo (ex magistrato): «Arrivai in piazza Fontana poco prima delle 17:00 con una gazzella dei Carabinieri. Dopo essere entrato, quello che ho visto non ho potuto mai dimenticarlo. Era una scena orripilante… L’esplosione si era mossa con una specie di “effetto bacinella” e si era scaricata tutta sul lato sinistro della struttura cilindrica che era l’interno della sala della banca. Sulle pareti c’erano arti umani che, ad un certo punto, hanno iniziato a staccarsi cominciando a cadere verso il basso. Quando sono arrivati i pompieri, ho cercato di fare un po’ di ordine. Nel frattempo, era arrivata pure la Polizia Scientifica e, nonostante quello fosse un momento di profondo cordoglio per le vittime, era anche il momento in cui bisognava preservare il luogo dell’esplosione affinché potesse essere ispezionato per trovare tutte le prove indispensabili a far partire immediatamente l’indagine.»
Fortunato Zinni (ex dipendente e funzionario della Banca Nazionale dell’Agricoltura): «Poco dopo l’arrivo delle Forze dell’ordine, il direttore della banca mi prese in disparte. Sapeva quanto fossi scosso e quanto volessi tornare a casa ma, essendo io il solo che conosceva quasi tutti i clienti investiti dallo scoppio, mi diede carta e penna chiedendomi di fare l’elenco dei morti con nome, cognome e luogo di provenienza. Bisognava avvertire le famiglie e qualcuno doveva provvedere. Dio solo sa quanto fu doloroso quel compito, ma iniziai a stilare l’elenco che il mio direttore mi chiese.»
Un fatto come quello di piazza Fontana, però, non si limita solamente alla cronaca nuda e cruda con la conta dei morti e dei feriti. No: oltre ai morti ed ai feriti, ci sono le loro famiglie. Ogni morto ed ogni ferito aveva una moglie, dei figli, dei fratelli, delle sorelle, dei genitori. E sono proprio le famiglie a vivere il dramma più grande, attendendo per ore il rientro a casa di quelle persone che, purtroppo, non sarebbero mai più tornate.
Una volta che le ambulanze giungono sul luogo dell’esplosione, i feriti vengono smistati nei vari ospedali di Milano mentre i morti – ciò che ne resta perlomeno – va direttamente al numero 17 di via Mangiagalli, dove c’è l’obitorio.
I parenti di chi era all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura iniziano ad arrivare nel capoluogo lombardo solo in tarda serata. Dopo le numerose telefonate alla Polizia ed ai Carabinieri da cui hanno appreso dello scoppio avvenuto in piazza Fontana, ed avendo immaginato che un fatto del genere non promettesse niente di buono, in molti hanno chiamato le redazioni dei giornali che, in base all’elenco dei morti e dei feriti in loro possesso, li hanno indirizzati verso gli ospedali o verso l’Istituto di Medicina Legale.
Francesca Dendena (figlia di Pietro Dendena): «Quando siamo arrivati all’ospedale Fatebenefratelli, mio padre non si trovava. Ad un certo punto, mio fratello Paolo vide mio padre su di una barella che stava per essere portata all’obitorio. Lo riconobbe dall’abito Principe di Galles che indossava quel giorno. Era molto tardi e dovemmo attendere il giorno seguente per il riconoscimento. Fu tutto estremamente difficile: il recupero dei suoi effetti personali, dell’automobile che non sapevamo dove fosse parcheggiata e, perfino, della salma di papà affinché potessimo dargli una degna sepoltura…»
Ma c’è un altro dramma che le famiglie delle vittime di piazza Fontana devono affrontare: la vita che continua. C’è l’affitto da pagare, ci sono i figli da crescere, c’è la quotidianità stessa che, venendo a mancare il capofamiglia, si trasforma in un grosso punto di domanda.
Carlo Arnoldi (figlio di Giovanni Arnoldi): «Io e mia sorella eravamo piccoli. Io avevo 15 anni e, oltre a pensare a nostro padre che non c’era più, iniziai a pensare a cosa avremmo fatto noi dopo. Papà non era rientrato e, quando quella sera sentimmo suonare alla porta, pensavamo fosse lui. Invece era il medico di famiglia che ci avvisava che mio padre era rimasto ferito nell’esplosione avvenuta in piazza Fontana. Mia madre telefonò subito ad uno zio avvisandolo di ciò che era successo alla Banca Nazionale dell’agricoltura. Ricordo che mio zio corse a Milano e, quando arrivò, fu un funzionario della banca che gli disse che Arnoldi era lì. Mio zio iniziò a cercarlo e sulle prime non lo vide. Poi notò il corpo di un uomo carbonizzato che indossava un paio di scarpe che riconobbe: erano quelle che mio padre aveva comprato proprio insieme a quel mio zio. Quando ricevemmo la conferma della scomparsa di papà, anche noi andammo a Milano. Ma essendo arrivati tardi, trovammo l’obitorio già chiuso. Passai la notte peggiore della mia vita... Il mattino dopo, nonostante fossi un ragazzino, dissi a mia madre di non entrare e che avrei riconosciuto io il papà. Volevo lo ricordasse com’era e feci bene perché era irriconoscibile.»
Paolo Silva (figlio di Carlo Silva): «Papà aveva 71 anni ed era in pensione. Amava recarsi al mercato del venerdì di piazza Fontana perché poteva rivedere i vecchi amici ed i molti conoscenti che aveva. Era un modo per passare il tempo, da quando aveva smesso di lavorare. Quando ci fu l’esplosione, io mi trovavo in centro. Avevo 27 anni ed andai da un mio amico che gestiva un distributore di benzina. Quando arrivai e questo amico mi raccontò dello scoppio di piazza Fontana, io pensai immediatamente a mio padre che sapevo essere lì. Corsi subito verso la piazza… C’era moltissima gente, c’erano le ambulanze e le macchine della Polizia. Una confusione assoluta. Chiesi notizie di mio padre ai poliziotti che erano lì ma nessuno di questi seppe dirmi qualcosa. Andai quindi in Questura, in via Fatebenefratelli, dove trovai mio fratello; gli chiesi subito dove fosse papà ma anche lui non fu in grado di dirmi qualcosa di concreto. Ad un certo punto, venimmo avvisati da un alto funzionario della Polizia che, all’obitorio, c’era una vittima ancora da identificare. Papà, infatti, non si trovava né tra i morti né tra i feriti. La sera stessa, all’obitorio, alzando quel lenzuolo bianco, io e mio fratello effettuammo il riconoscimento di nostro padre da quel poco che era rimasto di lui.»
Al telegiornale delle 21:00, dalla voce di Rodolfo Brancoli, tutta l’Italia apprende dell’esplosione alla Banca Nazionale dell’Agricoltura.
Rodolfo Brancoli (ex giornalista): «Ci sono state diverse esplosioni, nel pomeriggio, a Milano e a Roma. La più grave è avvenuta a Milano nel salone centrale della sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura. Per lo scoppio quattordici persone sono morte, un’ottantina è rimasta ferita o contusa. Due dei feriti sono gravi. Sembra accertato che sia scoppiata una bomba. Il fatto, per la sua atrocità, per il numero di morti e feriti, è il più grave che abbia colpito Milano in tempo di pace. A Roma, anche qui in pieno centro della città, ci sono state tre esplosioni. Due ordigni sono scoppiati all’Altare della Patria. Il boato è stato udito in tutto il centro della città. L’altra esplosione di Roma è avvenuta nella sede centrale della Banca Nazionale del Lavoro. I feriti sono più di dieci. Non ci sono vittime. Molti dei testimoni presenti in piazza Fontana dicono che erano circa le quattro e mezzo quando nel salone della banca – affollatissimo oggi perché era giornata di mercato – è avvenuta la tremenda esplosione. Un boato e una fiammata hanno letteralmente sconvolto l’edificio. Una buca di circa un metro di diametro si è aperta nel pavimento della parte riservata ai clienti che, in quel momento, stavano ultimando le operazioni bancarie. I primi soccorsi sono stati portati dai cittadini che, a quell’ora, si trovavano numerosi nella centralissima piazza di Milano che è a pochi passi dal Duomo. È scattato subito l’allarme alla Polizia, ai Vigili del Fuoco e agli ospedali. Sul posto si sono recate immediatamente tutte le autorità della provincia e il cardinale arcivescovo la cui sede è a pochi passi dalla banca. Nell’aria c’era un odore acre di esplosivo. La maggior parte delle persone che erano presenti ha detto che probabilmente si trattava di una bomba. Tutta la zona adesso è presidiata dai Carabinieri ed agenti di Pubblica Sicurezza. Il traffico è stato deviato per consentire un rapido movimento dei mezzi di soccorso. Il sindaco ha proclamato il lutto cittadino e tutti gli spettacoli sono stati sospesi. Le bandiere abbrunate saranno esposte su tutti gli edifici nella giornata di domani. Sono state sospese le illuminazioni natalizie in segno di lutto. I feriti delle esplosioni di Roma sono, come abbiamo detto, più di dieci. Secondo i primi accertamenti, la bomba scoppiata alla Banca Nazionale del Lavoro era composta da una quantità di esplosivo tra gli ottocento grammi e i due chili. Sono passati otto minuti tra la prima e la seconda esplosione all’Altare della Patria. La prima è avvenuta alle 17.16 e la seconda alle 17.24. I due ordigni che sono scoppiati al Milite Ignoto, erano ad alto potenziale. Uno è esploso sulla seconda terrazza davanti alla porta del Museo del Risorgimento. Uno dei battenti è stato scardinato e lanciato a sette metri di distanza. Una signora che si trovava a passare con una 600, è stata sbalzata in aria e la macchina si è rovesciata su un fianco. È stata soccorsa e condotta all’ospedale. Tutti i vetri della basilica dell’Ara Coeli e del Museo del Risorgimento si sono rotti. All’interno della chiesa sono crollati alcuni pezzi del soffitto istoriato. L’altra bomba era stata sistemata sotto l’asta della bandiera, sotto la seconda terrazza del Vittoriano. Lo scoppio ha stroncato l’asta e ha fatto a pezzi una parte della balaustra. L’altra esplosione di Roma è avvenuta negli scantinati della Banca Nazionale del Lavoro, in via S. Basilio, nei pressi di via Veneto. I feriti sono stati medicati al Policlinico. Più precisamente l’ordigno di via S. Basilio, sempre secondo i primi accertamenti, sarebbe scoppiato in un passaggio sotterraneo che collega i due edifici posti l’uno di fronte all’altro dove hanno sede gli uffici centrali della stessa Banca Nazionale del Lavoro. Il fabbricato, dove lavorano duemila persone, è stato fatto sgombrare dal personale di polizia. Anche qui l’esplosione ha provocato la rottura dei vetri e sono state le schegge a ferire le persone. Nel passaggio sotterraneo i tubi dell’impianto di riscaldamento si sono rotti e l’acqua ha allagato una parte dei locali. Per lo scoppio all’Altare della Patria sono state danneggiate anche molte auto in sosta a fianco del Vittoriano. Per precauzione tutta la zona circostante è stata isolata. Tecnici della Direzione di Artiglieria e Vigili del Fuoco hanno compiuto un ampio sopralluogo. Anche gli uomini della Polizia Scientifica della Questura e i Carabinieri sono accorsi per cercare di accertare la natura degli ordigni esplosivi. Il Consiglio dei ministri sta per riunirsi a Palazzo Chigi. Il presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, ha indirizzato al presidente del Consiglio, Mariano Rumor, il seguente messaggio: “L’orrendo attentato che ha seminato la morte a Milano lascia sgomenta la nazione per l’efferatezza del delitto, per la sua mostruosa enormità, per la sua bestiale incoscienza. L’attentato di Milano – dice il messaggio del Capo dello Stato – è l’anello di una tragica catena di atti terroristici che deve essere spezzata a ogni costo per salvaguardare la vita e la libertà dei cittadini. Tocca alle Forze dell’ordine democratico, tocca all’autorità giudiziaria di fronte alla quale giacciono numerose denunce per istigazione ad atti di terrorismo restituire alla legge voluta dal popolo l’assoluta sovranità. Tocca ai cittadini assecondare l’opera della giustizia e delle forze dell’ordine democratico, della difesa della vita contro la violenza omicida. A lei, onorevole presidente, e al ministro dell’Interno Franco Restivo – dice il Presidente della Repubblica – esprimo tutta la mia solidarietà per l’azione che il Governo intraprende allo scopo di reprimere inesorabilmente questi atti criminali rivolti a sovvertire il libero e democratico ordinamento del nostro Paese e la prego di porgere le commosse condoglianze a nome della nazione e mio personale alle famiglie delle vittime”.»

La prima pagina del Corriere della Sera del 13 dicembre 1969 (fotografia reperita su Internet)

La prima pagina del Giorno del 13 dicembre 1969 (fotografia reperita su Internet)


La prima pagina del Resto del Carlino del 13 dicembre 1969 (fotografia reperita su Internet)

La prima pagina dell'Unità del 13 dicembre 1969 (fotografia reperita su Internet)

La prima pagina della Provincia di Cremona del 13 dicembre 1969 (fotografia reperita su Internet)


La prima pagina della Stampa del 13 dicembre 1969 (fotografia reperita su Internet)