29 settembre 2021

LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA (puntata n° 8)

Sono intanto trascorsi quattro giorni dalla strage di piazza Fontana: è il 16 dicembre 1969 quando Giuseppe Pinelli muore “cadendo” dalla finestra del quarto piano della Questura di Milano mentre diversi anarchici e militanti di sinistra sono detenuti nel carcere di S. Vittore a Milano. Altri, come Roberto Gargamelli e Pietro Valpreda, sono in custodia a Roma, nel carcere di Regina Coeli.
Roberto Gargamelli (fondatore del circolo anarchico “22 marzo”): «Ero a casa coi miei genitori quando arrivarono i Carabinieri. Erano in quattro e, dopo aver effettuato una sommaria perquisizione in casa, senza darmi alcuna spiegazione, mi fermarono portandomi a Regina Coeli. Avevo 19 anni e fu un’esperienza traumatica: mi fecero spogliare e, dopo essere rimasto in mutande e maglietta, mi diedero una casacca di lana grezza accompagnata dalle scarpe di cartone che davano ai detenuti a quei tempi. Mi fecero sedere e mi misero in mano un fascicolo di circa quindici pagine in cui c’era scritta la parola “strage” coi nomi dei morti e dei feriti. In fondo c’era lo spazio per la firma e, quando mi dissero di firmare, chiesi loro se fossero pazzi. Ma non erano pazzi perché, ahimé, gli attentati c’erano stati davvero.»
A riconoscere Gargamelli quale esecutore materiale dell’attentato alla Banca Nazionale del Lavoro di via S. Basilio a Roma, è stato giovane addetto alle pulizie che, guardando le foto segnaletiche mostrategli dalla Polizia, indica senza indugi l’istantanea che mostra il volto dell’anarchico romano.
Roberto Gargamelli (fondatore del circolo anarchico “22 marzo”): «Qualche giorno dopo il mio ingresso in carcere, venni di nuovo interrogato. Il giudice mi disse che un testimone mi aveva visto lasciare la borsa con la bomba alla Banca Nazionale del Lavoro e che – lo lessi nel verbale – era sicuro al novantanove per cento che si trattasse di me. Il giudice mi disse che avrei dovuto sottopormi ad un confronto ed io, non avendo nessun’altra alternativa, acconsentii. Ricordo che, quel giorno, mi misero in mezzo a quattro poliziotti puliti, ben vestiti ed ordinati. Io ero in condizioni pietose come si potrà ben immaginare… Dopo diversi giorni di cella ero sporco e maleodorante perché non mi era stato permesso di lavarmi; sembravo un pulcino bagnato in una gabbia di matti… Il testimone era un ragazzo giovanissimo che poteva avere la mia età e che, quando mi vide, trasalì per lo stato in cui versavo. Non mi riconobbe perché ero completamente diverso dalla persona che aveva visto quel giorno in banca e, per questo motivo, non se la sentì di accusarmi come l’autore di quell’attentato.»
Sebbene Gargamelli venga escluso dalla lista dei colpevoli per gli attentati di Roma, non viene subito rilasciato. Gli inquirenti lo trattengono ulteriormente in custodia per un suo possibile coinvolgimento nella strage di piazza Fontana: il giovane romano avrebbe un rapporto stretto con Pietro Valpreda col quale ha fondato il circolo anarchico “22 marzo” e a cui, quella stessa mattina, il giudice Vittorio Occorsio contesta ufficialmente l’accusa di strage. Gargamelli, quindi, non può assolutamente essere rimesso in libertà perché potrebbe aver aiutato Valpreda a compiere l’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura.
Dal telegiornale del 16 dicembre, tutta l’Italia apprende, per bocca del giovanissimo inviato RAI Bruno Vespa, che Pietro Valpreda è il colpevole della strage di piazza Fontana. Ma perché la Polizia è convinta che Valpreda sia il colpevole degli ignobili attentati di Milano e di Roma? Quali sono gli elementi che inchiodano il ballerino anarchico?
Rodolfo Brancoli (ex giornalista): «Pochi istanti fa è arrivata questa notizia: un anarchico, appartenente al gruppo anarchico “22 marzo” e che si chiama Pietro Valpreda, è stato riconosciuto da un testimone giunto stamani da Milano. Nel corso di un confronto che si è svolto alla presenza del magistrato, è stato incriminato per il reato di concorso in strage. Il suo fermo è stato tramutato in arresto. Chiediamo, intanto, una conferma di questa notizia. Pronto, Vespa?»
Bruno Vespa (giornalista e scrittore): «Sì, sono qui: Pietro Valpreda è un colpevole, uno dei responsabili della strage di Milano e degli attentati di Roma. La conferma è arrivata un momento fa qui, nella Questura di Roma. Dottor Parlato, come siete arrivati ad una così rapida identificazione dei responsabili?»
Giuseppe Parlato (ex prefetto): «Attraverso un lavoro molto intenso che, come lei sa, è stato svolto in questi giorni da tutti i componenti le Questure di Roma e di Milano e dall’Arma dei Carabinieri.»
Bruno Vespa (giornalista e scrittore): «Voi avete avuto subito i primi indizi?»
Giuseppe Parlato (ex prefetto): «Sì, li abbiamo avuti, direi, dopo qualche ora quando si è cominciata a delineare un po’ più chiaramente la situazione e l’Ufficio Politico ha portato ad individuare gli elementi che potevano ritenersi responsabili degli attentati criminosi come quelli che si sono verificati.»
Bruno Vespa (giornalista e scrittore): «Ricordo bene quei giorni perché per me fu un’esperienza umana e professionale indimenticabile. Feci una gaffe colossale: parlai di Valpreda come del colpevole della strage di piazza Fontana anche se, in quel momento, l’uomo era sì fortemente indagato, ma non condannato in via definitiva e, per questo, innocente sino a prova contraria. C’è però da dire che, nonostante io avessi l’arroganza tipica di un giovane di 25 anni che voleva fare carriera, tutti i giornali dell’epoca – nessuno escluso – parlavano di Valpreda etichettandolo coi termini più disparati di cui il migliore era “mostro”. Ricordo che, dopo la prima tranche del collegamento col telegiornale, se non sbaglio, ricevetti la notizia dell’arresto di Valpreda dal direttore stesso del TG che era collegato con noi in bassa frequenza (la sua voce era udibile nella stanza dove ci trovavamo ma non veniva trasmessa in onda). La cosa quasi buffa, in quella che era a tutti gli effetti una tragedia, fu che il direttore ci intimò di non dire, nel modo più assoluto, che Valpreda facesse il ballerino di professione. Era stato infatti scritturato dalla RAI per una serie di spettacoli e, se fosse saltato fuori che questo ballerino, oltre ad essere anarchico, era pure accusato di essere l’autore materiale della strage di piazza Fontana, la TV pubblica avrebbe chiuso i battenti definitivamente. Ricevuto questo ultimatum da parte del direttore, andai dal questore Parlato – che poi diventò capo della Polizia – e gli dissi che doveva assolutamente confermare la notizia in diretta nazionale dicendo tutto ciò che sapeva. E lui, al microfono, affermò che un tassista, il 12 dicembre 1969, aveva accompagnato una persona, somigliante a Valpreda, nei pressi della Banca Nazionale dell’Agricoltura.»
Il testimone di cui parla il questore Giuseppe Parlato durante il collegamento TV con Bruno Vespa, si chiama Cornelio Rolandi: fa il tassista di professione, ha 47 anni ed è nato nel quartiere di Porta Ticinese a Milano. Vive, con la moglie e il figlio, al dodicesimo piano di un palazzone in via Copernico a Corsico, nell’hinterland milanese.
Rodolfo Brancoli (ex giornalista): «È un tassista – un tassista milanese – che si chiama Cornelio Rolandi e si è fatto avanti ieri mattina prima – è giusto sottolinearlo – che si avesse notizia della somma di 50.000.000 di lire messi a disposizione per chi avesse fornito notizie capaci di portare all’identificazione degli attentatori.»
La prima notizia inerente al tassista Rolandi giunge, al 113, la mattina del 15 dicembre: il professor Liliano Paolucci – direttore generale del patronato scolastico di Milano – telefona alla centrale operativa della Questura dicendo di essere salito in mattinata su di un taxi il cui conducente, a suo dire, avrebbe trasportato l’attentatore di piazza Fontana nel tardo pomeriggio del 12 dicembre.
Liliano Paolucci (ex professore): «La mattina del 15 dicembre salii su un taxi. Il taxi, come seppi poi, era quello di Cornelio Rolandi. Il conducente era molto agitato e sbagliò strada più volte. Gli chiesi perché non facesse più attenzione e perché fosse così distratto. Rolandi non sì fece pregare per rivelare “quello che si sentiva dentro”. Raccontò di essere stato proprio lui a portare in piazza Fontana, davanti alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, quello che aveva messo la bomba. Io dissi al tassista che era suo dovere raccontare alla Polizia quanto sapeva. Lui mi sembrò titubante; cosicché, quando scesi, annotai il numero della vettura – che era 3444 – e chiamai il 113 riferendo quanto avevo appreso.»
Il giorno della strage di piazza Fontana, Rolandi è di turno. Fermo in piazza Beccaria in attesa di clienti, da dentro il taxi Rolandi guarda in direzione dell’Hotel Ambasciatori quando scorge un tizio che, dalla Galleria del Corso, si dirige verso la piazzola dei taxi. L’uomo indossa un cappotto scuro col bavero alzato e, in mano, regge una borsa nera. Alle 16:12, l’uomo si infila rapidissimo nella FIAT 600 Multipla di Rolandi ed ordina al tassista di portarlo in via Albricci passando, però, da via S. Tecla.
Rolandi sa che il percorso da piazza Beccaria a via Albricci è di per sé abbastanza breve: lungo circa settecento metri, a piedi si percorre in circa quindici minuti e si snoda tra via Beccaria, piazza Fontana, via S. Clemente e via Larga. L’uomo salito sul taxi potrebbe andare tranquillamente a piedi passeggiando per il centro illuminato a festa, ma quella persona insiste affinché Rolandi lo accompagni col taxi. È molto strano, quell’uomo, e Rolandi, oltre a dirlo agli inquirenti la mattina del 15 dicembre, lo racconterà nell’intervista che rilascerà, nel gennaio del 1970, al giornalista Giampaolo Pansa. 
Cornelio Rolandi (ex tassista): «Quando quell’uomo entrò nel taxi, ebbi modo di guardarlo molto bene, dato che il suo viso si trovava a poche decine di centimetri di distanza dal mio. E, anche se quel tizio era di poche parole ed aveva qualcosa di strano, aveva comunque un viso normale, come quello di tanti clienti che salivano, di solito, sul mio taxi. Mi disse che doveva andare in via Albricci e che avrei dovuto passare per via S. Tecla, una traversa di via S. Clemente. Non capii questo giro perché era insolito: per andare in via Albricci, era molto più comodo proseguire fino in fondo a via S. Clemente e svoltare, poi, a destra in via Larga. Ricordo che, non appena imboccai via S. Tecla, quell’uomo mi disse di fermarmi perché doveva scendere. Dopo essere sceso, richiuse la portiera del taxi sbattendola molto forte; la cosa mi dette fastidio perché, anche se la mia 600 era vecchia, la mantenevo in condizioni decorose e mi infastidiva molto che i clienti la trattassero come un rottame. Dopo quattro o cinque minuti il tizio tornò è lo accompagnai all’angolo tra via Larga e via Albricci. Fu nel momento in cui scese che notai che l’uomo non aveva più la borsa nera con sé.»
Pochi minuti dopo che l’uomo scende dal taxi di Rolandi, in piazza Fontana scoppia la bomba e si compie l’orribile strage di innocenti che ha scioccato l’Italia intera. Rolandi, incredulo, si rende conto di quanto sia stato fortunato per essere passato nei pressi della banca pochi istanti prima dell’esplosione ed essersi salvato. Ma la sera successiva, il dettaglio della borsa scomparsa inizia a farsi strada nella sua testa: in TV continuano a susseguirsi gli aggiornamenti sulla strage di piazza Fontana e scorrono le immagini della Mosbach-Gruber rinvenuta alla Banca Commerciale di piazza della Scala prima che venga fatta esplodere.
Cornelio Rolandi (ex tassista): «Più guardavo in TV le immagini della borsa – o valigetta che fosse – più sembrava essere quella appartenente al tizio del taxi. E se fosse stato davvero lui a mettere la bomba in piazza Fontana?! Mia moglie continuava a ripetermi che, quasi certamente, non era stato quell’uomo a far saltare in aria la banca. Il mio cervello, però, continuava a lavorare e a macinare: vedevo i volti delle vittime della banca e poi vedevo quell’uomo. La notte tra domenica 14 e lunedì 15 mi sentivo male, come un leone in gabbia. Alle 4:30 scoppiai a piangere così forte che svegliai mia moglie e mio figlio; fu lì che decisi che, in mattinata, sarei corso dalla Polizia a raccontare tutto.»
Dopo aver ricevuto la telefonata del professor Paolucci, la centrale operativa avverte immediatamente l’Ufficio Politico riguardo a ciò che il professore aveva raccontato. Gli uomini di Antonino Allegra diramano le ricerche per Cornelio Rolandi il quale, negli stessi istanti, si sta recando spontaneamente dai Carabinieri.
Cornelio Rolandi (ex tassista): «Quando mi alzai, mi recai in via Valpetrosa – non lontano dal Duomo – per andare al Comando dei Carabinieri che ha l’entrata in via Fosse Ardeatine. Appena entrato, brancai il primo militare che mi capitò a tiro e gli dissi: “Devo riferire sull’attentato!” Questo, esclamando “santo Dio!”, iniziò a verbalizzare. Immediatamente mi trasferirono al Comando regionale di via della Moscova dove prima parlai con un capitano e poi con un colonnello. Da qui, andammo in piazza Fontana per un sopralluogo e poi di nuovo alla Moscova per disegnare un identikit. Nel frattempo, mi mostrarono centinaia di fotografie segnaletiche ma non trovai il volto che avevo visto il 12 dicembre. Infine, mi portarono a casa per permettermi di mangiare qualcosa. Alle 19:00 della stessa sera sentii suonare al citofono: era la Polizia che era venuta a prendermi per andare in Questura, in via Fatebenefratelli. Dopo oltre tre ore di anticamera, fui ricevuto dal questore Guida. Sulla sua scrivania c’era l’identikit che i Carabinieri avevano disegnato in mattinata e, dentro un foglio piegato a metà, la foto di un tizio. Il Questore mi mostrò la fotografia e mi chiese: “Rolandi guardi la foto e ci pensi molto bene: è questa la persona che venerdì 12 dicembre ha caricato sul suo taxi?” Io guardai la foto e dissi che, sì, mi sembrava lui, anche se non ne ero certo al cento per cento perché il tizio della fotografia era molto più smagrito ed aveva le guance scavate rispetto alla persona che avevo trasportato. Chiesi al Questore come si chiamasse e il dottor Guida rispose che si chiamava Pietro Valpreda.»
Per compiere rapidi passi in avanti, il Ministero dell’Interno istituisce una ricompensa pari a 50.000.000 di lire – un’enormità per l’epoca – da corrispondere a chi avesse fornito importanti informazioni utili alle indagini. Rolandi, sicuro di aver riconosciuto l’attentatore di piazza Fontana, è convinto che il suo senso civico, oltre ad aiutare la Polizia, lo ricompenserà anche dal punto di vista economico permettendogli, finalmente, di cambiare vita.
Cornelio Rolandi (ex tassista): «Dopo che riconobbi in Valpreda colui che avevo accompagnato in centro quel 12 dicembre, il dottor Guida, dandomi un buffetto sulla guancia, mi disse: “Bravo Rolandi! Ha finito di fare il tassista! Si è sistemato!” Io ero convinto si riferisse alla taglia di 50.000.000 di lire che dovevano dare ai testimoni utili alle indagini ma, di quei soldi, non ricevetti mai nemmeno un centesimo… Anzi: il giorno dopo vennero a prendermi per portarmi a Roma dove, in tribunale, mi misero a confronto con Valpreda per un confronto ufficiale.»
Cornelio Rolandi viene prelevato la mattina del 16 dicembre dal commissario capo Antonino Allegra e da altri membri dell’Ufficio Politico, viene caricato sul primo volo per Roma e portato direttamente in tribunale, nell’ufficio del giudice Vittorio Occorsio.
Quando Rolandi entra nell’ufficio del dottor Occorsio, si trova davanti ad altre cinque persone. Quattro di loro sono poliziotti ben vestiti, puliti, ordinati e ben rasati; il quinto, spettinato e coi vestiti stropicciati da una notte di interrogatorio, è Pietro Valpreda. Il giudice Occorsio chiede a Rolandi di indicargli se, tra i cinque uomini presenti nella stanza, vi fosse la persona che il tassista aveva caricato sul suo taxi nel tardo pomeriggio di venerdì 12 dicembre 1969. Non sarebbe una procedura molto corretta perché Rolandi, avendo già visto la foto di Valpreda il giorno precedente durante l’incontro col questore Guida, potrebbe essere rimasto influenzato. Ma non importa: Rolandi, con sicurezza, indica Valpreda dicendo, in dialetto, milanese, «l’è lü» («è lui»).
Pietro Valpreda (ex ballerino): «Nell’ufficio entrò questo tassista. Mi guardò un attimo e disse: “L’è lü.” Io lo guardai a mia volta e gli domandai: “Oh, ma mi hai guardato bene?!” Rolandi restò lì un attimo e poi rispose: “Beh, se non è lui, qui non c’è.” Chiesi quindi al mio legale – l’avvocato Guido Calvi – che fosse messo a verbale quanto aveva appena detto Rolandi.»
Dal momento in cui è stato riconosciuto, Pietro Valpreda diventa per tutti – stampa ed opinione pubblica – il “mostro”, il “corriere della morte”, la persona che, materialmente, ha messo la bomba sotto al tavolo ottagonale della Banca Nazionale dell’Agricoltura. Viene sbattuto in prima pagina dai giornali e dai telegiornali senza possibilità di appello: l’attentatore di piazza Fontana è lui.
Guido Calvi (ex avvocato): «Quando incontrai per la prima volta Rolandi, mi resi subito conto che era un pover’uomo, una persona alla mercè di tutti. Gli chiesi se, prima del confronto di Roma, avesse visto la fotografia di Pietro Valpreda e lui rispose che sì, non solo l’aveva vista, ma che gli era stato detto che il mio assistito doveva essere la persona da riconoscere. Era evidente che quel confronto, dal punto di vista giudiziario non fosse per nulla probatorio e, per questo, assolutamente nullo.»
È da qui che, per il tassista milanese, inizia il calvario che lo accompagnerà fino alla sua morte: benché in cuor suo fosse convinto di aver agito in buona fede, Rolandi verrà da tutti etichettato come “infame”, “contaballe”, “confidente della Polizia” e “sporco fascista”. Subito dopo piazza Fontana, smetterà di fare il tassista per andare a gestire un chiosco di bibite al parco pubblico di Corsico. Con la reputazione ormai distrutta, la vita di Cornelio Rolandi proseguirà così fino a luglio 1971, quando morirà a causa di un deperimento fisico legato all’ulcera gastrica che, nel frattempo, lo aveva colpito.
Giunti a questo punto della nostra storia, dobbiamo forzatamente fare un bilancio sui tanti colpi di scena cui abbiamo assistito e che ne hanno infittito la trama: la bomba trovata intatta alla Banca Commerciale Italiana di piazza della Scala che viene fatta esplodere senza poterla esaminare, il portiere di un condominio di Padova che muore cadendo nella tromba delle scale mentre stava lavorando, Giuseppe Pinelli che muore precipitando dalla finestra dell’ufficio del commissario Calabresi, Pietro Valpreda che viene riconosciuto da un testimone che sembra essere manovrato da terzi. Oltre a tutto questo, casomai non fosse abbastanza, qualcuno nota che un giornalista del Corriere della Sera – quel Giorgio Zicari che si trovava al palazzo di giustizia di Milano al momento dell’arresto di Valpreda – continua a fornire notizie inedite sulla strage di piazza Fontana quasi avesse una sorta di corsia preferenziale tra gli inquirenti. Sa sempre tutto prima di tutti e il 14 dicembre, addirittura, prima ancora che Cornelio Rolandi si rechi spontaneamente dai Carabinieri, Zicari scrive sul giornale dell’esistenza di un testimone che avrebbe riconosciuto l’attentatore di piazza Fontana.
Cosa sta succedendo nella storia della strage di piazza Fontana? Perché i conti non tornano?
Paolo Silva (figlio di Carlo Silva): «Io e mio fratello Giorgio pensammo, fin da subito, che l’attentato di piazza Fontana non avesse niente a che vedere coi soliti attentati dinamitardi. Ma fu proprio dopo la morte di Pinelli che ci convincemmo che la bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura fosse stata piazzata sotto una precisa regia.»
Ad indirizzare gli inquirenti verso gli anarchici e Pietro Valpreda, oltre alla testimonianza di Cornelio Rolandi, ci sono precise indicazioni di altri due personaggi che compaiono per la prima volta nella nostra storia: uno è il “compagno Andrea” e l’altro è Mario Michele Merlino. Entrambi fanno parte del circolo anarchico “22 marzo” ed entrambi conoscono molto bene sia Pietro Valpreda che le attività del circolo. Il “compagno Andrea” si chiama, in realtà, Salvatore Ippolito ed è un poliziotto infiltrato nel circolo dall’Ufficio Politico della Questura di Roma affinché fornisse alla Polizia una precisa mappatura del circolo dall’interno. Mario Merlino, invece, è un personaggio molto strano: afferma di essere anarchico ed è un assiduo frequentatore del circolo ma, in realtà, è un infiltrato neofascista che riferisce direttamente ai gruppi di Ordine Nuovo di Pino Rauti e di Avanguardia Nazionale di Stefano delle Chiaie. All’epoca dei fatti che stiamo raccontando, Mario Merlino ha 25 anni e. nella primavera del 1968, ha fatto parte di una delegazione, guidata da Pino Rauti, di neofascisti italiani in visita nella Grecia del regime dei Colonnelli.
Luciano Lanza (giornalista e scrittore): «Nel circolo anarchico “22 marzo” si venne a creare una situazione molto particolare: su una decina di componenti effettivi, tre erano infiltrati: Ippolito che era un poliziotto, Mario Merlino che era un neofascista vicino a Stefano Delle Chiaie e, infine, Stefano Serpieri che era un agente infiltrato del SID, il servizio segreto militare. Questa triade, confluita proprio nel circolo di Valpreda e Gargamelli, dà da pensare perché, grazie ad essa, il circolo “22 marzo”, per quanto concerne gli attentati di Roma, diventa il capro espiatorio perfetto… In tutte le manifestazioni cui quel gruppo aveva partecipato, aveva incitato alla violenza ed aveva cercato di scontrarsi con la Polizia. Ed anche se alla fine non aveva fatto nulla di più di ciò che facevano, a quei tempi, tutte le organizzazioni extraparlamentari sia di destra che di sinistra, il circolo anarchico “22 marzo” era diventato l’obiettivo principe a cui imputare la colpa degli attentati dinamitardi del 12 dicembre 1969.»
Paolo Bellucci (ex giornalista): «Pietro Valpreda, denunciato per concorso in strage durante le indagini per gli attentati di Milano e Roma, continua a negare.»
Fin dai primi istanti del suo fermo poi tramutatosi in arresto, Pietro Valpreda non ha mai smesso di proclamarsi innocente. Alla Polizia ha fornito, fin da subito, un alibi ben preciso: quel venerdì 12 dicembre, il ballerino si trovava a casa della prozia, in via Orsini a Milano, ed era a letto con l’influenza. “cinese” che, proprio in quegli stessi giorni, aveva fatto ammalare mezza Italia. La signora Rachele Torri – che avevamo lasciato al palazzo di giustizia di Milano durante il fermo del nipote – conferma quanto dice Valpreda e così fanno pure la madre Ele Lovati, la sorella Maddalena Valpreda e la nonna, Olimpia Torri.
Rachele Torri (prozia di Pietro Valpreda): «Pietro era a letto con la febbre. Bisognava andare a prendere il cappotto che avrebbe usato l’indomani per andare in ordine dal giudice Amati. Bene: ci andai io. Saranno state le 19:00 o le 19,30 e ricordo che salendo sull’autobus della linea E in piazza Giovanni dalle Bande Nere, una signora ha aperto La Notte e ho visto, a grossi caratteri, la parola “morti”. Le chiesi se fosse stato un incidente e lei mi rispose che erano state le bombe. Sono scesa in piazza del Duomo e, passando in via Dogana per prendere il tram 13 per andare in piazzale Corvetto dai genitori di Pietro, mi sono fermata all’edicola e ho comprato La Notte. Giunta da mia nipote, le ho detto che Pietro era arrivato, che stava male e che perciò ero andata io a prendere il cappotto. La sorella di Pietro, la Nena, mi ha raccomandato di farlo mangiare, mi ha dato il cappotto e le scarpe. Allora sono tornata subito a casa, ho detto a Pietro che sua sorella gli raccomandava di mangiare, poi gli ho dato il giornale.»
Ma non c’è nulla da fare: i giudici non credono all’alibi di Valpreda e lo rinviano a giudizio per concorso in strage. Il ballerino anarchico resterà in carcere fino al 1972 quando il Parlamento promulgherà una legge –   la numero 773 del 19 dicembre 1972 nota come “legge Valpreda” – che accorcerà i termini della custodia cautelare anche per i reati gravissimi, compreso quello di strage. Nel 1979, la Corte d’Assise di Catanzaro – sede in cui verrà celebrato il primo processo per la strage di piazza Fontana – assolverà Valpreda per insufficienza di prove: per i giudici, zia Rachele e le altre donne della famiglia hanno raccontato la verità. L’alibi di Valpreda per il giorno della strage regge tanto che l’uomo verrà assolto anche in appello. Nel 1986, il Tribunale di Bari – nel nuovo processo di appello richiesto dalla Cassazione – assolverà Valpreda sempre per insufficienza di prove nonostante per lui fosse stata richiesta l’assoluzione con formula piena. Nel 1987, infine, la Corte di Cassazione, cancellando tutte le condanne e dando, così, un “colpo di spugna” sulla vicenda di piazza Fontana, metterà fine all’odissea giudiziaria di Pietro Valpreda durata ben diciotto anni.

Pietro Valpreda (fotografia reperita su Internet)

Cornelio Rolandi a bordo del suo taxi (fotografia reperita su Internet)

Secondo da sinistra, ecco Pietro Valpreda tra i poliziotti durante il confronto del 16 dicembre 1969 (fotografia reperita su Internet)

Rachele Torri, la prozia di Pietro Valpreda (fotografia reperita su Internet)

Roberto Gargamelli, uno dei fondatori, insieme a Valpreda, del circolo anarchico "22 marzo" (fotografia reperita su Internet)

Mario Michele Merlino, il neofascista infiltrato nel circolo anarchico "22 marzo" di Gargamelli e Valpreda (fotografia reperita su Internet)

12 settembre 2021

LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA (puntata n° 7)

Come è morto Giuseppe Pinelli? E com’è stato possibile che un fermato sia precipitato dalla finestra dell’ufficio di una questura in cui si trovava sotto interrogatorio?
Il questore Marcello Guida indice immediatamente una conferenza stampa nella quale affermerà che Pinelli si è suicidato in seguito ai gravi indizi di colpevolezza che la Polizia gli aveva contestato durante l’interrogatorio: il ferroviere, vedendosi con le spalle al muro e senza via di scampo, era corso verso la finestra, l’aveva spalancata e si era lanciato di sotto. Un suicidio in piena regola, secondo Guida.
Dal telegiornale del 16 dicembre 1969: «Giuseppe Pinelli questa notte veniva interrogato in una stanza al quarto piano della Questura. Pinelli era noto per la sua attività anarchica ed il suo fermo era stato convalidato e protratto su disposizione dell’autorità giudiziaria. Durante una breve sosta dell’interrogatorio, si è gettato da una finestra rimasta socchiusa. Nonostante il tentativo di trattenerlo da parte del personale di polizia presente in quel momento – un ufficiale dei Carabinieri e quattro sottufficiali di Pubblica Sicurezza –, Pinelli è precipitato nel vuoto ed è caduto su un’aiuola. Lo hanno trasportato all’ospedale ma le cure dei sanitari sono risultate vane. Lascia la moglie e due figlie.»
Silvia Pinelli (figlia d Giuseppe Pinelli): «Mio padre è sempre stato una persona molto aperta con un enorme bisogno di confrontarsi con gli altri perché, in lui, si era radicato fortemente l’ideale di un mondo senza divisioni né barriere. Quella sera, come spesso accadeva, io e mia sorella Claudia eravamo a giocare con delle vicine di casa e, ad una certa ora, rientrammo a casa facendo le scale di corsa per vedere chi arrivasse prima.»
Claudia Pinelli (figlia di Giuseppe Pinelli): «Arrivate a casa, io e Silvia vedemmo la porta nella nostra piccolissima casa – si trattava di un bilocale nelle case popolari di via Preneste, nel quartiere S. Siro – completamente spalancata. All’interno c’erano diverse persone e, quando feci per avvicinarmi a loro per capire chi fossero, mia madre mi prese per un braccio e mi disse che non potevo avvicinarmi perché in casa nostra c’era la Polizia. Rovesciarono per terra ogni cosa: il contenuto dei cassetti, i libri della libreria, il contenuto dell’unico armadio che avevamo. Aprirono perfino i regali di Natale che i miei genitori avevano nascosto proprio dentro a quell’armadio affinché io e mia sorella non li trovassimo. La mamma ci spiegò che la Polizia si trovava lì perché era scoppiata una bomba dentro una banca e che, per questo fatto, anche nostro padre era stato fermato. Per rassicurarci, la mamma aggiunse che non c’era da preoccuparsi perché, scherzando come lei era solita fare, la Polizia avrebbe fatto prendere a papà un grosso “spaghetto” per poi rimandarlo a casa. È una frase che è rimasta impressa nella mia mente per tutti questi anni e di cui, quella sera, chiesi spiegazione a mia madre perché non capivo cosa intendesse dire. Lo “spaghetto” di cui parlava, non era nient’altro che uno spavento: la Polizia avrebbe fatto spaventare papà e poi lo avrebbe rimandato a casa da noi. Ma invece non fu così.»
Achille Serra (ex prefetto): «In tutto quel ricercare gli anarchici come ci fu ordinato, incappammo in Giuseppe Pinelli che, a quei tempi, era uno dei maggiori rappresentanti del mondo anarchico lombardo. Ciò che accadde quella notte non saprei come spiegarlo, ma vorrei precisare che il commissario Calabresi, al momento della caduta di Pinelli, non si trovava nella stanza poiché convocato dal suo capo.»
Le indagini sulla misteriosa morte di Giuseppe Pinelli vengono affidate al giovane giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio che, molti anni più tardi, farà parte del pool di giudici dell’inchiesta “Mani pulite” sulle tangenti ai partiti politici italiani.
Gerardo D’Ambrosio (ex magistrato): «Lavoravo a Milano già da diversi anni e mi imbattei nell’inchiesta sulla strage di piazza Fontana per puro caso. L’allora procuratore capo di Milano, il dottor Bianchi D’Espinosa – per me uno dei più grandi procuratori d’Italia – mi affidò l’inchiesta sulla morte del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli dopo che la signora Rognini, vedova del Pinelli, con atto formale di denuncia chiese la riapertura delle indagini. Le indagini preliminari si conclusero con un’archiviazione del procedimento da parte della Procura per suicidio. Secondo la tesi sostenuta dalla signora Rognini, nella sentenza di archiviazione del collega Antonio Amati non vi era la minima traccia di qualsiasi reale motivazione che potesse indurre il marito a togliersi la vita. In forza della denuncia della vedova Pinelli, era sacrosanto ed obbligatorio che l’inchiesta venisse riaperta ed io iniziai ad indagare.»
Gerardo D’Ambrosio, classe 1930, nasce a S. Maria a Vico, in provincia di Caserta. Dopo gli studi classici, nel 1952 si laurea in giurisprudenza e diventa procuratore legale. Nel 1957 entra in magistratura e, dopo il primo incarico presso il Tribunale di Nola, transiterà da Voghera per poi approdare a Milano. Nel capoluogo lombardo, per i primi cinque anni riveste l’incarico di pretore e poi diventa giudice istruttore. Per gran parte degli anni Settanta si occuperà dei fatti di piazza Fontana sia con l’inchiesta sulla morte del ferroviere Giuseppe Pinelli sia con l’inchiesta sulla strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura che, dopo essere stata assegnata alla Procura di Roma, ritorna nuovamente in possesso dei magistrati milanesi. Negli anni Ottanta si occupa dell’inchiesta sul fallimento del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e, nel 1992, avrà un ruolo importante nell’inchiesta “Mani pulite” insieme agli allora magistrati del pool Gherardo Colombo, Antonio Di Pietro e Piercamillo Davigo. Nel 1999 sostituisce Francesco Saverio Borrelli alla guida della Procura di Milano ricoprendo la carica di procuratore capo fino al 2002 quando va in pensione. Nel 2003 inizia a collaborare col quotidiano l’Unità e col settimanale Oggi. Nel 2006 inizia la sua avventura politica nelle fila del Partito Democratico venendo eletto dapprima in Lombardia e poi in Senato. Rimarrà in politica fino a febbraio del 2013. Da questa data in avanti, D’Ambrosio si ritirerà a vita privata e di lui non si saprà più nulla fino al 30 marzo 2014, quando, ricoverato da qualche giorno al Policlinico di Milano, morirà a causa di un attacco cardiaco.
Claudia Pinelli (figlia di Giuseppe Pinelli): «All’1:00 circa di quella notte, sentimmo suonare alla nostra porta. Mia madre si diresse verso l’uscio e, aprendone solo un piccolissimo spiraglio, fu accecata dai flash dei fotografi che seguivano i giornalisti. Mia madre venne avvisata dalla stampa che papà si trovava in gravissime condizioni all’ospedale Fatebenefratelli dopo essere caduto da una finestra. Mia madre, immediatamente, afferrò il telefono e chiamò in Questura chiedendo perché non fosse stata avvisata di una cosa gravissima come questa. A risponderle fu direttamente il commissario Calabresi che, dopo averle detto “ma sa signora, avevamo tanto da fare!”, le chiuse il telefono in faccia.»
Licia Rognini (moglie di Giuseppe Pinelli): «Ricevetti una prima telefonata da parte della Questura domenica 14 dicembre, in mattinata. Pensavo fosse Pino ma, invece, era un poliziotto. Mi fu detto di chiamare le Ferrovie dello Stato e dire che mio marito era malato. Alle 14:00 di lunedì 15 dicembre, arrivò un’altra chiamata della Questura in cui mi dissero di comunicare alle Ferrovie che mio marito si trovava in stato di fermo per accertamenti. Alle 22:00, il dottor Calabresi telefonò di persona per chiedermi di cercare il libretto chilometrico di Pino. Dieci minuti più tardi, avendolo trovato, richiamai Calabresi avvisandolo a riguardo e chiedendogli se dovessi portarglielo. Lui rispose che avrebbe mandato qualcuno a prenderlo. Gli chiesi notizie di Pino e lui mi disse che Pino era lì da loro “dove stava molto meglio”. Alle 23:00 un agente venne a ritirare il libretto chilometrico e poi, all’1:00 del 16 dicembre, i giornalisti arrivarono a casa mia dicendomi che Pino era grave.»
Dalle prime risultanze testimoniali dell’inchiesta raccolte immediatamente dopo la morte di Pinelli, sembra non esserci alcun dubbio che il ferroviere abbia deciso di suicidarsi. Tutti i presenti nell’ufficio del commissario Calabresi sono concordi nel dichiarare che, oltre al fatto che il funzionario non fosse lì, che Pinelli si sia buttato di sotto intenzionalmente: il brigadiere Mucilli dice che «Pinelli ha fatto un tuffo oltre la ringhiera», il brigadiere Caracuta che «Pinelli ha fatto un balzo verso la finestra», il brigadiere Mainardi ed il tenente Lograno affermano che «Pinelli è scattato verso la finestra» e il brigadiere Panessa, con maggiore precisione, afferma che «Pinelli ha fatto uno scatto felino verso la finestra».
Ma non è vero niente: durante l’inchiesta del giudice D’Ambrosio, direttamente interrogati, tutti i testi ritratteranno le dichiarazioni iniziali. Non ci furono né lo scatto felino, né il balzo verso la finestra, né il tuffo oltre la ringhiera.
Gli indagati, nelle nuove dichiarazioni che renderanno a D’Ambrosio, diranno che Pinelli, durante una pausa dell’interrogatorio, si avvicinò con calma verso la finestra per fumare una sigaretta. Quando il ferroviere mise la mano tra i battenti socchiusi della finestra, improvvisamente udirono un rumore di anta sbattuta e videro Pinelli cadere di sotto. Di più: nessuno dei presenti nella stanza – compreso il brigadiere Sarti che in quel preciso istante si trovava sull’uscio – vide effettivamente Pinelli cadere, ma solo le gambe ed i piedi dell’uomo che già si trovavano ben oltre la ringhiera.
Nel salone dei fermati al quarto piano della Questura c’è un anarchico che si chiama Pasquale Valitutti il quale, durante la fase istruttoria, dice di non aver visto passare il commissario Calabresi nei quindici minuti precedenti la caduta di Pinelli. Secondo la testimonianza di Valitutti, per recarsi nell’ufficio di Allegra, il commissario avrebbe dovuto transitare proprio nei pressi del salone dei fermati da cui l’anarchico poteva vedere un tratto di corridoio. Oltre a ciò, Valitutti racconta di aver udito forti rumori di colluttazione provenire dall’ufficio in cui Giuseppe Pinelli era interrogato. Questa testimonianza, però, verrà smentita al processo sia dal personale di polizia sia da altri anarchici che, quella sera, si trovavano confinati nel salone insieme a Valitutti.
Nonostante i dubbi legittimi sulle misteriose circostanze che portarono alla morte di Giuseppe Pinelli, l’inchiesta giudiziaria del giudice D’Ambrosio si concluderà, il 27 ottobre 1975, con l’assoluzione di tutti gli imputati – il tenente Lograno, i brigadieri Caracuta, Panessa, Mucilli e Mainardi, il commissario Calabresi e il commissario capo Allegra – «perché il fatto non sussiste». Per Antonino Allegra, inoltre, grazie alla sopraggiunta amnistia, decade il reato di arresto illegale: Pinelli era stato fermato già il 12 dicembre, ma il rapporto inerente il suo fermo era stato inviato alla Procura solo il giorno 14 quando già avrebbe dovuto essere rilasciato o trasferito in carcere.
Secondo il dispositivo della sentenza, Giuseppe Pinelli non si gettò volontariamente di sotto né venne spinto in alcun modo dal personale di polizia che lo stava interrogando: sul suo cadavere non furono riscontrati in alcun modo segni di violenza pre mortem ma solo ecchimosi e contusioni derivanti dalla caduta. Oltre a questo fatto, dalle testimonianze raccolte era emerso che Pinelli amava fortemente la vita ed era assolutamente inverosimile che pensasse di suicidarsi lasciando al loro destino l’amata moglie Licia e le sue adorate figlie Claudia e Silvia.
Per il giudice D’Ambrosio, Giuseppe Pinelli sarebbe precipitato dalla finestra a causa di un “malore attivo”: era stanco, fortemente teso, sotto pressione e, quando si sarebbe avvicinato alla finestra per fumare la sigaretta, avrebbe accusato una vertigine che avrebbe fatto ruotare il suo corpo in avanti oltre la ringhiera, alterando così il suo centro di gravità e provocandone la caduta nel vuoto.
Aldo Giannuli (storico): «La morte di Pinelli rimane ancora oggi, a tanti anni di distanza, un episodio che, per molti aspetti, non è stato ancora chiarito. Ci fu la tesi dell’incidente, quella del suicidio e quella del “malore attivo” che tanto piacque al giudice D’Ambrosio. A tutt’oggi, però, la tesi del giudice istruttore dell’epoca è rimasta indimostrata nonostante faccia parte, ormai, della giurisprudenza.»
Benedetta Tobagi (giornalista e scrittrice): «La morte di Pinelli destò un grande scandalo perché il ferroviere era, al momento della morte, trattenuto illegalmente in stato di fermo. Ed anche se la sentenza del 1975 mette la parola “fine” sul caso Pinelli dando la responsabilità del fatto ad un malore, ancora oggi non abbiamo la verità su ciò che è successo in quella stanza quella notte.»
Silvia Pinelli (figlia di Giuseppe Pinelli): «La vicenda di mio padre implica che qualsiasi cittadino innocente possa entrare in una questura e morire tragicamente. E senza alcuna risposta da parte delle istituzioni.»
Dopo la morte di Pinelli, iniziarono giorni convulsi e molto tesi. Il periodico Lotta Continua – e con esso quasi tutta la stampa di sinistra – iniziò una campagna accusatoria diretta al commissario Calabresi dipingendolo, di fatto, come l’assassino del ferroviere anarchico. La giornalista Camilla Cederna – la stessa a cui il questore Marcello Guida, in un’intervista, disse «le giuro che Pinelli non l’abbiamo ucciso noi!» – fece altrettanto, pubblicando sull’Espresso una lettera aperta nella quale metteva Calabresi con le spalle al muro per la morte dell’anarchico. Anche Dario Fo e sua moglie Franca Rame trattarono il caso Pinelli, rappresentando a teatro, nel 1970, la commedia Morte accidentale di un anarchico che costò loro diversi processi in tutt’Italia per vilipendio delle istituzioni, diffamazione e calunnia.
Achille Serra (ex prefetto): «I giorni dopo la morte di Pinelli furono sconvolgenti. L’intera stampa di sinistra – con in testa l’Avanti, l’Unità e Lotta Continua – si scatenò contro “noi fascisti” e soprattutto, col povero commissario Calabresi che – voglio ribadirlo casomai ve ne fosse il bisogno – al momento della caduta non si trovava in quella stanza perché recatosi dal commissario Allegra. Continuavo a chiedermi – ed a distanza di anni me lo chiedo ancora – come fosse possibile che, se davvero Pinelli fosse stato colpevole, la Polizia avesse interesse ad eliminarlo. Perché ucciderlo, se davvero Pinelli fosse stato coinvolto nell’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura?! Era follia pura… Eliminare una delle persone chiave coinvolte nell’esplosione, avrebbe impedito di trovare gli altri eventuali colpevoli. Ma ammesso e non concesso che in Questura fossero tutti impazziti tanto da decidere deliberatamente di uccidere il ferroviere, perché farlo lì e non da un’altra parte?! Non sarebbe stato più intelligente farlo sparire senza lasciare traccia e, soprattutto, il più possibile lontano dalle sue stanze?! Senza contare che, quella sera, insieme al personale nostro c’era pure un tenente dei Carabinieri… Ecco: è immaginabile che un ufficiale dell’Arma dei Carabinieri avallasse e coprisse un omicidio in Questura?! Era impossibile, ma nessuno degli organi di stampa e delle organizzazioni di sinistra fece un’attenta disamina sui fatti. Calabresi divenne così il bersaglio univoco come l’assassino di Giuseppe Pinelli tanto che venne battezzato “il commissario finestra”. Ricordo che venne inciso un brano musicale intitolato La ballata del Pinelli. E non dimentico il Premio Nobel Dario Fo che portò a teatro la pièce Morte accidentale di un anarchico. Ma, più di tutti, mi ferì la giornalista Camilla Cederna che, sull’Espresso, iniziò la campagna diffamatoria più dura di sempre nei confronti di Luigi Calabresi. Se davvero Calabresi era colpevole, perché la Cederna, anziché diffamarlo, non ha indagato sui fatti per scoprire e raccontare la verità?! La verità… La verità è che Luigi Calabresi per nulla al mondo avrebbe potuto intenzionalmente fare del male ad un essere umano. Ucciderlo, poi, era assolutamente impensabile. E non solo per la sua integrità di uomo, che lo aveva portato ad essere un esempio, un riferimento fondamentale per coloro che esercitavano la professione che la sua vocazione aveva scelto per lui. Luigi era un uomo dolce, pacato, assolutamente non incline alla violenza a cui, in ogni occasione, aveva preferito il dialogo ad ogni costo. Luigi Calabresi non ha ucciso né fatto uccidere Pinelli, ecco qual è la verità. Si conoscevano da diverso tempo e si stimavano… Ricordo che si erano perfino scambiati dei libri cosa che, se davvero Calabresi avesse odiato Pinelli al punto da farlo uccidere, non sarebbe di certo avvenuta! In più bisogna dire che, quella sera, Pinelli si contraddisse più volte e che, per questo motivo, il verbale dell'interrogatorio dovette essere riscritto: Pinelli prima diceva una cosa e poi la ritrattava. Eppure, nessuno dei colleghi si lamentò o manifestò irritazione evidente nei confronti dell'indagato. Un’altra grossissima falsità – a scriverla sempre la solita Cederna – fu che Pinelli venne interrogato per settantasette ore di fila… Ma che razza di sciocchezza! Pinelli venne interrogato tre volte al massimo: la prima volta nella notte tra il 12 ed il 13 dicembre dai brigadieri Mainardi e D’Alessandro; la seconda il 14 dicembre dal commissario Pagnozzi e, la terza, quel maledetto 15 dicembre da Calabresi. Il problema del caso Pinelli fu solo uno: la Polizia sbagliò completamente l’approccio a quel fatto. In poche ore vennero fornite tre differenti versioni dell’accaduto che non fecero altro che alimentare i sospetti. La prima: Pinelli decise volontariamente di suicidarsi, cogliendo di sorpresa tutti i presenti all’interno della stanza. La seconda: Pinelli aprì la finestra, si lanciò di sotto e il personale riuscì quasi ad afferrarlo ma senza riuscirci. La terza: Pinelli si lanciò fuori dalla finestra, il personale cercò di sventarne il suicidio perché il brigadiere Panessa provò a salvarlo afferrandolo per una gamba. Ma essendo Pinelli pesante, a Panessa non rimase in mano che una scarpa del povero ferroviere che cadde di sotto. Su quest’ultima tesi, peraltro, un giornalista dell’Unità, in conferenza stampa, fece notare che Pinelli, una volta giunto a terra, aveva ai piedi entrambe le scarpe. Se la Polizia avesse detto fin da subito come si erano svolti i fatti senza arrampicarsi sui vetri, probabilmente tutto il clamore sulla morte di Pinelli non ci sarebbe mai stato.»
Sebbene le parole del prefetto Serra siano sicuramente dettate dall’esperienza vissuta in quegli anni e dal rapporto di stima ed amicizia che nutriva nei confronti di Luigi Calabresi, è tuttavia innegabile che, nella notte tra il 15 ed il 16 dicembre 1969, in Questura accadde qualcosa che non doveva accadere. E questo “qualcosa” non è stato mai chiarito: né dai protagonisti e né dalle inchieste giudiziarie che pure hanno cercato di dare una spiegazione univoca e definitiva.
In un’audizione del 5 luglio 2000 presso la Commissione Stragi del Senato, Antonino Allegra – il commissario capo divenuto questore e che comandava l’Ufficio Politico negli anni di piazza Fontana – dà la sua versione dei fatti tralasciando di entrare nel dettaglio di come Pinelli cadde dalla finestra; nel corso degli anni, pur essendo stato contattato dalla stampa – fino allo sfinimento – affinché fornisse chiarimenti su tutto quanto fosse di sua conoscenza, Allegra non ha mai voluto dire nulla.
Antonino Allegra (ex questore): «Avevamo verificato che le prime dichiarazioni di Pinelli in merito al suo alibi per il tardo pomeriggio del 12 dicembre 1969 erano false. Pinelli aveva detto di essersi recato al bar di via Morgantini – che si trovava poco lontano da casa sua e dove era solito andare – e di aver giocato a carte fino alle 17:30. Dai controlli effettuati in loco, due persone affermavano di aver effettivamente giocato con Pinelli e anche altri avventori del bar, seduti al tavolo vicino, ricordavano di aver visto Pinelli giocare a carte. Tuttavia i titolari del bar – Pietro e Mario Gaviorno, rispettivamente padre e figlio – smentivano che la partita cui gli avventori si riferivano si fosse tenuta il 12 dicembre perché, quel pomeriggio, Pinelli arrivò al bar alle 14:30 circa in compagnia di uno sconosciuto che poi si rivelò essere Antonino Sottosanti, un estremista di destra che, stranamente, aveva fornito un alibi a Tito Pulsinelli – un compagno di Pinelli – in relazione all’attentato del 19 novembre 1969 ai danni della caserma di Pubblica Sicurezza “Garibaldi” di Milano. Secondo i Gaviorno, Pinelli e il Sottosanti – persona che loro vedevano per la prima volta – si allontanavano poco dopo aver bevuto un caffè. Premesso ciò, giungiamo alla sera del 15 dicembre, quando Pinelli avrebbe dovuto essere interrogato sia in relazione all’alibi falso, sia in relazione ai suoi rapporti con Valpreda. Quello doveva essere l’interrogatorio definitivo perché, essendoci stati i funerali delle vittime, nessuno aveva avuto tempo di interrogare Pinelli ed avendo noi dichiarato il suo fermo nella mattina del giorno 14, avremmo dovuto rilasciarlo o tradurlo in carcere entro la mattina del giorno 16. Decisi che l’interrogatorio fosse svolto dal dottor Calabresi che, avendo trascorso il pomeriggio a casa, avrebbe preso servizio dalle 20:00 del 15 dicembre alle 8:00 del mattino seguente. Mi raccomandai con Calabresi affinché, prima di condurre l’interrogatorio vero e proprio, si informasse con Pinelli del suo rapporto con Valpreda e che ciò mi fosse subito riferito prima della mattina del 16 in quanto dovevo partire urgentemente per Roma e portare con me quel verbale. Questo mini-interrogatorio avrebbe dovuto portare via tre quarti d’ora al massimo ma, siccome Pinelli continuava a cambiare versione e a ritrattare ciò che aveva detto un istante prima, ci volle molto più tempo tanto che mi recai due volte nell’ufficio di Calabresi a sollecitare ciò che avevo espressamente chiesto. Dopo che Pinelli precipitò dalla finestra, il questore Guida si affrettò a parlare di suicidio… Egli non aveva alcun obbligo in quel momento. Venne svegliato di notte, si alzò, si vestì, venne in Questura e, dopo cinque minuti, ricevette i giornalisti. Lui doveva dire semplicemente di portare pazienza perché si doveva rendere conto della situazione. Dopo di che eventualmente avrebbe potuto parlare. Poteva quindi limitarsi a dire poche cose, invece ha parlato un po’ di più non rendendosi conto, secondo me, che qualunque cosa si dicesse quando si aveva a che fare con certi ambienti, era sempre pericolosa perché poteva essere fraintesa ed anche fuorviata. Il Questore ingenuamente disse quello che gli passava per la mente in quel momento, ma non mi sembra che abbia commesso un grande delitto, perché lui credeva veramente, in quel momento lì, che Pinelli potesse essersi suicidato per non sopportare questa grossa responsabilità.»
Una cosa che però né il prefetto Serra né il questore Allegra dicono – peraltro tanto importante da gettare una luce differente sui fatti di quella notte – è che, da tempo, l'Ufficio Politico di Milano tentava di annoverare Giuseppe Pinelli come proprio informatore. Un personaggio del calibro di Pinelli, per via delle sue conoscenze all’interno del mondo anarchico, avrebbe senza dubbio aiutato la Polizia a capirne le logiche e coglierne anticipatamente ogni possibile piano eversivo. Proprio in quest’ottica andrebbe quindi visto l’avvicinamento di Luigi Calabresi verso il ferroviere col famoso scambio di libri di cui abbiamo parlato. E quando Pinelli si rifiutò, la Polizia lo avrebbe preso di mira fermandolo con qualsiasi pretesto e minacciandolo di fargli perdere il lavoro.
La campagna diffamatoria nei confronti di Luigi Calabresi culminerà il 17 maggio 1972 quando, in via Cherubini a Milano, il commissario verrà ucciso sotto casa a colpi d’arma da fuoco mentre si apprestava a salire sulla sua FIAT 500 per andare al lavoro. Per la sua morte, nel 1997, la Corte di Cassazione condannerà Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani, Ovidio Bompressi e Leonardo Marino – tutti membri di Lotta Continua – come mandanti ed esecutori materiali dell’omicidio.
Sia la storia di Giuseppe Pinelli che quella di Luigi Calabresi danno il senso tangibile di cosa sia stata la vicenda della strage di piazza Fontana, dove tutto è indefinito, nebuloso e misterioso. Dove ci si muove in una “zona grigia” nella quale non si riesce a risalire alla verità vera. Così è accaduto per l’omicidio del commissario Calabresi e così è accaduto per la morte di Pinelli: in tutti questi anni, la moglie Licia e le figlie Claudia e Silvia hanno provato, in ogni modo possibile, a stabilire senza ombra di dubbio come andarono le cose quella sera. Anni di ricerche, di procedimenti giudiziari in cui molti legali le hanno aiutate pro bono, non sono bastati a stabilire perché Giuseppe Pinelli sia morto. E, nonostante tutte e tre siano ben consce che Giuseppe sia caduto dalla finestra durante una fase concitata di un interrogatorio spintosi troppo in là, finora, ad oltre cinquantun anni di distanza, nessuno ha detto loro la verità che meritano di avere. La medesima richiesta di far luce sulla morte di Pinelli è stata fatta, nel maggio nel 2009, dall’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: poco prima di dimettersi, in una cerimonia di commemorazione delle vittime delle stragi tenutasi al Quirinale dove c’erano sia i famigliari di Pinelli che di Calabresi, ha ammesso che Giuseppe Pinelli è morto da innocente e che, per tale motivo, dovesse essere finalmente svelata tutta la verità sulla notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969.


Indicata dalla freccia, la finestra al quarto piano della Questura di Milano dalla quale è caduto Giuseppe Pinelli (fotografia reperita su Internet)


L'ex magistrato Gerardo D'Ambrosio che si occupò dell'inchiesta sulla morte di Giuseppe Pinelli (fotografia reperita su Internet)

Giuseppe Pinelli ritratto, da sinistra, con la figlia Silvia, la moglie Licia e la figlia Claudia (fotografia reperita su Internet)