Sono
intanto trascorsi quattro giorni dalla strage di piazza Fontana: è il 16
dicembre 1969 quando Giuseppe Pinelli muore “cadendo” dalla finestra del quarto
piano della Questura di Milano mentre diversi anarchici e militanti di sinistra
sono detenuti nel carcere di S. Vittore a Milano. Altri, come Roberto
Gargamelli e Pietro Valpreda, sono in custodia a Roma, nel carcere di Regina
Coeli.
Roberto Gargamelli (fondatore del circolo anarchico “22 marzo”): «Ero a casa coi miei genitori quando arrivarono i Carabinieri. Erano in quattro e, dopo aver effettuato una sommaria perquisizione in casa, senza darmi alcuna spiegazione, mi fermarono portandomi a Regina Coeli. Avevo 19 anni e fu un’esperienza traumatica: mi fecero spogliare e, dopo essere rimasto in mutande e maglietta, mi diedero una casacca di lana grezza accompagnata dalle scarpe di cartone che davano ai detenuti a quei tempi. Mi fecero sedere e mi misero in mano un fascicolo di circa quindici pagine in cui c’era scritta la parola “strage” coi nomi dei morti e dei feriti. In fondo c’era lo spazio per la firma e, quando mi dissero di firmare, chiesi loro se fossero pazzi. Ma non erano pazzi perché, ahimé, gli attentati c’erano stati davvero.»
A riconoscere Gargamelli quale esecutore materiale dell’attentato alla Banca Nazionale del Lavoro di via S. Basilio a Roma, è stato giovane addetto alle pulizie che, guardando le foto segnaletiche mostrategli dalla Polizia, indica senza indugi l’istantanea che mostra il volto dell’anarchico romano.
Roberto Gargamelli (fondatore del circolo anarchico “22 marzo”): «Qualche giorno dopo il mio ingresso in carcere, venni di nuovo interrogato. Il giudice mi disse che un testimone mi aveva visto lasciare la borsa con la bomba alla Banca Nazionale del Lavoro e che – lo lessi nel verbale – era sicuro al novantanove per cento che si trattasse di me. Il giudice mi disse che avrei dovuto sottopormi ad un confronto ed io, non avendo nessun’altra alternativa, acconsentii. Ricordo che, quel giorno, mi misero in mezzo a quattro poliziotti puliti, ben vestiti ed ordinati. Io ero in condizioni pietose come si potrà ben immaginare… Dopo diversi giorni di cella ero sporco e maleodorante perché non mi era stato permesso di lavarmi; sembravo un pulcino bagnato in una gabbia di matti… Il testimone era un ragazzo giovanissimo che poteva avere la mia età e che, quando mi vide, trasalì per lo stato in cui versavo. Non mi riconobbe perché ero completamente diverso dalla persona che aveva visto quel giorno in banca e, per questo motivo, non se la sentì di accusarmi come l’autore di quell’attentato.»
Sebbene Gargamelli venga escluso dalla lista dei colpevoli per gli attentati di Roma, non viene subito rilasciato. Gli inquirenti lo trattengono ulteriormente in custodia per un suo possibile coinvolgimento nella strage di piazza Fontana: il giovane romano avrebbe un rapporto stretto con Pietro Valpreda col quale ha fondato il circolo anarchico “22 marzo” e a cui, quella stessa mattina, il giudice Vittorio Occorsio contesta ufficialmente l’accusa di strage. Gargamelli, quindi, non può assolutamente essere rimesso in libertà perché potrebbe aver aiutato Valpreda a compiere l’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura.
Dal telegiornale del 16 dicembre, tutta l’Italia apprende, per bocca del giovanissimo inviato RAI Bruno Vespa, che Pietro Valpreda è il colpevole della strage di piazza Fontana. Ma perché la Polizia è convinta che Valpreda sia il colpevole degli ignobili attentati di Milano e di Roma? Quali sono gli elementi che inchiodano il ballerino anarchico?
Rodolfo Brancoli (ex giornalista): «Pochi istanti fa è arrivata questa notizia: un anarchico, appartenente al gruppo anarchico “22 marzo” e che si chiama Pietro Valpreda, è stato riconosciuto da un testimone giunto stamani da Milano. Nel corso di un confronto che si è svolto alla presenza del magistrato, è stato incriminato per il reato di concorso in strage. Il suo fermo è stato tramutato in arresto. Chiediamo, intanto, una conferma di questa notizia. Pronto, Vespa?»
Bruno Vespa (giornalista e scrittore): «Sì, sono qui: Pietro Valpreda è un colpevole, uno dei responsabili della strage di Milano e degli attentati di Roma. La conferma è arrivata un momento fa qui, nella Questura di Roma. Dottor Parlato, come siete arrivati ad una così rapida identificazione dei responsabili?»
Giuseppe Parlato (ex prefetto): «Attraverso un lavoro molto intenso che, come lei sa, è stato svolto in questi giorni da tutti i componenti le Questure di Roma e di Milano e dall’Arma dei Carabinieri.»
Bruno Vespa (giornalista e scrittore): «Voi avete avuto subito i primi indizi?»
Giuseppe Parlato (ex prefetto): «Sì, li abbiamo avuti, direi, dopo qualche ora quando si è cominciata a delineare un po’ più chiaramente la situazione e l’Ufficio Politico ha portato ad individuare gli elementi che potevano ritenersi responsabili degli attentati criminosi come quelli che si sono verificati.»
Bruno Vespa (giornalista e scrittore): «Ricordo bene quei giorni perché per me fu un’esperienza umana e professionale indimenticabile. Feci una gaffe colossale: parlai di Valpreda come del colpevole della strage di piazza Fontana anche se, in quel momento, l’uomo era sì fortemente indagato, ma non condannato in via definitiva e, per questo, innocente sino a prova contraria. C’è però da dire che, nonostante io avessi l’arroganza tipica di un giovane di 25 anni che voleva fare carriera, tutti i giornali dell’epoca – nessuno escluso – parlavano di Valpreda etichettandolo coi termini più disparati di cui il migliore era “mostro”. Ricordo che, dopo la prima tranche del collegamento col telegiornale, se non sbaglio, ricevetti la notizia dell’arresto di Valpreda dal direttore stesso del TG che era collegato con noi in bassa frequenza (la sua voce era udibile nella stanza dove ci trovavamo ma non veniva trasmessa in onda). La cosa quasi buffa, in quella che era a tutti gli effetti una tragedia, fu che il direttore ci intimò di non dire, nel modo più assoluto, che Valpreda facesse il ballerino di professione. Era stato infatti scritturato dalla RAI per una serie di spettacoli e, se fosse saltato fuori che questo ballerino, oltre ad essere anarchico, era pure accusato di essere l’autore materiale della strage di piazza Fontana, la TV pubblica avrebbe chiuso i battenti definitivamente. Ricevuto questo ultimatum da parte del direttore, andai dal questore Parlato – che poi diventò capo della Polizia – e gli dissi che doveva assolutamente confermare la notizia in diretta nazionale dicendo tutto ciò che sapeva. E lui, al microfono, affermò che un tassista, il 12 dicembre 1969, aveva accompagnato una persona, somigliante a Valpreda, nei pressi della Banca Nazionale dell’Agricoltura.»
Il testimone di cui parla il questore Giuseppe Parlato durante il collegamento TV con Bruno Vespa, si chiama Cornelio Rolandi: fa il tassista di professione, ha 47 anni ed è nato nel quartiere di Porta Ticinese a Milano. Vive, con la moglie e il figlio, al dodicesimo piano di un palazzone in via Copernico a Corsico, nell’hinterland milanese.
Rodolfo Brancoli (ex giornalista): «È un tassista – un tassista milanese – che si chiama Cornelio Rolandi e si è fatto avanti ieri mattina prima – è giusto sottolinearlo – che si avesse notizia della somma di 50.000.000 di lire messi a disposizione per chi avesse fornito notizie capaci di portare all’identificazione degli attentatori.»
La prima notizia inerente al tassista Rolandi giunge, al 113, la mattina del 15 dicembre: il professor Liliano Paolucci – direttore generale del patronato scolastico di Milano – telefona alla centrale operativa della Questura dicendo di essere salito in mattinata su di un taxi il cui conducente, a suo dire, avrebbe trasportato l’attentatore di piazza Fontana nel tardo pomeriggio del 12 dicembre.
Liliano Paolucci (ex professore): «La mattina del 15 dicembre salii su un taxi. Il taxi, come seppi poi, era quello di Cornelio Rolandi. Il conducente era molto agitato e sbagliò strada più volte. Gli chiesi perché non facesse più attenzione e perché fosse così distratto. Rolandi non sì fece pregare per rivelare “quello che si sentiva dentro”. Raccontò di essere stato proprio lui a portare in piazza Fontana, davanti alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, quello che aveva messo la bomba. Io dissi al tassista che era suo dovere raccontare alla Polizia quanto sapeva. Lui mi sembrò titubante; cosicché, quando scesi, annotai il numero della vettura – che era 3444 – e chiamai il 113 riferendo quanto avevo appreso.»
Il giorno della strage di piazza Fontana, Rolandi è di turno. Fermo in piazza Beccaria in attesa di clienti, da dentro il taxi Rolandi guarda in direzione dell’Hotel Ambasciatori quando scorge un tizio che, dalla Galleria del Corso, si dirige verso la piazzola dei taxi. L’uomo indossa un cappotto scuro col bavero alzato e, in mano, regge una borsa nera. Alle 16:12, l’uomo si infila rapidissimo nella FIAT 600 Multipla di Rolandi ed ordina al tassista di portarlo in via Albricci passando, però, da via S. Tecla.
Rolandi sa che il percorso da piazza Beccaria a via Albricci è di per sé abbastanza breve: lungo circa settecento metri, a piedi si percorre in circa quindici minuti e si snoda tra via Beccaria, piazza Fontana, via S. Clemente e via Larga. L’uomo salito sul taxi potrebbe andare tranquillamente a piedi passeggiando per il centro illuminato a festa, ma quella persona insiste affinché Rolandi lo accompagni col taxi. È molto strano, quell’uomo, e Rolandi, oltre a dirlo agli inquirenti la mattina del 15 dicembre, lo racconterà nell’intervista che rilascerà, nel gennaio del 1970, al giornalista Giampaolo Pansa.
Cornelio Rolandi (ex tassista): «Quando quell’uomo entrò nel taxi, ebbi modo di guardarlo molto bene, dato che il suo viso si trovava a poche decine di centimetri di distanza dal mio. E, anche se quel tizio era di poche parole ed aveva qualcosa di strano, aveva comunque un viso normale, come quello di tanti clienti che salivano, di solito, sul mio taxi. Mi disse che doveva andare in via Albricci e che avrei dovuto passare per via S. Tecla, una traversa di via S. Clemente. Non capii questo giro perché era insolito: per andare in via Albricci, era molto più comodo proseguire fino in fondo a via S. Clemente e svoltare, poi, a destra in via Larga. Ricordo che, non appena imboccai via S. Tecla, quell’uomo mi disse di fermarmi perché doveva scendere. Dopo essere sceso, richiuse la portiera del taxi sbattendola molto forte; la cosa mi dette fastidio perché, anche se la mia 600 era vecchia, la mantenevo in condizioni decorose e mi infastidiva molto che i clienti la trattassero come un rottame. Dopo quattro o cinque minuti il tizio tornò è lo accompagnai all’angolo tra via Larga e via Albricci. Fu nel momento in cui scese che notai che l’uomo non aveva più la borsa nera con sé.»
Pochi minuti dopo che l’uomo scende dal taxi di Rolandi, in piazza Fontana scoppia la bomba e si compie l’orribile strage di innocenti che ha scioccato l’Italia intera. Rolandi, incredulo, si rende conto di quanto sia stato fortunato per essere passato nei pressi della banca pochi istanti prima dell’esplosione ed essersi salvato. Ma la sera successiva, il dettaglio della borsa scomparsa inizia a farsi strada nella sua testa: in TV continuano a susseguirsi gli aggiornamenti sulla strage di piazza Fontana e scorrono le immagini della Mosbach-Gruber rinvenuta alla Banca Commerciale di piazza della Scala prima che venga fatta esplodere.
Cornelio Rolandi (ex tassista): «Più guardavo in TV le immagini della borsa – o valigetta che fosse – più sembrava essere quella appartenente al tizio del taxi. E se fosse stato davvero lui a mettere la bomba in piazza Fontana?! Mia moglie continuava a ripetermi che, quasi certamente, non era stato quell’uomo a far saltare in aria la banca. Il mio cervello, però, continuava a lavorare e a macinare: vedevo i volti delle vittime della banca e poi vedevo quell’uomo. La notte tra domenica 14 e lunedì 15 mi sentivo male, come un leone in gabbia. Alle 4:30 scoppiai a piangere così forte che svegliai mia moglie e mio figlio; fu lì che decisi che, in mattinata, sarei corso dalla Polizia a raccontare tutto.»
Dopo aver ricevuto la telefonata del professor Paolucci, la centrale operativa avverte immediatamente l’Ufficio Politico riguardo a ciò che il professore aveva raccontato. Gli uomini di Antonino Allegra diramano le ricerche per Cornelio Rolandi il quale, negli stessi istanti, si sta recando spontaneamente dai Carabinieri.
Cornelio Rolandi (ex tassista): «Quando mi alzai, mi recai in via Valpetrosa – non lontano dal Duomo – per andare al Comando dei Carabinieri che ha l’entrata in via Fosse Ardeatine. Appena entrato, brancai il primo militare che mi capitò a tiro e gli dissi: “Devo riferire sull’attentato!” Questo, esclamando “santo Dio!”, iniziò a verbalizzare. Immediatamente mi trasferirono al Comando regionale di via della Moscova dove prima parlai con un capitano e poi con un colonnello. Da qui, andammo in piazza Fontana per un sopralluogo e poi di nuovo alla Moscova per disegnare un identikit. Nel frattempo, mi mostrarono centinaia di fotografie segnaletiche ma non trovai il volto che avevo visto il 12 dicembre. Infine, mi portarono a casa per permettermi di mangiare qualcosa. Alle 19:00 della stessa sera sentii suonare al citofono: era la Polizia che era venuta a prendermi per andare in Questura, in via Fatebenefratelli. Dopo oltre tre ore di anticamera, fui ricevuto dal questore Guida. Sulla sua scrivania c’era l’identikit che i Carabinieri avevano disegnato in mattinata e, dentro un foglio piegato a metà, la foto di un tizio. Il Questore mi mostrò la fotografia e mi chiese: “Rolandi guardi la foto e ci pensi molto bene: è questa la persona che venerdì 12 dicembre ha caricato sul suo taxi?” Io guardai la foto e dissi che, sì, mi sembrava lui, anche se non ne ero certo al cento per cento perché il tizio della fotografia era molto più smagrito ed aveva le guance scavate rispetto alla persona che avevo trasportato. Chiesi al Questore come si chiamasse e il dottor Guida rispose che si chiamava Pietro Valpreda.»
Per compiere rapidi passi in avanti, il Ministero dell’Interno istituisce una ricompensa pari a 50.000.000 di lire – un’enormità per l’epoca – da corrispondere a chi avesse fornito importanti informazioni utili alle indagini. Rolandi, sicuro di aver riconosciuto l’attentatore di piazza Fontana, è convinto che il suo senso civico, oltre ad aiutare la Polizia, lo ricompenserà anche dal punto di vista economico permettendogli, finalmente, di cambiare vita.
Cornelio Rolandi (ex tassista): «Dopo che riconobbi in Valpreda colui che avevo accompagnato in centro quel 12 dicembre, il dottor Guida, dandomi un buffetto sulla guancia, mi disse: “Bravo Rolandi! Ha finito di fare il tassista! Si è sistemato!” Io ero convinto si riferisse alla taglia di 50.000.000 di lire che dovevano dare ai testimoni utili alle indagini ma, di quei soldi, non ricevetti mai nemmeno un centesimo… Anzi: il giorno dopo vennero a prendermi per portarmi a Roma dove, in tribunale, mi misero a confronto con Valpreda per un confronto ufficiale.»
Cornelio Rolandi viene prelevato la mattina del 16 dicembre dal commissario capo Antonino Allegra e da altri membri dell’Ufficio Politico, viene caricato sul primo volo per Roma e portato direttamente in tribunale, nell’ufficio del giudice Vittorio Occorsio.
Quando Rolandi entra nell’ufficio del dottor Occorsio, si trova davanti ad altre cinque persone. Quattro di loro sono poliziotti ben vestiti, puliti, ordinati e ben rasati; il quinto, spettinato e coi vestiti stropicciati da una notte di interrogatorio, è Pietro Valpreda. Il giudice Occorsio chiede a Rolandi di indicargli se, tra i cinque uomini presenti nella stanza, vi fosse la persona che il tassista aveva caricato sul suo taxi nel tardo pomeriggio di venerdì 12 dicembre 1969. Non sarebbe una procedura molto corretta perché Rolandi, avendo già visto la foto di Valpreda il giorno precedente durante l’incontro col questore Guida, potrebbe essere rimasto influenzato. Ma non importa: Rolandi, con sicurezza, indica Valpreda dicendo, in dialetto, milanese, «l’è lü» («è lui»).
Pietro Valpreda (ex ballerino): «Nell’ufficio entrò questo tassista. Mi guardò un attimo e disse: “L’è lü.” Io lo guardai a mia volta e gli domandai: “Oh, ma mi hai guardato bene?!” Rolandi restò lì un attimo e poi rispose: “Beh, se non è lui, qui non c’è.” Chiesi quindi al mio legale – l’avvocato Guido Calvi – che fosse messo a verbale quanto aveva appena detto Rolandi.»
Dal momento in cui è stato riconosciuto, Pietro Valpreda diventa per tutti – stampa ed opinione pubblica – il “mostro”, il “corriere della morte”, la persona che, materialmente, ha messo la bomba sotto al tavolo ottagonale della Banca Nazionale dell’Agricoltura. Viene sbattuto in prima pagina dai giornali e dai telegiornali senza possibilità di appello: l’attentatore di piazza Fontana è lui.
Guido Calvi (ex avvocato): «Quando incontrai per la prima volta Rolandi, mi resi subito conto che era un pover’uomo, una persona alla mercè di tutti. Gli chiesi se, prima del confronto di Roma, avesse visto la fotografia di Pietro Valpreda e lui rispose che sì, non solo l’aveva vista, ma che gli era stato detto che il mio assistito doveva essere la persona da riconoscere. Era evidente che quel confronto, dal punto di vista giudiziario non fosse per nulla probatorio e, per questo, assolutamente nullo.»
È da qui che, per il tassista milanese, inizia il calvario che lo accompagnerà fino alla sua morte: benché in cuor suo fosse convinto di aver agito in buona fede, Rolandi verrà da tutti etichettato come “infame”, “contaballe”, “confidente della Polizia” e “sporco fascista”. Subito dopo piazza Fontana, smetterà di fare il tassista per andare a gestire un chiosco di bibite al parco pubblico di Corsico. Con la reputazione ormai distrutta, la vita di Cornelio Rolandi proseguirà così fino a luglio 1971, quando morirà a causa di un deperimento fisico legato all’ulcera gastrica che, nel frattempo, lo aveva colpito.
Giunti a questo punto della nostra storia, dobbiamo forzatamente fare un bilancio sui tanti colpi di scena cui abbiamo assistito e che ne hanno infittito la trama: la bomba trovata intatta alla Banca Commerciale Italiana di piazza della Scala che viene fatta esplodere senza poterla esaminare, il portiere di un condominio di Padova che muore cadendo nella tromba delle scale mentre stava lavorando, Giuseppe Pinelli che muore precipitando dalla finestra dell’ufficio del commissario Calabresi, Pietro Valpreda che viene riconosciuto da un testimone che sembra essere manovrato da terzi. Oltre a tutto questo, casomai non fosse abbastanza, qualcuno nota che un giornalista del Corriere della Sera – quel Giorgio Zicari che si trovava al palazzo di giustizia di Milano al momento dell’arresto di Valpreda – continua a fornire notizie inedite sulla strage di piazza Fontana quasi avesse una sorta di corsia preferenziale tra gli inquirenti. Sa sempre tutto prima di tutti e il 14 dicembre, addirittura, prima ancora che Cornelio Rolandi si rechi spontaneamente dai Carabinieri, Zicari scrive sul giornale dell’esistenza di un testimone che avrebbe riconosciuto l’attentatore di piazza Fontana.
Cosa sta succedendo nella storia della strage di piazza Fontana? Perché i conti non tornano?
Paolo Silva (figlio di Carlo Silva): «Io e mio fratello Giorgio pensammo, fin da subito, che l’attentato di piazza Fontana non avesse niente a che vedere coi soliti attentati dinamitardi. Ma fu proprio dopo la morte di Pinelli che ci convincemmo che la bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura fosse stata piazzata sotto una precisa regia.»
Ad indirizzare gli inquirenti verso gli anarchici e Pietro Valpreda, oltre alla testimonianza di Cornelio Rolandi, ci sono precise indicazioni di altri due personaggi che compaiono per la prima volta nella nostra storia: uno è il “compagno Andrea” e l’altro è Mario Michele Merlino. Entrambi fanno parte del circolo anarchico “22 marzo” ed entrambi conoscono molto bene sia Pietro Valpreda che le attività del circolo. Il “compagno Andrea” si chiama, in realtà, Salvatore Ippolito ed è un poliziotto infiltrato nel circolo dall’Ufficio Politico della Questura di Roma affinché fornisse alla Polizia una precisa mappatura del circolo dall’interno. Mario Merlino, invece, è un personaggio molto strano: afferma di essere anarchico ed è un assiduo frequentatore del circolo ma, in realtà, è un infiltrato neofascista che riferisce direttamente ai gruppi di Ordine Nuovo di Pino Rauti e di Avanguardia Nazionale di Stefano delle Chiaie. All’epoca dei fatti che stiamo raccontando, Mario Merlino ha 25 anni e. nella primavera del 1968, ha fatto parte di una delegazione, guidata da Pino Rauti, di neofascisti italiani in visita nella Grecia del regime dei Colonnelli.
Luciano Lanza (giornalista e scrittore): «Nel circolo anarchico “22 marzo” si venne a creare una situazione molto particolare: su una decina di componenti effettivi, tre erano infiltrati: Ippolito che era un poliziotto, Mario Merlino che era un neofascista vicino a Stefano Delle Chiaie e, infine, Stefano Serpieri che era un agente infiltrato del SID, il servizio segreto militare. Questa triade, confluita proprio nel circolo di Valpreda e Gargamelli, dà da pensare perché, grazie ad essa, il circolo “22 marzo”, per quanto concerne gli attentati di Roma, diventa il capro espiatorio perfetto… In tutte le manifestazioni cui quel gruppo aveva partecipato, aveva incitato alla violenza ed aveva cercato di scontrarsi con la Polizia. Ed anche se alla fine non aveva fatto nulla di più di ciò che facevano, a quei tempi, tutte le organizzazioni extraparlamentari sia di destra che di sinistra, il circolo anarchico “22 marzo” era diventato l’obiettivo principe a cui imputare la colpa degli attentati dinamitardi del 12 dicembre 1969.»
Paolo Bellucci (ex giornalista): «Pietro Valpreda, denunciato per concorso in strage durante le indagini per gli attentati di Milano e Roma, continua a negare.»
Fin dai primi istanti del suo fermo poi tramutatosi in arresto, Pietro Valpreda non ha mai smesso di proclamarsi innocente. Alla Polizia ha fornito, fin da subito, un alibi ben preciso: quel venerdì 12 dicembre, il ballerino si trovava a casa della prozia, in via Orsini a Milano, ed era a letto con l’influenza. “cinese” che, proprio in quegli stessi giorni, aveva fatto ammalare mezza Italia. La signora Rachele Torri – che avevamo lasciato al palazzo di giustizia di Milano durante il fermo del nipote – conferma quanto dice Valpreda e così fanno pure la madre Ele Lovati, la sorella Maddalena Valpreda e la nonna, Olimpia Torri.
Rachele Torri (prozia di Pietro Valpreda): «Pietro era a letto con la febbre. Bisognava andare a prendere il cappotto che avrebbe usato l’indomani per andare in ordine dal giudice Amati. Bene: ci andai io. Saranno state le 19:00 o le 19,30 e ricordo che salendo sull’autobus della linea E in piazza Giovanni dalle Bande Nere, una signora ha aperto La Notte e ho visto, a grossi caratteri, la parola “morti”. Le chiesi se fosse stato un incidente e lei mi rispose che erano state le bombe. Sono scesa in piazza del Duomo e, passando in via Dogana per prendere il tram 13 per andare in piazzale Corvetto dai genitori di Pietro, mi sono fermata all’edicola e ho comprato La Notte. Giunta da mia nipote, le ho detto che Pietro era arrivato, che stava male e che perciò ero andata io a prendere il cappotto. La sorella di Pietro, la Nena, mi ha raccomandato di farlo mangiare, mi ha dato il cappotto e le scarpe. Allora sono tornata subito a casa, ho detto a Pietro che sua sorella gli raccomandava di mangiare, poi gli ho dato il giornale.»
Ma non c’è nulla da fare: i giudici non credono all’alibi di Valpreda e lo rinviano a giudizio per concorso in strage. Il ballerino anarchico resterà in carcere fino al 1972 quando il Parlamento promulgherà una legge – la numero 773 del 19 dicembre 1972 nota come “legge Valpreda” – che accorcerà i termini della custodia cautelare anche per i reati gravissimi, compreso quello di strage. Nel 1979, la Corte d’Assise di Catanzaro – sede in cui verrà celebrato il primo processo per la strage di piazza Fontana – assolverà Valpreda per insufficienza di prove: per i giudici, zia Rachele e le altre donne della famiglia hanno raccontato la verità. L’alibi di Valpreda per il giorno della strage regge tanto che l’uomo verrà assolto anche in appello. Nel 1986, il Tribunale di Bari – nel nuovo processo di appello richiesto dalla Cassazione – assolverà Valpreda sempre per insufficienza di prove nonostante per lui fosse stata richiesta l’assoluzione con formula piena. Nel 1987, infine, la Corte di Cassazione, cancellando tutte le condanne e dando, così, un “colpo di spugna” sulla vicenda di piazza Fontana, metterà fine all’odissea giudiziaria di Pietro Valpreda durata ben diciotto anni.
Roberto Gargamelli (fondatore del circolo anarchico “22 marzo”): «Ero a casa coi miei genitori quando arrivarono i Carabinieri. Erano in quattro e, dopo aver effettuato una sommaria perquisizione in casa, senza darmi alcuna spiegazione, mi fermarono portandomi a Regina Coeli. Avevo 19 anni e fu un’esperienza traumatica: mi fecero spogliare e, dopo essere rimasto in mutande e maglietta, mi diedero una casacca di lana grezza accompagnata dalle scarpe di cartone che davano ai detenuti a quei tempi. Mi fecero sedere e mi misero in mano un fascicolo di circa quindici pagine in cui c’era scritta la parola “strage” coi nomi dei morti e dei feriti. In fondo c’era lo spazio per la firma e, quando mi dissero di firmare, chiesi loro se fossero pazzi. Ma non erano pazzi perché, ahimé, gli attentati c’erano stati davvero.»
A riconoscere Gargamelli quale esecutore materiale dell’attentato alla Banca Nazionale del Lavoro di via S. Basilio a Roma, è stato giovane addetto alle pulizie che, guardando le foto segnaletiche mostrategli dalla Polizia, indica senza indugi l’istantanea che mostra il volto dell’anarchico romano.
Roberto Gargamelli (fondatore del circolo anarchico “22 marzo”): «Qualche giorno dopo il mio ingresso in carcere, venni di nuovo interrogato. Il giudice mi disse che un testimone mi aveva visto lasciare la borsa con la bomba alla Banca Nazionale del Lavoro e che – lo lessi nel verbale – era sicuro al novantanove per cento che si trattasse di me. Il giudice mi disse che avrei dovuto sottopormi ad un confronto ed io, non avendo nessun’altra alternativa, acconsentii. Ricordo che, quel giorno, mi misero in mezzo a quattro poliziotti puliti, ben vestiti ed ordinati. Io ero in condizioni pietose come si potrà ben immaginare… Dopo diversi giorni di cella ero sporco e maleodorante perché non mi era stato permesso di lavarmi; sembravo un pulcino bagnato in una gabbia di matti… Il testimone era un ragazzo giovanissimo che poteva avere la mia età e che, quando mi vide, trasalì per lo stato in cui versavo. Non mi riconobbe perché ero completamente diverso dalla persona che aveva visto quel giorno in banca e, per questo motivo, non se la sentì di accusarmi come l’autore di quell’attentato.»
Sebbene Gargamelli venga escluso dalla lista dei colpevoli per gli attentati di Roma, non viene subito rilasciato. Gli inquirenti lo trattengono ulteriormente in custodia per un suo possibile coinvolgimento nella strage di piazza Fontana: il giovane romano avrebbe un rapporto stretto con Pietro Valpreda col quale ha fondato il circolo anarchico “22 marzo” e a cui, quella stessa mattina, il giudice Vittorio Occorsio contesta ufficialmente l’accusa di strage. Gargamelli, quindi, non può assolutamente essere rimesso in libertà perché potrebbe aver aiutato Valpreda a compiere l’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura.
Dal telegiornale del 16 dicembre, tutta l’Italia apprende, per bocca del giovanissimo inviato RAI Bruno Vespa, che Pietro Valpreda è il colpevole della strage di piazza Fontana. Ma perché la Polizia è convinta che Valpreda sia il colpevole degli ignobili attentati di Milano e di Roma? Quali sono gli elementi che inchiodano il ballerino anarchico?
Rodolfo Brancoli (ex giornalista): «Pochi istanti fa è arrivata questa notizia: un anarchico, appartenente al gruppo anarchico “22 marzo” e che si chiama Pietro Valpreda, è stato riconosciuto da un testimone giunto stamani da Milano. Nel corso di un confronto che si è svolto alla presenza del magistrato, è stato incriminato per il reato di concorso in strage. Il suo fermo è stato tramutato in arresto. Chiediamo, intanto, una conferma di questa notizia. Pronto, Vespa?»
Bruno Vespa (giornalista e scrittore): «Sì, sono qui: Pietro Valpreda è un colpevole, uno dei responsabili della strage di Milano e degli attentati di Roma. La conferma è arrivata un momento fa qui, nella Questura di Roma. Dottor Parlato, come siete arrivati ad una così rapida identificazione dei responsabili?»
Giuseppe Parlato (ex prefetto): «Attraverso un lavoro molto intenso che, come lei sa, è stato svolto in questi giorni da tutti i componenti le Questure di Roma e di Milano e dall’Arma dei Carabinieri.»
Bruno Vespa (giornalista e scrittore): «Voi avete avuto subito i primi indizi?»
Giuseppe Parlato (ex prefetto): «Sì, li abbiamo avuti, direi, dopo qualche ora quando si è cominciata a delineare un po’ più chiaramente la situazione e l’Ufficio Politico ha portato ad individuare gli elementi che potevano ritenersi responsabili degli attentati criminosi come quelli che si sono verificati.»
Bruno Vespa (giornalista e scrittore): «Ricordo bene quei giorni perché per me fu un’esperienza umana e professionale indimenticabile. Feci una gaffe colossale: parlai di Valpreda come del colpevole della strage di piazza Fontana anche se, in quel momento, l’uomo era sì fortemente indagato, ma non condannato in via definitiva e, per questo, innocente sino a prova contraria. C’è però da dire che, nonostante io avessi l’arroganza tipica di un giovane di 25 anni che voleva fare carriera, tutti i giornali dell’epoca – nessuno escluso – parlavano di Valpreda etichettandolo coi termini più disparati di cui il migliore era “mostro”. Ricordo che, dopo la prima tranche del collegamento col telegiornale, se non sbaglio, ricevetti la notizia dell’arresto di Valpreda dal direttore stesso del TG che era collegato con noi in bassa frequenza (la sua voce era udibile nella stanza dove ci trovavamo ma non veniva trasmessa in onda). La cosa quasi buffa, in quella che era a tutti gli effetti una tragedia, fu che il direttore ci intimò di non dire, nel modo più assoluto, che Valpreda facesse il ballerino di professione. Era stato infatti scritturato dalla RAI per una serie di spettacoli e, se fosse saltato fuori che questo ballerino, oltre ad essere anarchico, era pure accusato di essere l’autore materiale della strage di piazza Fontana, la TV pubblica avrebbe chiuso i battenti definitivamente. Ricevuto questo ultimatum da parte del direttore, andai dal questore Parlato – che poi diventò capo della Polizia – e gli dissi che doveva assolutamente confermare la notizia in diretta nazionale dicendo tutto ciò che sapeva. E lui, al microfono, affermò che un tassista, il 12 dicembre 1969, aveva accompagnato una persona, somigliante a Valpreda, nei pressi della Banca Nazionale dell’Agricoltura.»
Il testimone di cui parla il questore Giuseppe Parlato durante il collegamento TV con Bruno Vespa, si chiama Cornelio Rolandi: fa il tassista di professione, ha 47 anni ed è nato nel quartiere di Porta Ticinese a Milano. Vive, con la moglie e il figlio, al dodicesimo piano di un palazzone in via Copernico a Corsico, nell’hinterland milanese.
Rodolfo Brancoli (ex giornalista): «È un tassista – un tassista milanese – che si chiama Cornelio Rolandi e si è fatto avanti ieri mattina prima – è giusto sottolinearlo – che si avesse notizia della somma di 50.000.000 di lire messi a disposizione per chi avesse fornito notizie capaci di portare all’identificazione degli attentatori.»
La prima notizia inerente al tassista Rolandi giunge, al 113, la mattina del 15 dicembre: il professor Liliano Paolucci – direttore generale del patronato scolastico di Milano – telefona alla centrale operativa della Questura dicendo di essere salito in mattinata su di un taxi il cui conducente, a suo dire, avrebbe trasportato l’attentatore di piazza Fontana nel tardo pomeriggio del 12 dicembre.
Liliano Paolucci (ex professore): «La mattina del 15 dicembre salii su un taxi. Il taxi, come seppi poi, era quello di Cornelio Rolandi. Il conducente era molto agitato e sbagliò strada più volte. Gli chiesi perché non facesse più attenzione e perché fosse così distratto. Rolandi non sì fece pregare per rivelare “quello che si sentiva dentro”. Raccontò di essere stato proprio lui a portare in piazza Fontana, davanti alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, quello che aveva messo la bomba. Io dissi al tassista che era suo dovere raccontare alla Polizia quanto sapeva. Lui mi sembrò titubante; cosicché, quando scesi, annotai il numero della vettura – che era 3444 – e chiamai il 113 riferendo quanto avevo appreso.»
Il giorno della strage di piazza Fontana, Rolandi è di turno. Fermo in piazza Beccaria in attesa di clienti, da dentro il taxi Rolandi guarda in direzione dell’Hotel Ambasciatori quando scorge un tizio che, dalla Galleria del Corso, si dirige verso la piazzola dei taxi. L’uomo indossa un cappotto scuro col bavero alzato e, in mano, regge una borsa nera. Alle 16:12, l’uomo si infila rapidissimo nella FIAT 600 Multipla di Rolandi ed ordina al tassista di portarlo in via Albricci passando, però, da via S. Tecla.
Rolandi sa che il percorso da piazza Beccaria a via Albricci è di per sé abbastanza breve: lungo circa settecento metri, a piedi si percorre in circa quindici minuti e si snoda tra via Beccaria, piazza Fontana, via S. Clemente e via Larga. L’uomo salito sul taxi potrebbe andare tranquillamente a piedi passeggiando per il centro illuminato a festa, ma quella persona insiste affinché Rolandi lo accompagni col taxi. È molto strano, quell’uomo, e Rolandi, oltre a dirlo agli inquirenti la mattina del 15 dicembre, lo racconterà nell’intervista che rilascerà, nel gennaio del 1970, al giornalista Giampaolo Pansa.
Cornelio Rolandi (ex tassista): «Quando quell’uomo entrò nel taxi, ebbi modo di guardarlo molto bene, dato che il suo viso si trovava a poche decine di centimetri di distanza dal mio. E, anche se quel tizio era di poche parole ed aveva qualcosa di strano, aveva comunque un viso normale, come quello di tanti clienti che salivano, di solito, sul mio taxi. Mi disse che doveva andare in via Albricci e che avrei dovuto passare per via S. Tecla, una traversa di via S. Clemente. Non capii questo giro perché era insolito: per andare in via Albricci, era molto più comodo proseguire fino in fondo a via S. Clemente e svoltare, poi, a destra in via Larga. Ricordo che, non appena imboccai via S. Tecla, quell’uomo mi disse di fermarmi perché doveva scendere. Dopo essere sceso, richiuse la portiera del taxi sbattendola molto forte; la cosa mi dette fastidio perché, anche se la mia 600 era vecchia, la mantenevo in condizioni decorose e mi infastidiva molto che i clienti la trattassero come un rottame. Dopo quattro o cinque minuti il tizio tornò è lo accompagnai all’angolo tra via Larga e via Albricci. Fu nel momento in cui scese che notai che l’uomo non aveva più la borsa nera con sé.»
Pochi minuti dopo che l’uomo scende dal taxi di Rolandi, in piazza Fontana scoppia la bomba e si compie l’orribile strage di innocenti che ha scioccato l’Italia intera. Rolandi, incredulo, si rende conto di quanto sia stato fortunato per essere passato nei pressi della banca pochi istanti prima dell’esplosione ed essersi salvato. Ma la sera successiva, il dettaglio della borsa scomparsa inizia a farsi strada nella sua testa: in TV continuano a susseguirsi gli aggiornamenti sulla strage di piazza Fontana e scorrono le immagini della Mosbach-Gruber rinvenuta alla Banca Commerciale di piazza della Scala prima che venga fatta esplodere.
Cornelio Rolandi (ex tassista): «Più guardavo in TV le immagini della borsa – o valigetta che fosse – più sembrava essere quella appartenente al tizio del taxi. E se fosse stato davvero lui a mettere la bomba in piazza Fontana?! Mia moglie continuava a ripetermi che, quasi certamente, non era stato quell’uomo a far saltare in aria la banca. Il mio cervello, però, continuava a lavorare e a macinare: vedevo i volti delle vittime della banca e poi vedevo quell’uomo. La notte tra domenica 14 e lunedì 15 mi sentivo male, come un leone in gabbia. Alle 4:30 scoppiai a piangere così forte che svegliai mia moglie e mio figlio; fu lì che decisi che, in mattinata, sarei corso dalla Polizia a raccontare tutto.»
Dopo aver ricevuto la telefonata del professor Paolucci, la centrale operativa avverte immediatamente l’Ufficio Politico riguardo a ciò che il professore aveva raccontato. Gli uomini di Antonino Allegra diramano le ricerche per Cornelio Rolandi il quale, negli stessi istanti, si sta recando spontaneamente dai Carabinieri.
Cornelio Rolandi (ex tassista): «Quando mi alzai, mi recai in via Valpetrosa – non lontano dal Duomo – per andare al Comando dei Carabinieri che ha l’entrata in via Fosse Ardeatine. Appena entrato, brancai il primo militare che mi capitò a tiro e gli dissi: “Devo riferire sull’attentato!” Questo, esclamando “santo Dio!”, iniziò a verbalizzare. Immediatamente mi trasferirono al Comando regionale di via della Moscova dove prima parlai con un capitano e poi con un colonnello. Da qui, andammo in piazza Fontana per un sopralluogo e poi di nuovo alla Moscova per disegnare un identikit. Nel frattempo, mi mostrarono centinaia di fotografie segnaletiche ma non trovai il volto che avevo visto il 12 dicembre. Infine, mi portarono a casa per permettermi di mangiare qualcosa. Alle 19:00 della stessa sera sentii suonare al citofono: era la Polizia che era venuta a prendermi per andare in Questura, in via Fatebenefratelli. Dopo oltre tre ore di anticamera, fui ricevuto dal questore Guida. Sulla sua scrivania c’era l’identikit che i Carabinieri avevano disegnato in mattinata e, dentro un foglio piegato a metà, la foto di un tizio. Il Questore mi mostrò la fotografia e mi chiese: “Rolandi guardi la foto e ci pensi molto bene: è questa la persona che venerdì 12 dicembre ha caricato sul suo taxi?” Io guardai la foto e dissi che, sì, mi sembrava lui, anche se non ne ero certo al cento per cento perché il tizio della fotografia era molto più smagrito ed aveva le guance scavate rispetto alla persona che avevo trasportato. Chiesi al Questore come si chiamasse e il dottor Guida rispose che si chiamava Pietro Valpreda.»
Per compiere rapidi passi in avanti, il Ministero dell’Interno istituisce una ricompensa pari a 50.000.000 di lire – un’enormità per l’epoca – da corrispondere a chi avesse fornito importanti informazioni utili alle indagini. Rolandi, sicuro di aver riconosciuto l’attentatore di piazza Fontana, è convinto che il suo senso civico, oltre ad aiutare la Polizia, lo ricompenserà anche dal punto di vista economico permettendogli, finalmente, di cambiare vita.
Cornelio Rolandi (ex tassista): «Dopo che riconobbi in Valpreda colui che avevo accompagnato in centro quel 12 dicembre, il dottor Guida, dandomi un buffetto sulla guancia, mi disse: “Bravo Rolandi! Ha finito di fare il tassista! Si è sistemato!” Io ero convinto si riferisse alla taglia di 50.000.000 di lire che dovevano dare ai testimoni utili alle indagini ma, di quei soldi, non ricevetti mai nemmeno un centesimo… Anzi: il giorno dopo vennero a prendermi per portarmi a Roma dove, in tribunale, mi misero a confronto con Valpreda per un confronto ufficiale.»
Cornelio Rolandi viene prelevato la mattina del 16 dicembre dal commissario capo Antonino Allegra e da altri membri dell’Ufficio Politico, viene caricato sul primo volo per Roma e portato direttamente in tribunale, nell’ufficio del giudice Vittorio Occorsio.
Quando Rolandi entra nell’ufficio del dottor Occorsio, si trova davanti ad altre cinque persone. Quattro di loro sono poliziotti ben vestiti, puliti, ordinati e ben rasati; il quinto, spettinato e coi vestiti stropicciati da una notte di interrogatorio, è Pietro Valpreda. Il giudice Occorsio chiede a Rolandi di indicargli se, tra i cinque uomini presenti nella stanza, vi fosse la persona che il tassista aveva caricato sul suo taxi nel tardo pomeriggio di venerdì 12 dicembre 1969. Non sarebbe una procedura molto corretta perché Rolandi, avendo già visto la foto di Valpreda il giorno precedente durante l’incontro col questore Guida, potrebbe essere rimasto influenzato. Ma non importa: Rolandi, con sicurezza, indica Valpreda dicendo, in dialetto, milanese, «l’è lü» («è lui»).
Pietro Valpreda (ex ballerino): «Nell’ufficio entrò questo tassista. Mi guardò un attimo e disse: “L’è lü.” Io lo guardai a mia volta e gli domandai: “Oh, ma mi hai guardato bene?!” Rolandi restò lì un attimo e poi rispose: “Beh, se non è lui, qui non c’è.” Chiesi quindi al mio legale – l’avvocato Guido Calvi – che fosse messo a verbale quanto aveva appena detto Rolandi.»
Dal momento in cui è stato riconosciuto, Pietro Valpreda diventa per tutti – stampa ed opinione pubblica – il “mostro”, il “corriere della morte”, la persona che, materialmente, ha messo la bomba sotto al tavolo ottagonale della Banca Nazionale dell’Agricoltura. Viene sbattuto in prima pagina dai giornali e dai telegiornali senza possibilità di appello: l’attentatore di piazza Fontana è lui.
Guido Calvi (ex avvocato): «Quando incontrai per la prima volta Rolandi, mi resi subito conto che era un pover’uomo, una persona alla mercè di tutti. Gli chiesi se, prima del confronto di Roma, avesse visto la fotografia di Pietro Valpreda e lui rispose che sì, non solo l’aveva vista, ma che gli era stato detto che il mio assistito doveva essere la persona da riconoscere. Era evidente che quel confronto, dal punto di vista giudiziario non fosse per nulla probatorio e, per questo, assolutamente nullo.»
È da qui che, per il tassista milanese, inizia il calvario che lo accompagnerà fino alla sua morte: benché in cuor suo fosse convinto di aver agito in buona fede, Rolandi verrà da tutti etichettato come “infame”, “contaballe”, “confidente della Polizia” e “sporco fascista”. Subito dopo piazza Fontana, smetterà di fare il tassista per andare a gestire un chiosco di bibite al parco pubblico di Corsico. Con la reputazione ormai distrutta, la vita di Cornelio Rolandi proseguirà così fino a luglio 1971, quando morirà a causa di un deperimento fisico legato all’ulcera gastrica che, nel frattempo, lo aveva colpito.
Giunti a questo punto della nostra storia, dobbiamo forzatamente fare un bilancio sui tanti colpi di scena cui abbiamo assistito e che ne hanno infittito la trama: la bomba trovata intatta alla Banca Commerciale Italiana di piazza della Scala che viene fatta esplodere senza poterla esaminare, il portiere di un condominio di Padova che muore cadendo nella tromba delle scale mentre stava lavorando, Giuseppe Pinelli che muore precipitando dalla finestra dell’ufficio del commissario Calabresi, Pietro Valpreda che viene riconosciuto da un testimone che sembra essere manovrato da terzi. Oltre a tutto questo, casomai non fosse abbastanza, qualcuno nota che un giornalista del Corriere della Sera – quel Giorgio Zicari che si trovava al palazzo di giustizia di Milano al momento dell’arresto di Valpreda – continua a fornire notizie inedite sulla strage di piazza Fontana quasi avesse una sorta di corsia preferenziale tra gli inquirenti. Sa sempre tutto prima di tutti e il 14 dicembre, addirittura, prima ancora che Cornelio Rolandi si rechi spontaneamente dai Carabinieri, Zicari scrive sul giornale dell’esistenza di un testimone che avrebbe riconosciuto l’attentatore di piazza Fontana.
Cosa sta succedendo nella storia della strage di piazza Fontana? Perché i conti non tornano?
Paolo Silva (figlio di Carlo Silva): «Io e mio fratello Giorgio pensammo, fin da subito, che l’attentato di piazza Fontana non avesse niente a che vedere coi soliti attentati dinamitardi. Ma fu proprio dopo la morte di Pinelli che ci convincemmo che la bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura fosse stata piazzata sotto una precisa regia.»
Ad indirizzare gli inquirenti verso gli anarchici e Pietro Valpreda, oltre alla testimonianza di Cornelio Rolandi, ci sono precise indicazioni di altri due personaggi che compaiono per la prima volta nella nostra storia: uno è il “compagno Andrea” e l’altro è Mario Michele Merlino. Entrambi fanno parte del circolo anarchico “22 marzo” ed entrambi conoscono molto bene sia Pietro Valpreda che le attività del circolo. Il “compagno Andrea” si chiama, in realtà, Salvatore Ippolito ed è un poliziotto infiltrato nel circolo dall’Ufficio Politico della Questura di Roma affinché fornisse alla Polizia una precisa mappatura del circolo dall’interno. Mario Merlino, invece, è un personaggio molto strano: afferma di essere anarchico ed è un assiduo frequentatore del circolo ma, in realtà, è un infiltrato neofascista che riferisce direttamente ai gruppi di Ordine Nuovo di Pino Rauti e di Avanguardia Nazionale di Stefano delle Chiaie. All’epoca dei fatti che stiamo raccontando, Mario Merlino ha 25 anni e. nella primavera del 1968, ha fatto parte di una delegazione, guidata da Pino Rauti, di neofascisti italiani in visita nella Grecia del regime dei Colonnelli.
Luciano Lanza (giornalista e scrittore): «Nel circolo anarchico “22 marzo” si venne a creare una situazione molto particolare: su una decina di componenti effettivi, tre erano infiltrati: Ippolito che era un poliziotto, Mario Merlino che era un neofascista vicino a Stefano Delle Chiaie e, infine, Stefano Serpieri che era un agente infiltrato del SID, il servizio segreto militare. Questa triade, confluita proprio nel circolo di Valpreda e Gargamelli, dà da pensare perché, grazie ad essa, il circolo “22 marzo”, per quanto concerne gli attentati di Roma, diventa il capro espiatorio perfetto… In tutte le manifestazioni cui quel gruppo aveva partecipato, aveva incitato alla violenza ed aveva cercato di scontrarsi con la Polizia. Ed anche se alla fine non aveva fatto nulla di più di ciò che facevano, a quei tempi, tutte le organizzazioni extraparlamentari sia di destra che di sinistra, il circolo anarchico “22 marzo” era diventato l’obiettivo principe a cui imputare la colpa degli attentati dinamitardi del 12 dicembre 1969.»
Paolo Bellucci (ex giornalista): «Pietro Valpreda, denunciato per concorso in strage durante le indagini per gli attentati di Milano e Roma, continua a negare.»
Fin dai primi istanti del suo fermo poi tramutatosi in arresto, Pietro Valpreda non ha mai smesso di proclamarsi innocente. Alla Polizia ha fornito, fin da subito, un alibi ben preciso: quel venerdì 12 dicembre, il ballerino si trovava a casa della prozia, in via Orsini a Milano, ed era a letto con l’influenza. “cinese” che, proprio in quegli stessi giorni, aveva fatto ammalare mezza Italia. La signora Rachele Torri – che avevamo lasciato al palazzo di giustizia di Milano durante il fermo del nipote – conferma quanto dice Valpreda e così fanno pure la madre Ele Lovati, la sorella Maddalena Valpreda e la nonna, Olimpia Torri.
Rachele Torri (prozia di Pietro Valpreda): «Pietro era a letto con la febbre. Bisognava andare a prendere il cappotto che avrebbe usato l’indomani per andare in ordine dal giudice Amati. Bene: ci andai io. Saranno state le 19:00 o le 19,30 e ricordo che salendo sull’autobus della linea E in piazza Giovanni dalle Bande Nere, una signora ha aperto La Notte e ho visto, a grossi caratteri, la parola “morti”. Le chiesi se fosse stato un incidente e lei mi rispose che erano state le bombe. Sono scesa in piazza del Duomo e, passando in via Dogana per prendere il tram 13 per andare in piazzale Corvetto dai genitori di Pietro, mi sono fermata all’edicola e ho comprato La Notte. Giunta da mia nipote, le ho detto che Pietro era arrivato, che stava male e che perciò ero andata io a prendere il cappotto. La sorella di Pietro, la Nena, mi ha raccomandato di farlo mangiare, mi ha dato il cappotto e le scarpe. Allora sono tornata subito a casa, ho detto a Pietro che sua sorella gli raccomandava di mangiare, poi gli ho dato il giornale.»
Ma non c’è nulla da fare: i giudici non credono all’alibi di Valpreda e lo rinviano a giudizio per concorso in strage. Il ballerino anarchico resterà in carcere fino al 1972 quando il Parlamento promulgherà una legge – la numero 773 del 19 dicembre 1972 nota come “legge Valpreda” – che accorcerà i termini della custodia cautelare anche per i reati gravissimi, compreso quello di strage. Nel 1979, la Corte d’Assise di Catanzaro – sede in cui verrà celebrato il primo processo per la strage di piazza Fontana – assolverà Valpreda per insufficienza di prove: per i giudici, zia Rachele e le altre donne della famiglia hanno raccontato la verità. L’alibi di Valpreda per il giorno della strage regge tanto che l’uomo verrà assolto anche in appello. Nel 1986, il Tribunale di Bari – nel nuovo processo di appello richiesto dalla Cassazione – assolverà Valpreda sempre per insufficienza di prove nonostante per lui fosse stata richiesta l’assoluzione con formula piena. Nel 1987, infine, la Corte di Cassazione, cancellando tutte le condanne e dando, così, un “colpo di spugna” sulla vicenda di piazza Fontana, metterà fine all’odissea giudiziaria di Pietro Valpreda durata ben diciotto anni.
Pietro Valpreda (fotografia reperita su Internet)
Cornelio Rolandi a bordo del suo taxi (fotografia reperita su Internet)
Secondo da sinistra, ecco Pietro Valpreda tra i poliziotti durante il confronto del 16 dicembre 1969 (fotografia reperita su Internet)
Rachele Torri, la prozia di Pietro Valpreda (fotografia reperita su Internet)
Nessun commento:
Posta un commento
Grazie per aver lasciato un commento!