10 dicembre 2023

LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA (puntata n° 12)

La sera stessa di quel 16 giugno 1969, una volante della Questura va a prelevare Albero Muraro al numero 15 di piazza dell’Insurrezione 26 aprile: per Pasquale Juliano, il racconto del portiere sarà di fondamentale importanza per chiarire l’identità della persona che era entrata all’interno dello stabile, in quale appartamento si fosse diretta, per quanto tempo vi si fosse trattenuta e se avesse con sé un pacchetto in entrata o in uscita.
Il signor Muraro, senza incertezza alcuna, fa mettere a verbale che quella sera, verso le ore 19:00, un ragazzo, dell’apparente età di circa 25 anni con indosso una camicia a fiori, era entrato nell’androne del condominio presso cui prestava servizio come portiere. Il giovane si era diretto senza indugio verso l’ascensore ed era salito ai piani superiori. Dopo circa tre quarti d’ora, il giovane era uscito dal palazzo e, non appena aveva messo piede nella piazza antistante, era stato fermato da degli uomini che si erano poi rivelati essere poliziotti in borghese. E quando gli investigatori chiedono a Muraro se si fosse trattenuto a chiacchierare con Patrese una volta che questi era uscito dall’ascensore, l’ex carabiniere nega la circostanza nella maniera più assoluta.
Andato via il signor Muraro, Il commissario Juliano tira finalmente un sospiro di sollievo: la deposizione del portiere del palazzo di Fachini coincide perfettamente coi fatti che lui e i suoi avevano vissuto in prima persona proprio quella sera, Senza contare che il signor Muraro, oltre ad aver prestato servizio nell’Arma – questo rappresentava di per sé una totale garanzia riguardo la veridicità delle sue dichiarazioni – e non aver nessun interesse a mentire, non era nemmeno a conoscenza delle indagini della Polizia tanto da poterle sviare in alcun modo.
Juliano, stanco morto, decide di tornarsene a casa: la giornata era stata lunghissima, anzi infinita. Non sarebbe successo nulla fino all’indomani quando, da lì alle prime luci dell’alba, sarebbero partite tutte le altre perquisizioni che il giudice Fais aveva firmato qualche giorno prima. Il commissario Juliano non vi avrebbe preso parte personalmente, ma era sicuro che questa volta la Polizia avrebbe trovato armi ed esplosivo in grosse quantità. Ma mentre sta per uscire dall’ufficio, Noventa lo ferma.
Pasquale Juliano (ex questore): «Stavo per tornarmene finalmente a casa quando incrociai il maresciallo Noventa. Mi chiese cosa sarebbe successo se Pezzato e Tommasoni ci avessero fatto fare un altro buco nell’acqua… Di sicuro tutti quanti avrebbero pensato che quei due ci raccontavano balle solo per fare soldi e che noi avevamo abboccato all’amo come dei sempliciotti. Ma siccome, col denaro racimolato fino a quel momento, né Pezzato e né Tommasoni sarebbero diventati milionari, confidai al mio maresciallo che le ultime 500 lire gliele avevo date di tasca mia affinché si comprassero almeno un pacchetto di sigarette ciascuno.»
Dopo aver trascorso una nottata a rigirarsi nel letto col pensiero rivolto alle perquisizioni dell’indomani mattina, il Capo della Squadra Mobile giunge in ufficio di buon’ora. Ma neanche a farlo apposta, Noventa era stato profetico: nonostante la Polizia avesse effettuato le perquisizioni allo stesso momento e tutte in parallelo affinché nessuno dei perquisiti avesse il tempo materiale di avvisare i rispettivi “camerati”, i risultati ottenuti si erano rivelati estremamente scarsi. Nessuna santabarbara né, tantomeno, armi a palate ed esplosivo a quintali. Solo poche cianfrusaglie e qualche arma da fuoco detenuta illegalmente.
Pasquale Juliano, una volta rientrati i suoi uomini, stenta a credere alle proprie orecchie.
A casa di Pier Giorgio Pavanetto, la Polizia trova suo fratello Maurizio: vengono rinvenuti alcuni fucili da caccia inutilizzabili e mai denunciati, una pistola lanciarazzi a doppia canna, qualche cartuccia per fucile ed una maschera antigas. A casa di Gustavo Bocchini Padiglione saltano fuori una pistola ad aria compressa completa di pallini, una pistola Beretta calibro 22 con due scovoli per pulirne la canna, due scatole da cinquanta proiettili cadauna ed un coltello a serramanico. Nella sua autovettura, invece, la Polizia recupera un tirapugni ed una pistola calibro 6,35 con cinque proiettili. Nulla, invece, viene rinvenuto nelle abitazioni di Massimiliano Fachini, Giuseppe Brancato e Francesco Petraroli.
Dopo un primo attimo di sconforto e pur messo dinanzi all’ennesimo fiasco, il Capo della Squadra Mobile in cuor suo sa di aver imboccato la strada giusta. E sa altrettanto bene che sia il gruppo di Fachini che quello di Freda, Ventura e Pozzan, hanno a che fare con gli attentati dinamitardi di quella prima metà del 1969. Odina così ai suoi uomini di convocare tutti i destinatari dei provvedimenti di perquisizione e di farlo il prima possibile: l’idea del commissario Juliano è quella di far crollare qualcuno dei coinvolti con un interrogatorio faccia a faccia. Se uno solo tra Fachini, Petraroli, Pavanetto, Brancato e Bocchini Padiglione avesse fatto delle ammissioni, il resto della storia sarebbe arrivato da solo.
Il primo a trovarsi dinanzi al Capo della Mobile è Maurizio Pavanetto: il giovane dichiara che le armi rinvenutegli in casa dalla Polizia erano state trovate da lui e da suo fratello un po’ nei dintorni della Certosa di Vigodarzere e un po’ in alcune case diroccate che si trovavano nei terreni amministrati dal padre. Maurizio, vedendo quelle vecchie armi, si era messo in testa di farsi una collezione privata e, pur sapendo che occorreva la specifica licenza rilasciata dalla Questura, si giustifica dicendo che i fucili erano talmente malconci e rovinati che non sarebbero mai stati in grado di sparare. Durante la guerra, quei terreni erano stati requisiti dai tedeschi per farne un arsenale e, siccome anche la maschera antigas era stata ritrovata negli stessi posti, secondo Pavanetto non si poteva assolutamente parlare di armi occultate perché i luoghi dei rinvenimenti erano accessibili a chiunque. E quando il Pasquale Juliano chiede a Maurizio Pavanetto se conoscesse gli altri soggetti coinvolti nelle perquisizioni, l’uomo ammette di conoscere personalmente Giuseppe Brancato perché era stato suo compagno di scuola fino all’anno precedente. Degli altri, invece, Pavanetto afferma di conoscerli di vista e limitatamente alla sfera lavorativa: la famiglia Pavanetto commerciava nel settore enologico ed il Movimento Sociale di Padova figurava tra i clienti dell’azienda a conduzione famigliare. Maurizio stesso, in più di un’occasione, si era recato alla sede dell’MSI recapitando lì il vino che gli era stato ordinato.
Dopo Pavanetto è il turno di Giuseppe Brancato: il ragazzo racconta a Juliano di essere stato compagno di scuola di Maurizio Pavanetto, di frequentare attivamente il FUAN pur non essendone tesserato, di aver partecipato alla manifestazione indetta dall’MSI in ricordo di Benito Mussolini e, infine, di essersi trovato in mezzo ai tafferugli scoppiati il 16 aprile davanti al Comune di Padova tra esponenti di Lotta Continua, membri delle rappresentanze sindacali e militanti di destra. Il commissario, quindi, chiede a Brancato se conoscesse Massimiliano Fachini e in quali rapporti si trovasse con lui. Il ventenne risponde di essere stato una volta sola a casa di Fachini per parlare del matrimonio di quest’ultimo che stava per approssimarsi. Per il resto, i rapporti tra i due si limitavano alla sfera politica ed universitaria per via dei consigli che Fachini stava dando a Brancato quando aveva appreso che questi si era iscritto alla facoltà di scienze statistiche. Lavorativamente parlando, alla data dell’interrogatorio Brancato risultava essere disoccupato dopo aver aiutato suo padre nel bar di famiglia di via Tommaseo e, per circa venti giorni, essere stato rappresentante della ditta Tipo Film di Milano.
Anche con Francesco Petraroli, il commissario Juliano non giunge a nulla di concreto: l’uomo racconta al Capo della Squadra Mobile di essersi iscritto all’MSI nel 1968 e di aver conosciuto i compagni di partito nel momento in cui era diventato membro dell’organizzazione politica. Aggiunge di aver partecipato direttamente a volantinaggi, manifestazioni indette dall’MSI e alle poche campagne elettorali che c’erano state. Anche lui, il 16 aprile 1969, era stato coinvolto nella manifestazione violenta dinanzi al municipio ma che non vi aveva partecipato poiché, nel momento in cui erano cominciati gli scontri, aveva appena preso la parola nella sala consiliare del comune. Sentiti i rumori, Petraroli era sceso in strada ma era stato caricato da gente di sinistra armata di bastoni e spranghe. Fuggito verso la sede del Movimento Sociale, era riuscito a rimanere tutto intero e a tornare a casa. Alla specifica domanda del commissario Juliano su Pezzato e Patrese, Petraroli si limita a dire di conoscerli in maniera superficiale – soprattutto Pezzato che non gli piaceva per via dei reati comuni nei quali era risultato coinvolto – e di non sapere quali altri rapporti esistessero tra i due all’infuori di quelli politici.
Gustavo Bocchini Padiglione è il migliore del gruppo perché ha la riposta pronta ad ogni domanda che il commissario Juliano gli rivolge: la Beretta calibro 22 è stata acquistata con regolare porto d’armi rilasciatogli proprio dalla Questura di Padova; è sufficiente effettuare un controllo in archivio per verificare che sta dicendo la verità. La pistola ad aria compressa, invece, gli è stata concessa in prestito da un amico affinché eliminasse un piccolo topolino che Bocchini Padiglione aveva allevato insieme ad altri due; tre galli nel pollaio erano troppi ed uno dei tre topolini doveva morire. Per la pistola calibro 6,35 ecco come stavano le cose: apparteneva al padre che era stato vice prefetto di Padova e che era defunto quattrodici anni prima, nel 1955. L’arma risaliva alla Seconda Guerra Mondiale quando il padre prestava servizio nell’aeronautica e, da sempre, era rimasta in casa: all’inizio nel comodino della camera da letto e poi, alla nascita dei figli, dentro un armadio chiuso a chiave. Per caso, all’inizio del 1960, la pistola viene ritrovata e la madre di Gustavo la ripone nel ripostiglio a mo’ di cimelio. Nessuno, in famiglia, si era poi premurato di denunciare l’arma e tutti se ne erano dimenticati fino alla perquisizione di quella mattina da parte della Polizia. Per quanto concerne, infine, il coltello a serramanico e il tirapugni, Bocchini Padiglione afferma di non sapere che il primo andasse denunciato e come il secondo fosse finto nella sua autovettura. Nei giorni seguenti, ascoltata dalla Polizia, la signora Gabriella Volpato vedova Bocchini Padiglione avallerà le dichiarazioni rese dal figlio in sede di interrogatorio. In merito alla politica, anche Bocchini Padiglione aveva avuto gli stessi trascorsi degli altri interrogati: partecipazioni nel FUAN, nell’MSI, volantinaggi, manifestazioni e cose del genere. E nulla in più di conoscenze superficiali degli altri membri della sezione del Movimento Sociale. Anche su Fachini, il racconto del giovane Gustavo è molto sintetico perché, al di là di conoscerlo in qualità di consigliere provinciale del FUAN, lo aveva accompagnato a casa con la macchina una sera dell’inverno passato. Soprattutto, però, Bocchini Padiglione nega con forza di aver compiuto alcuna azione illegale e, men che meno, di aver mai toccato esplosivi in vita sua.
Il “piatto forte”, Pasquale Juliano se lo riserva per ultimo: Massimiliano Fachini.
Pasquale Juliano (ex questore): «Quando fu il momento di interrogare Massimiliano Fachini, questi aveva già nominato un legale di fiducia, tale avvocato Giangaleazzo Brancaleon. Gli domandai delle armi e dell’esplosivo ritrovati nelle mani di Giancarlo Patrese e Fachini ripose di non saperne nulla così come non sapeva che intenzioni avesse il giovane che avevamo fermato in piazza dell’Insurrezione. Conosceva Patrese così come conosceva tutti gli altri perquisiti perché Fachini coordinava il FUAN padovano ma, da qui ad essere coinvolto in fatti delittuosi di qualsiasi natura, ce ne correva… In ogni caso, Fachini negò sia di aver consegnato il pacchetto a Patrese sia di averlo visto nella giornata del 16 giugno perché alle 17:10 era uscito per recarsi nel suo ufficio ed era rientrato a casa alle 19:00 passate per restarci fino al giorno dopo.»
Anche sulla presenza del manifesto del FUAN all’interno del pacco ritrovato nelle mani di Patrese, Massimiliano Fachini non sa fornire una risposta: una risma di quei manifesti – risalenti addirittura a fine 1967 – era stata rubata, dall’università, insieme a dell’altro materiale da cancelleria qualche tempo prima e, pertanto, chiunque avrebbe potuto utilizzare un volantino per avvolgerci dentro la pistola e l’esplosivo che Giancarlo Patrese aveva con sé.
Pasquale Juliano è affranto: tutto il lavoro profuso in quei giorni non era servito a nulla. Nonostante vi fossero state delle denunce – una per Patrese, già detenuto in carcere, per porto e possesso abusivo di armi ed esplosivo; altre tre, per detenzione abusiva di armi, emesse nei confronti di Gustavo Bocchini Padiglione, sua madre e Maurizio Pavanetto – nessuna delle persone perquisite aveva ammesso alcunché. Tutti parevano essere dei santi del paradiso scesi sulla terra. Sì, certo: ognuno di loro aveva confessato di avere simpatie per gli ambienti di destra ma, a parte questo, nessuno che fosse un “bombarolo” e che avesse mai commesso reati gravi. In sintesi, erano tutti dei bravissimi ragazzi. Magari un po’ avventati – questo sì – ma non certo delinquenti di professione.
La speranza di Juliano di risolvere “l’affare Patrese” va a farsi benedire: l’uomo, seppur detenuto, continua a dare per vera la sua versione dei fatti mentre i confidenti del commissario, in coro, replicano che è Patrese l’unica persona che sta mentendo.
Nei giorni seguenti non succede nulla di importante: Juliano torna ai reati comuni propri della Squadra Mobile e, di tanto in tanto, Pezzato e Tommasoni si fanno vivi per chiedere soldi al funzionario. Che, da uomo buono qual è, spesso glieli dà di tasca propria senza utilizzare quelli promessi dal questore Manganella.
La notte tra il 30 giugno e il 1° luglio 1969, però, accade qualcosa.
Mentre si accinge a rientrare a casa, Nicolò Pezzato viene avvicinato da Giuseppe Brancato. Il confidente del commissario Juliano non si aspetta di vedere l’altro tanto che, quando se lo ritrova davanti all’improvviso, gli viene un mezzo colpo. Brancato se ne accorge e, tra il serio e il faceto, comincia ad incalzare il povero Pezzato facendo strani discorsi. Sulle prime Pezzato non capisce dove Brancato voglia andare a parare, visto che accenna a diverbi tra amici causati da donne o da debiti non onorati. Ma nel momento preciso in cui Giuseppe Brancato, nella maniera più tranquilla di questo mondo, fa l’esplicito riferimento agli amici che venivano traditi da certi doppiogiochisti vendutisi “agli sbirri”, Nicolò Pezzato capisce che la sua attività di confidente è stata scoperta e che, molto presto, sarebbe stato investito da una valanga di guai da cui non aveva la minima idea su come avrebbe fatto ad uscirne.

Il logo del FUAN - Fronte Universitario d'Azione Nazionale (fotografia reperita su Internet)

Massimiliano Fachini negli anni Sessanta (fotografia reperita su Internet)

01 gennaio 2023

LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA (puntata n° 11)

A casa di Renato Nalli i poliziotti non trovano nulla di rilevante: Juliano è infuriato perché è la seconda volta che fa un buco nell’acqua, dopo la scuola di Thiene. Infastidito dalla situazione ed una volta tornato in Questura, il commissario medita sul passo successivo da compiere, ovvero la perquisizione di un nuovo deposito di armi situato nei pressi della Certosa di Vigodarzere: secondo Pezzato, infatti, la nuova “santabarbara” sarebbe gestita da uno dei fratelli Pavanetto che è pure grande amico di Giuseppe Brancato.
Pezzato, tuttavia, non sa fornire altre informazioni precise sull’ubicazione esatta del deposito e Juliano, quindi, si ritrova costretto a mettere sotto controllo, ventiquattr’ore su ventiquattro, il vecchio monastero in disuso del piccolo paese in provincia di Padova.
I turni si susseguono a ciclo continuo e tutta la Squadra Mobile – Juliano compreso – è coinvolta negli appostamenti. Una notte, di turno, c’è proprio il commissario Juliano.
Pasquale Juliano (ex questore): «Ero di turno nei dintorni della Certosa di Vigodarzere, insieme ai soliti Pezzato e Tommasoni, divenuti ormai ospiti fissi in Questura. Ci eravamo portati sul luogo con la mia auto privata così da passare, per quanto possibile, inosservati. Rimase tutto tranquillo fino alle 2:00 del mattino quando, improvvisamente, apparve una macchina. Era una FIAT 850 e pareva essere quella di Giuseppe Brancato. Chiesi ai due che erano con me se riconoscessero l’automobile come quella appartenente a Brancato ma entrambi, un po’ per il buio e un po’ per la notevole distanza che ci separava dalla vettura che pian piano si stava avvicinando, non furono in grado di esserne certi. Tantomeno si riusciva a scorgere la targa, i cui numeri erano pressoché invisibili quasi fossero stati alterati di proposito o fossero state manomesse le lampadine che avrebbero dovuto illuminarli. Con Pezzato e Tommasoni ipotizzammo che l’850 arrivasse dalla Certosa e che fosse diretta verso Padova. L’unica cosa che eravamo riusciti a scorgere era la presenza di tre persone a bordo, cosa piuttosto insolita a quell’ora di notte. Decisi di seguire la FIAT: alla peggio si sarebbe rivelato un giro inutile ed avremmo perso un po’ di tempo. Ma tanto valeva provare. Cercai di mantenermi distante così da non creare sospetti negli occupanti dell’850: di altre vetture, in giro, non ce n’erano e sarebbe bastato un attimo per capire che stavamo seguendo proprio loro. Non feci in tempo a pensarlo: la FIAT iniziò ad accelerare compiendo giri sempre più lunghi, effettuando svolte improvvise e tornando indietro. Sembrava di stare in un film poliziesco in cui i delinquenti cercano di seminare la Polizia. Con un po’ di fortuna riuscii a star loro dietro finché giungemmo in via Beato Pellegrino, a Padova, nei pressi della casa dove abitava Giuseppe Brancato.»
Ormai sicuri di essere stati scoperti, il commissario Juliano e gli altri due vengono salvati da una trovata di Tommasoni che, abbassato il finestrino dell’auto del poliziotto, urla «sporchi fascisti!» al terzetto capitanato da Brancato fingendo, in questo modo, di essere un gruppo di comunisti a caccia di neofascisti da prendere a botte.
Il 16 giugno, mentre Juliano pensa a quanto vorrebbe chiudere l’indagine sugli attentati dinamitardi affidatagli dal questore Manganella per poter tornare ai suoi casi abituali, ecco che accade qualcosa: alle 8:30 del mattino, Juliano riceve una telefonata da parte di Nicolò Pezzato.
Pasquale Juliano (ex questore): «Fui chiamato dal centralino da cui mi dissero che c’era Pezzato in linea. Dissi loro di passarmelo e Pezzato esordì con un “commissario, ci siamo!”. Gli chiesi di spiegarmi e lui rispose che l’esplosivo che aspettavano era finalmente arrivato. Mi disse che si trovava sparpagliato per i depositi di cui mi avevano già detto lui e Tommasoni ma che, una parte, si trovava a casa di Massimiliano Fachini.»
Massimiliano Fachini, classe 1942, nasce a Tirana, in Albania. Figlio dell’ex questore di Verona durante gli anni della Repubblica di Salò, Fachini trascorre infanzia e giovinezza a Padova. Intrapresi gli studi universitari, inizia ad avvicinarsi alla politica della sua città. Diviene consigliere provinciale del FUAN – il Fronte Universitario d’Azione Nazionale – e, negli anni successivi, consigliere comunale dapprima nelle fila dell’MSI (fino al 1973) e poi come indipendente (fino al 1975 quando termina il suo mandato). Dopo i coinvolgimenti in diversi attentati dinamitardi – come quello al rettore Opocher, all’ex questore di Padova Allitto Bonanno, alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana e alla stazione di Bologna – per i quali venne prosciolto, viene arrestato per i reati di banda armata ed associazione sovversiva. Secondo le testimonianze di parecchi imputati nei diversi processi per gli attentati dinamitardi che si susseguirono a partire dal 1969, Massimiliano Fachini non solo era un esponente di spicco di Ordine Nuovo in Veneto, ma era pure legato a doppio filo col SID – il Servizio Informazioni della Difesa – che lo avrebbe protetto ed aiutato a sottrarsi agli ordini di cattura che lo riguardavano. Scarcerato nel 1983, inizia a lavorare come agente di commercio. Morirà il 3 febbraio 2000 in un maxi-tamponamento sull’autostrada A4 Torino-Venezia nei pressi di Grisignano di Zocco, in provincia di Vicenza.
Il commissario Juliano ricorda bene il nome di Fachini poiché faceva parte del gruppo che comprendeva anche Domenico Obriedan, Gustavo Bocchini Padiglione, Francesco Petraroli e Giuseppe Brancato. Da quando aveva preso in mano le indagini sugli attentati dinamitardi di quella prima metà del 1969, Juliano era incappato moltissime volte nel nome di Fachini. E proprio per questa ragione, decide di dar credito alle parole di Pezzato e lo invita a proseguire col suo racconto.
Pasquale Juliano (ex questore): «Chiesi a Pezzato se fosse sicuro di quel che stesse dicendo. Lui assentì ed io gli chiesi dove abitasse questo Fachini e come facesse, Pezzato, ad essere sicuro della presenza dell’esplosivo in casa del consigliere. Pezzato rivelò di aver visto l’esplosivo coi propri occhi ed aggiunse che il materiale non si trovava direttamente in casa di Fachini bensì in una soffitta di sua proprietà all’interno dello stesso stabile al numero 15 di piazza dell’Insurrezione 26 aprile.»
Piazza dell’Insurrezione 26 aprile si trova a due passi dal centro di Padova e, al numero 15, si trova il palazzo dove risiede Massimiliano Fachini: si tratta di quel palazzo silenzioso e signorile dove, poco meno di tre mesi dopo, Alberto Muraro morirà cadendo “accidentalmente” nella tromba delle scale. Ma Pasquale Juliano, pur addentrandosi sempre più profondamente all’interno della realtà neofascista di Padova, ancora non può cogliere questa strana coincidenza e tantomeno immaginare cosa capiterà da lì a pochissime settimane.
Pasquale Juliano (ex questore): «Dopo che mi ebbe rivelato il luogo in cui Massimiliano Fachini avrebbe detenuto l’esplosivo, Pezzato, per il timore che i sospetti del gruppo si concentrassero su di lui, mi chiese espressamente di non intervenire né a casa del consigliere, né alla Certosa di Vigodarzere e né a Thiene dove abitava Petracca. Io provai a ribattere perché temevo che l’esplosivo potesse essere usato prima che lo sequestrassimo, ma Pezzato mi rassicurò dicendomi che le bombe sarebbero servite per un fatto eclatante e che, per il momento, nessuno avrebbe toccato nulla. Ci lasciammo con la promessa che Pezzato mi avrebbe avvertito prima che l’esplosivo potesse essere utilizzato in qualche altro attentato.»
Ma quella mattina, a Juliano, non giunge solo la telefonata di Nicolò Pezzato: ne arriva un’altra – questa volta anonima – durante la quale il misterioso interlocutore invita la Polizia a perquisire l’abitazione di Fachini perché ci sarebbero state interessantissime “scoperte fragorose” da fare. Il Capo della Squadra Mobile, da fine investigatore qual è, comincia così a riflettere su quanto spesso, negli ultimi giorni, sia inciampato nel nome di Fachini: se è vero che, per la Questura di Padova – e nella fattispecie per l’Ufficio Politico – il consigliere provinciale del FUAN è «un elemento di indubbie capacità organizzative e portato per il suo fanatismo ideologico anche a pericolose intemperanze di estremismo politico», per Juliano, che ne conosce la storia per sommi capi, non può essere una semplice coincidenza che Fachini stia diventando un punto nevralgico delle sue indagini.
Senza indugio, si alza dalla sedia e corre nell’ufficio del questore Manganella. Arrivato pure il commissario Molino, i tre decidono sul da farsi. Vengono così richiesti, al procuratore di Padova Aldo Fais, i mandati di perquisizione per le abitazioni di Massimiliano Fachini e di tutti i suoi sodali: Giuseppe Brancato, Francesco Petraroli, Gustavo Bocchini Padiglione e Pier Giorgio Pavanetto. Alla Procura di Vicenza, invece, viene chiesto il mandato per l’abitazione di Thiene di Fernando Petracca. Nell’ufficio del Questore viene definita la strategia che si spera possa portare agli arresti che chiuderanno le indagini: squadre miste, composte sia da membri della Squadra Mobile sia da quelli dell’Ufficio Politico, effettueranno gli appostamenti presso i presunti depositi di armi e le perquisizioni presso le abitazioni degli indagati.
In piazza dell’Insurrezione, la Polizia si nasconde all’interno della pizzeria-birreria Italia Pilsner: oltre a Pasquale Juliano, ci sono il commissario Giosuè Salomone e il maresciallo Noventa, l’agente Giordano Barozzi – in forza alla Squadra Mobile – e l’agente Aldo Mariuzza, in forza all’Ufficio Politico. Le vetrate della pizzeria sono il luogo perfetto per poter sorvegliare il portone del palazzo in cui risiede Fachini: non solo si è in grado di vedere chi entri o chi esca, ma pure la direzione da cui si sta provenendo o verso cui si stia andando.
Intorno alle 11:00 circa del mattino, Nicolò Pezzato fa la sua apparizione all’interno del locale. Senza proferire parola, Pezzato di dirige immediatamente verso la toilette, subito seguito dal commissario Juliano. La discussione che hanno è brevissima e, in quella sede, il confidente si limita a confermare al poliziotto che l’unico posto che vale la pena sorvegliare è quello in cui si trovano esattamente in quel momento: il numero 15 di piazza dell’Insurrezione 26 aprile. Andato via Pezzato, Juliano confida al commissario Salomone ciò che gli era stato riferito nel bagno della pizzeria.
Pasquale Juliano (ex questore): «Nel breve incontro avuto con Pezzato nella toilette della pizzeria, il confidente mi disse che l’unico luogo che valesse la pena sorvegliare era il palazzo dove abitava Fachini. Appena Pezzato se ne fu andato, mi consigliai col mio pari grado Salomone il quale, dopo qualche istante di riflessione, convenne sul fatto che, se davvero Pezzato stava dicendo la verità, era inutile tener d’occhio tutti quei posti fra Padova e Vicenza. A maggior ragione se pure dalle altre parti non stava succedendo nulla così come stava capitando a noi. Decisi di seguire il consiglio del mio commissario e insieme a lui rientrai in Questura, non prima di aver raccomandato ai miei uomini che non dovevano assolutamente muoversi da lì.»
Alle 19:00 di quello stesso giorno, però, ecco che accade qualcosa.
Un giovane, che sembra provenire dai portici di via dei Borromeo, si infila nel portone al numero 15 di piazza dell’insurrezione 26 aprile. L’agente Mariuzza lo riconosce: si tratta di Giancarlo Patrese, persona già nota alla Questura per essere un attivista di spicco dell’MSI. Patrese, impiegato postale, ha 31 anni e vive a Padova con sua moglie, Bruna Rampazzo. I poliziotti capiscono subito che non si tratta di una coincidenza fortuita: se Giancarlo Patrese è entrato in quel palazzo, di sicuro deve incontrare Massimiliano Fachini.
Il maresciallo Noventa esce dalla pizzeria e va in piazza. Fingendo di essere interessato alle mercanzie di due venditori ambulanti, si avvicina al palazzo nel quale è entrato Patrese. Anche gli altri due poliziotti fanno altrettanto e si mescolano alla gente che cammina in piazza, tenendosi, però, a distanza dal collega più alto in grado senza mai, tuttavia, perderlo d’occhio.
Trascorsi circa quarantacinque minuti, gli agenti della Questura vedono Patrese uscire dallo stabile di piazza dell’Insurrezione. Il maresciallo Noventa inizia a seguirlo mentre, dall’altro lato della piazza, gli vanno incontro Mariuzza e Barozzi. Quando gli sono addosso, Patrese si blocca perché capisce immediatamente che quelle persone sono poliziotti e che stanno cercando proprio lui.
Noventa, Barozzi e Mariuzza si qualificano e, mentre lo stanno facendo, si accorgono che Giancarlo Patrese, fra le mani, regge un pacchetto che non aveva con sé quando era entrato nel palazzo. Gli uomini della Questura chiedono all’uomo cosa ci fosse nel pacco ma lui, per tutta risposta, dice di non saperlo. Pochi minuti dopo, Giancarlo Patrese si ritrova in Questura per gli accertamenti di rito.
Pasquale Juliano (ex questore): «Giancarlo Patrese fu portato in Questura dove fu messo a sedere nella stanza degli interrogatori. Da quando i miei erano rientrati da piazza dell’Insurrezione, continuavo a chiedermi perché mai Pezzato non mi avesse mai parlato di questo Patrese. Eh sì che di nomi ne aveva fatti, accidentaccio! Ma non quello di Giancarlo Patrese!»
Mentre il commissario Juliano si arrovella sui motivi che potevano aver spinto Pezzato a tacergli il ruolo di Patrese all’interno del gruppo di Fachini, nella stanza degli interrogatori, il maresciallo Noventa comincia ad aprire il pacchetto che, sulle prime, pareva non contenere nulla di rilevante. Dopo aver rimosso la carta che fungeva da involucro esterno, il maresciallo della Noventa trova un manifesto del FUAN che avvolgeva altri due pacchetti. Il primo, simile ad un mattone, era chiaramente materiale esplosivo. L’altro, più pesante, contiene una pistola Beretta avente matricola non abrasa e corrispondente al numero 792056. Noventa chiede spiegazioni a Patrese che, dal canto suo, dichiara di non saperne nulla e di volere la presenza de suo avvocato, tale Lionello Luci che era pure il segretario della sezione padovana del Movimento Sociale Italiano.
Una volta relazionato in merito al primo interrogatorio di Patrese, Pasquale Juliano capisce che la svolta delle indagini che attendeva da settimane, è finalmente arrivata. A questo punto avrebbe voluto subito reinterrogare il giovane missino ma, non essendoci né Salomone né Molino – usciti per mangiare un boccone – deve per forza attendere. Nel frattempo, il solerte funzionario si dà da fare per organizzare tutto il lavoro che, da lì a qualche ora, sarebbe sfociato in controlli e perquisizioni a tappeto fra le provincie di Padova e Vicenza. Organizza con cura gli equipaggi delle auto mescolando i suoi uomini con quelli dell’Ufficio Politico, nomina i capisquadra e dà, ad ognuno, un luogo preciso da controllare. Alla fine Juliano, esauriti tutti i compiti che poteva svolgere e sollecitato dal maresciallo Noventa, acconsente ad andare a cena.
Quando il Capo della Squadra Mobile ed il suo maresciallo rientrano in Questura, Giancarlo Patrese è nuovamente sotto interrogatorio, incalzato dai commissari Molino e Salomone.
Pasquale Juliano (ex questore): «Quando io e Noventa rientrammo in ufficio, Salomone e Molino stavano interrogando Giancarlo Patrese. Entrai pure io nella stanza degli interrogatori per ascoltare cosa avesse da dire.»
Il copione del secondo interrogatorio è identico al primo: da una parte i poliziotti chiedono e richiedono a Patrese se sapesse cosa ci fosse all’interno del pacco; dall’altra Patrese risponde di non saperne nulla. E più i poliziotti lo incalzano, più Patrese nega. E mentre Juliano ascolta attentamente in religioso silenzio, ecco che Molino e Salomone chiedono al giovane fermato chi gli avesse consegnato materialmente il pacco contenente la pistola e l’esplosivo. Mai e poi mai i tre commissari si sarebbero aspettati la risposta che Patrese diede a quella domanda: a dargli quel pacco di cui lui assolutamente ignorava il contenuto, era stato nientemeno che Nicolò Pezzato quando si erano incontrati quel giorno.
Nella stanza degli interrogatori scende il gelo: Juliano, Molino e Salomone si guardano attoniti perché non hanno la minima idea di cosa diavolo stesse succedendo. Ma soprattutto, ad essere sconcertato e a rimanere senza fiato quasi avesse ricevuto un pugno nello stomaco, è proprio Pasquale Juliano che non capisce perché il suo confidente abbia consegnato dell’esplosivo a Patrese.
I tre poliziotti, senza proferire parola ma intendendosi solamente con lo sguardo, proseguono l’interrogatorio per capire come si siano svolti i fatti e cosa c’entrasse Pezzato in quella faccenda che iniziava a farsi davvero intricata. A tal proposito, quindi, Molino e Salomone ripartono con domande a raffica tese a ricostruire i movimenti di Giancarlo Patrese di quel 16 giugno 1969.
Secondo quanto Patrese riferisce alla Polizia, dalle 7:00 del mattino alle 14:00 o poco più, sarebbe stato in posta, a lavorare. Alle 11:00 circa, mentre stava lavorando, avrebbe ricevuto la visita di Nicolò Pezzato e di uno studente che conosceva di vista e di cui sapeva solo il cognome, tale Marinoni. I due volevano che Patrese consegnasse loro le chiavi della sezione dell’MSI che, in quei giorni, Patrese custodiva per poter esporre la bandiera a lutto in seguito alla morte di Arturo Michelini, l’allora segretario nazionale del Movimento Sociale Italiano. Non avendo con sé le chiavi e non potendo lasciare il lavoro perché l’orario non era ancora terminato, Patrese avrebbe invitato i due ad andare a casa sua e farsele consegnare da sua moglie. Trascorso poco tempo da quando i due avevano l’asciato l’ufficio postale, secondo il racconto di Patrese, sua moglie gli avrebbe telefonato in ufficio per farsi autorizzare a consegnar loro le chiavi. Verso 14:15, Patrese sarebbe tornato a casa per pranzo e, intorno le 15:30, si sarebbe recato alla sezione dell’MSI per verificare cosa Pezzato e Marinoni stessero facendo.
Gli investigatori pesano ogni parola che Patrese pronuncia, incerti se credergli o meno. Juliano, fra i tre, continua ad essere il più incredulo per via del nuovo ruolo che Pezzato sembrava avere nelle indagini. È ormai notte inoltrata e Giancarlo Patrese prosegue col suo racconto.
Giunto alla sede dell’MSI e non vedendo né Pezzato e né Marinoni, Patrese si sarebbe fermato ad attenderli. Ma avrebbe notato, nella cassetta delle lettere vicino all’ingresso, l’avviso di telegramma lasciato dal postino. E siccome gli uffici postali erano ancora aperti, Patrese avrebbe deciso di andare a ritirarlo. Nel mentre sarebbe arrivato Pezzato e, insieme, sarebbero andati a prendere il telegramma – annunciante i funerali dell’onorevole Michelini per il giorno 17 giugno 1969 – per poi consegnarlo all’avvocato Luci quale segretario provinciale. Una volta giunti allo studio dell’avvocato in via S. Fermo, Patrese e Pezzato, dopo avergli lasciato il telegramma, si sarebbero fatti dare la somma di 10.000 lire per organizzare il viaggio della delegazione padovana dell’MSI che, a Roma, avrebbe presenziato ai funerali dell’onorevole Michelini. Usciti dallo studio dell’avvocato, i due sarebbero tornati alla sede dell’MSI per sbrigare alcune faccende ed attendere di ritornare nuovamente, verso le 19:00, dall’avvocato Luci per farsi dare altri soldi poiché la somma ricevuta nel pomeriggio non sarebbe stata sufficiente per tutte e cinque le persone che avrebbero composto la delegazione. Venuti via dallo studio dell’avvocato ottenendo altre 3.000 lire, Pezzato avrebbe chiesto a Patrese di accompagnarlo in piazza dell’Insurrezione dove avrebbe dovuto ritirare delle cose.
Patrese, acconsentendo alla richiesta di Pezzato, si sarebbe così diretto verso piazza dell’Insurrezione, sapendo che, al numero 15, ci abitava Massimiliano Fachini. Percorso il tragitto in silenzio e giunti a destinazione, i due sarebbero entrati nel palazzo e preso l’ascensore per salire al terzo piano. Arrivati sul pianerottolo, Pezzato avrebbe chiesto a Patrese di aspettarlo lì e si sarebbe infilato dentro un appartamento la cui porta di ingresso era stata lasciata aperta. Trascorso qualche minuto, Pezzato ne sarebbe uscito con un pacco in mano.
Pasquale Juliano (ex questore): «Patrese raccontò che, quando Pezzato fu uscito dall’appartamento, gli avrebbe consegnato il pacco e gli avrebbe ordinato di scendere al pianterreno con l’ascensore. Aggiunse che l’avrebbe seguito a momenti prendendo le scale. Patrese avrebbe quindi preso l’ascensore e sarebbe sceso al pianterreno dove, in attesa di Pezzato, avrebbe chiacchierato col portinaio, il signor Alberto Muraro. Poi sarebbe uscito in strada e lì sarebbe stato fermato dalla Polizia. Ovviamente ripeté più volte che Pezzato non gli disse alcunché in merito al contenuto del pacco, e che mai e poi mai avrebbe avuto intenzione di organizzare qualsivoglia attentato dinamitardo servendosi dell’esplosivo col quale lo avevamo sorpreso.»
Pasquale Juliano, che aveva seguito l’interrogatorio di Giancarlo Patrese per filo e per segno senza dire una parola, esce dalla stanza degli interrogatori e chiama i poliziotti che erano stati in appostamento dinanzi alla casa di Fachini per tutta la giornata del 16 giugno.
Pasquale Juliano (ex questore): «Dopo aver ascoltato attentamente l’interrogatorio di Patrese ed appreso del coinvolgimento di Pezzato, chiamai Noventa, Barozzi e Mariuzza. Chiesi loro se, oltre a Patrese, avessero visto qualcun altro entrare con lui all’interno del palazzo dove abitava Fachini. Tutti e tre, sicuri del loro dire, risposero che in compagnia di Patrese non c’era stato nessuno, eccezion fatta per il portiere dello stabile. Ma soprattutto dissero che Pezzato non era mai entrato né uscito da quel palazzo. L’unico momento in cui lo avevano visto, era quando era venuto in pizzeria per parlarmi.»
Per capire cosa stesse effettivamente succedendo, a Juliano non rimane altro da fare che sentire direttamente Nicolò Pezzato. Insieme al maresciallo Noventa, sale sull’auto di servizio e si dirige presso l’abitazione del confidente, sita in via Perosi.
Pasquale Juliano (ex questore): «Arrivati sotto la casa di Pezzato, scesi dall’auto di servizio e suonai al citofono. Ci volle qualche minuto prima che rispondesse, vista l’ora tarda. Gli dissi di scendere immediatamente perché dovevo parlargli. Quando fu arrivato, lo caricammo in macchina perché dovevamo fargli parecchie domande. Lui, per tutto il tragitto, rimase in silenzio. Quando lo portammo nella stanza degli interrogatori, gli chiedemmo di riferirci cosa avesse fatto quel giorno.»
Nicolò Pezzato non si fa pregare e racconta agli investigatori tutti i suoi movimenti di quel 16 giugno 1969: verso mezzogiorno si trovava nei pressi della posta centrale di Padova dove sarebbe stato avvicinato da Marinoni e da Luigi Vettore Presilio, un altro militante di estrema destra. I due sarebbero andati da Pezzato per chiedergli se avesse visto Patrese in quanto dovevano farsi dare le chiavi della sede dell’MSI. Dopo pochi minuti, andatolo a chiamare, Patrese sarebbe uscito dall’ufficio ed avrebbe detto a Marinoni e a Vettore Presilio di andare a casa da sua moglie e farsi dare le chiavi da lei. I due si sarebbero quindi avviati verso la casa di Patrese mentre quest’ultimo avrebbe invitato Pezzato al bar – sito all’interno del medesimo stabile dove c’era anche l’ufficio postale – offrendogli un caffè. Pezzato avrebbe quindi lasciato Patrese e sarebbe rientrato presso la sua abitazione, dato che era ora di pranzo. Il confidente del commissario Juliano sarebbe poi uscito, verso le 15:40, per recarsi alla sede del Movimento Sociale. La porta era chiusa e lui sarebbe rimasto ad aspettare che qualcuno aprisse. Pochi minuti dopo sarebbe apparso Giancarlo Patrese che avrebbe aperto la sede e che gli avrebbe chiesto di accompagnarlo presso lo studio di Lionello Luci. Giunti dall’avvocato verso le 16:30, Patrese si sarebbe messo a discutere per farsi dare altri soldi per la trasferta romana della delegazione padovana dell’MSI. Tornati alla sede del Movimento Sociale, Pezzato sarebbe rimasto con Patrese fino alle 19:00 circa per poi accompagnarlo, nuovamente, dall’avvocato Luci dove Patrese doveva tornare per ritirare il resto del denaro promessogli dal segretario missino. Ma arrivati in via S. Fermo nei pressi dello studio dell’avvocato, Pezzato e Patrese si sarebbero definitivamente separati: Pezzato doveva assolutamente rientrare perché, quella sera stessa, avrebbe dovuto cenare fuori insieme a sua moglie, ai suoi amici Francesco Tommasoni, Giuliano Comunian e le rispettive fidanzate.
Pasquale Juliano (ex questore): «Pezzato riferì di essere rientrato a casa intorno alle 19:30 e lì cominciò a litigare con sua moglie. Quella sera dovevano andare per cena fuori Padova – a Murelle – e il mio confidente, secondo sua moglie, era rincasato troppo tardi. Fra il ritardo di Pezzato ed il tempo impiegato a litigare, il quintetto rinunciò all’uscita e rimase a casa di Pezzato. Verso le 22:00, i tre uomini si recarono al bar sotto casa di Pezzato per bere qualcosa e parlare ancora un po’ trattenendosi lì fin oltre la mezzanotte. Rientrato a casa, Pezzato andò a coricarsi e rimase a letto finché non arrivammo noi per portarlo in Questura.»
Incalzato dal commissario Juliano che vuole sapere se gli stia dicendo o meno la verità, Nicolò Pezzato conferma il suo racconto e nega apertamente sia di aver ricevuto il pacchetto da Fachini, sia di averlo consegnato a Giancarlo Patrese. Nega, altresì, di essere a conoscenza che, dentro il pacco, vi fossero dell’esplosivo e una pistola Beretta. E per confermare la sua buona fede, invita il commissario a perquisire casa sua perché è sicuro di non aver nulla da nascondere. Il Capo della Squadra Mobile non se lo fa ripetere due volte e, insieme al maresciallo Noventa, si porta presso l’abitazione di Pezzato ed effettua la perquisizione che, come il confidente aveva predetto, non dà alcun risultato: i poliziotti non trovano nulla di rilevante ed attinente alle indagini sui presunti depositi di armi ed esplosivo del gruppo di Massimiliano Fachini.
La situazione è abbastanza confusa: nemmeno il confronto diretto fra Pezzato e Patrese porta ad una versione univoca dei fatti: entrambi rimangono fermi sulle rispettive posizioni col primo che nega di essere andato in piazza dell’Insurrezione, e il secondo che afferma il contrario. A Juliano, quindi, per sbrogliare l’intricata matassa, non resta che convocare, quanto prima, il portiere dello stabile al numero 15 di piazza dell’Insurrezione 26 aprile: Alberto Muraro.

Massimiliano Fachini durante il processo per la strage della stazione di Bologna (fotografia reperita su Internet)