La
storia che sto per raccontarvi è la prima di una lunga serie di storie brutte,
di quelle storie che, solo a sentirle, fanno venire i brividi per tutto il corpo. Come
ha detto il giudice Guido Salvini, all'inizio del suo libro La
maledizione di piazza Fontana, «questa è una storia che non vorrebbe essere
scritta e che nessuno vorrebbe scrivere». È una storia fatta di morti, di
feriti e di attentatori. Ma è anche una storia fatta di depistaggi, dove alcuni
“pezzi” dello Stato hanno agito, nell’ombra, proprio contro quello Stato che
avrebbero dovuto servire e proteggere: questa è la storia della strage di
piazza Fontana.
La
nostra storia inizia il 12 dicembre 2020, di sabato. Il centro città è vestito
a festa nonostante l'annus horribils che stiamo vivendo a causa
dell'epidemia di Covid-19.
In
piazza Duomo, lo stile gotico e rigoroso della cattedrale sormontata dalla
“Madunìna” contrasta col rosso sfavillante del tecnologico albero targato
Coca-Cola mentre, poco più in là, nella galleria Vittorio Emanuele II, le
luminarie col logo del Comune di Milano sormontano l'albero di Swarovski i cui
cristalli, scintillando, regalano tutt’attorno un’atmosfera magica degna di una
favola per bambini. In via Monte Napoleone e in via della Spiga le griffe del
“quadrilatero della moda” attendono la gente facoltosa che può permettersi di
acquistare nei loro atelier mentre La Rinascente di piazza Duomo aspetta
l’arrivo della gente comune per dare il via allo shopping natalizio.
Ma
lasciamo la Milano di oggi in tempo di pandemia e facciamo un salto indietro di
cinquantun anni: è il 12 dicembre 1969. È venerdì e mancano tredici giorni a
Natale. La giornata è grigia, fredda e piovosa. Sono le 16:30 ed il centro di
Milano è affollato dalla gente che, com’è stato fino all’anno scorso, guarda le
vetrine dei negozi alla ricerca dei regali per i propri cari.
Al
cinema Rivoli danno Un uomo da marciapiede (con Dustin
Hoffman) e all’Excelsior Nell’anno del Signore (con Nino
Manfredi). Al Teatro alla Scala va in scena Il Barbiere di Siviglia di
Gioacchino Rossini.
Nei
bar Haiti e Barba si servono caffè in continuazione – 50 lire il costo di una
tazzina – mentre da Savini, pasticcini e torte addolciscono il palato degli
avventori infreddoliti da quella grigia giornata di dicembre su cui è già
calata la sera.
A
pochi passi da piazza Duomo c’è una piccola piazza che si chiama piazza
Fontana. Il suo nome deriva proprio dalla fontana che si trova nel centro della
grande aiuola e che è la prima costruita a Milano per opera dell’architetto
Giuseppe Piermarini.
In
piazza Fontana c’è una banca che si chiama Banca Nazionale dell’Agricoltura e
che ha sede in un edificio solido e squadrato di tre piani, dalla forma
pentagonale, situato di fronte alla Curia arcivescovile. La Banca Nazionale
dell’Agricoltura non è una banca qualsiasi: oltre alle normali operazioni
bancarie di routine, per una concessione governativa risalente agli anni Venti,
funge anche da mercato per le contrattazioni di allevatori, agricoltori e
produttori di mangime. È una banca molto grande: conta quasi trecento
dipendenti e proprio quel venerdì, giorno di contrattazioni, è affollata da
allevatori, agricoltori e fittavoli provenienti da quasi tutta la Lombardia.
Fortunato
Zinni (ex dipendente e funzionario della Banca Nazionale dell’Agricoltura):
«Quel pomeriggio la banca era piena di gente. L’atmosfera era di festa, anche
se la giornata era uggiosa e molto buia. Milano era addobbata ed illuminata a
giorno. Contrariamente a tutte le altre banche del centro che avrebbero chiuso
alle 16:30, noi avremmo continuato l’orario dello sportello fino alle 17:30
perché il venerdì era giorno di mercato. Nel salone della banca ci saranno
state circa duecento persone. Io stavo dietro allo sportello numero 15 che era quello
riservato alle contrattazioni ma, dovendo poi avallarle di persona, continuavo
a fare la spola tra il mio posto e la sala.»
Fortunato
Zinni, classe 1940, è originario di Roccascalegna, un paesino in provincia di
Chieti situato sull’Appennino abruzzese. Rimasto orfano di padre – morto nel
1941, sul confine albanese, durante la Seconda Guerra mondiale – a 5 anni viene
spedito in orfanotrofio dove resterà sino al conseguimento della maturità in
ragioneria. Inizia presto a collaborare con la locale redazione del
quotidiano Il Messaggero per poi passare a quella di Roma dove si
trasferirà. Interrotti gli studi universitari che nel frattempo aveva
intrapreso, Zinni emigra in Svizzera – a Lucerna – dove
dapprima farà il muratore, poi l’operaio in una vetreria e, infine, l’impiegato
in una ditta di import/export. Nel 1962 rientra in Italia e si stabilisce a Bresso,
nell’hinterland di Milano. Inizia a lavorare nella filiale monzese della Banca
Nazionale dell’Agricoltura per poi essere assegnato, nel 1963, alla sede
principale di piazza Fontana.
Impiegato
ormai esperto, Fortunato Zinni è “l’uomo delle contrattazioni”: all’epoca, in
una realtà molto diversa da quella di oggi, le transazioni tra acquirenti e
venditori si chiudevano con una stretta di mano su cui i mediatori apponevano
le proprie sancendo il buon esito della trattativa. Un altro metodo che i
mediatori e lo stesso Zinni utilizzavano, era quello di “spaccare”
letteralmente la stretta di mano tra gli attori col taglio della propria a mo’
di colpo di karate.
La
sala di cui parla Zinni è situata proprio al centro della banca: di forma
circolare e sormontata da due grandi vetrate a cupola – i dipendenti della
banca ed i clienti la chiamano “la rotonda” – ha, nel centro, un grande tavolo
ottagonale. Fatto di pesante legno di mogano e circondato da numerose sedie,
questo tavolo viene utilizzato dai clienti per compilare le distinte di
pagamento, gli assegni e discutere dei loro affari.
Tra
le persone che affollano la rotonda, c’è un signore che si chiama Giovanni
Arnoldi: ha 42 anni e viene da Magherno – in provincia di Pavia – dove il
signor Arnoldi possiede un cinema, il cinema Nuovo. Arnoldi lo apre nel 1952,
dopo essersi fatto liquidare la sua quota dell’azienda agricola di famiglia.
L’attività del cinema va molto bene nei primi anni ma poi, con l’avvento della
televisione in molte delle case del paesino della campagna pavese, gli affari
iniziano a peggiorare. Avendo una famiglia sulle spalle – sua moglie Costantina
ed i figli Carlo e Giuseppina – Arnoldi decide di tornare al suo vecchio lavoro
di agricoltore affiancandolo alla gestione del cinema. Affitta una stalla, dei
terreni ed inizia pure a vendere bestiame. Essendo molto bravo, Arnoldi diventa
presto anche mediatore ed è proprio in questa veste che, quel giorno, si trova
lì in piazza Fontana.
Carlo Arnoldi (figlio di Giovanni Arnoldi): «Quel giorno papà voleva rimanere a
casa. C’era parecchia nebbia e lui non stava bene. Avrebbe dovuto recarsi a
Milano ma, proprio perché stava male, aveva rinviato i suoi appuntamenti al
venerdì successivo. Verso le 15:00, però, ricevette la telefonata di un
agricoltore di Lodi che doveva comprare una cascina e che necessitava
urgentemente della sua presenza a Milano, in piazza Fontana. Papà, di
malavoglia, si vestì e, con la sua auto, si diresse verso il capoluogo.»
Pietro
Dendena ha 45 anni ed è di Lodi: anche lui fa il mediatore agricolo e quel
pomeriggio, con sua moglie, è stato in provincia di Cremona ai funerali di un
congiunto. Dovendo però correre a Milano per curare i suoi affari, affida la
moglie ad uno dei parenti presenti alle esequie e se ne va. Ha fretta il signor
Pietro: il giorno dopo sarà S. Lucia che, a Lodi, è quasi come fosse Natale e
lui, dopo aver sbrigato le mediazioni, avrebbe comprato i regali per i suoi
figli Francesca e Paolo. Parcheggia vicino al palazzo di giustizia e, dopo aver
consegnato le chiavi della sua vettura al parcheggiatore, si mette a correre in
direzione della Banca Nazionale dell’Agricoltura.
Tra
gli oltre duecento clienti che affollano il salone della banca, ci sono anche
Carlo Silva e Carlo Gaiani. Il primo ha 71 anni e vive in provincia di Lodi: ex
agente di commercio di una ditta di lubrificanti per macchine agricole ed ormai
in pensione, il signor Silva non ha perso il vizio di recarsi al mercato del
venerdì per incontrare gli amici ed i conoscenti che, in tanti anni di lavoro,
aveva collezionato. A casa lo aspettano la moglie e i due figli. Il secondo,
invece, ha 57 anni, abita a Milano ed è il proprietario di un podere che si
trova ai confini della città, vicino al Parco Forlanini. Quel giorno si trova
in banca per vendere del bestiame. È molto preoccupato, il signor Gaiani: gli
affari non vanno affatto bene perché il vicino aeroporto di Linate sta continuando
ad espandersi e teme che presto, oltre alle ultime quattordici mucche che gli
sono rimaste, dovrà vendere anche il terreno.
Poi
c’è anche un bambino che si chiama Enrico Pizzamiglio: ha 12 anni ed è in
compagnia della sorella quindicenne Patrizia. Patrizia ed Enrico sono in coda
ad uno degli sportelli perché i genitori, che lavorano nell’edicola che
gestiscono insieme, li hanno mandati in banca per pagare una cambiale e delle
bollette. Enrico non vede l’ora di uscire per andare a vedere i negozi e
comprare i regali di Natale ma, per farlo, dovrà per forza aspettare in banca,
insieme a sua sorella, che i genitori vadano a riprenderli dopo aver chiuso l’edicola
e finito di lavorare.
Infine
c’è un uomo: è uno come tanti, uno che nessuno nota e che fa di tutto per non
farsi notare. Dopo essere entrato in banca, va verso la rotonda e si dirige al
tavolo ottagonale. Le sedie sono tutte occupate dai clienti che stanno
compilando, scrivendo, chiacchierando tra di loro mentre mostrano, gli uni agli
altri, i regali che hanno acquistato per le loro famiglie. Non appena una delle
sedie si libera, l’uomo la occupa. Tra le mani regge una borsa di pelle nera,
molto bella ed elegante, con la fibbia di metallo: è una Mosbach-Gruber,
utilizzata soprattutto dai medici e dai giuristi.
L’uomo,
facendo finta di niente e cercando di avere un atteggiamento più naturale
possibile, poggia la borsa a terra e la spinge sotto al tavolo ottagonale.
Attende qualche minuto e poi, sempre senza farsi notare né dare nell’occhio, si
alza e se ne va. La borsa nera, invece, rimane sotto al tavolo, esattamente nel
punto in cui l’uomo l’ha posizionata.
È
proprio in quel momento che in banca entra, di corsa e tutto trafelato, il
signor Pietro Dendena. Uno degli agricoltori – suo amico – lo vede e gli cede
il suo posto al tavolo ottagonale. Mentre Dendena cerca il taccuino delle
mediazioni all’interno della giacca, avverte un odore strano. E difatti lo dice
all’amico che gli ha lasciato la sedia: «Sento un odore strano. Un odore di
bruciato.»
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