29 luglio 2022

LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA (puntata n° 10)

Dei nomi fatti da Tommasoni, il commissario Juliano conosce solo quello di Freda perché fa il procuratore legale; di Ventura e Pozzan non sa assolutamente nulla né, tantomeno, ne ha mai sentito parlare. Il commissario chiede quindi a Tommasoni come faccia a conoscere quelle tre persone e l’uomo – all’epoca procacciatore di clienti per conto di una compagnia di assicurazioni – risponde che le conosce perché, di quel gruppo, ne fa parte anche lui. Non solo: Tommasoni aggiunge che Freda, Ventura e Pozzan starebbero organizzando qualcosa di grosso ammettendo, però, di non sapere di cosa si tratti. Ciò nonostante, ben sapendo che avrebbe corso grossi rischi che non era pronto a prendersi, Tommasoni confessa, al Capo della Squadra Mobile, di voler lasciare al più presto il gruppo di Freda.
Ma Juliano, che non si fida completamente del nuovo confidente, si fa comunque dare il nome di una terza persona che, a mezzo interrogatorio, potesse avallare le dichiarazioni che Tommasoni gli ha appena reso: se vorrà essere assolutamente certo della veridicità della storia di Tommasoni, Juliano dovrà parlare con un ex membro dello stesso gruppo che è stato messo alla porta poiché considerato un mezzo pazzo. La persona cui Tommasoni si riferisce 
 di livello più basso rispetto a Freda, Pozzan e Ventiura  si chiama Giuseppe Roveroni e, oltre ad essere suo personale amico, è pure l’agente di zona della compagnia di assicurazioni per cui Tommasoni stesso lavora.
Pasquale Juliano (ex questore): «Tommasoni mi disse che avrei potuto confutare le sue dichiarazioni cercando questo tale Giuseppe Roveroni, suo amico e datore di lavoro. Io rimasi stupito da come Tommasoni non esitasse a “vendere” i suoi amici così facilmente e, quando gliene domandai il motivo, lui rispose che maneggiare bombe era roba assai più pericolosa che prendere a sprangate i comunisti. I “rossi”, li chiamava… Aggiunse che avrebbe avuto modo di raccontarmi molte cose anche su di un certo “Zio Otto” che lui conosceva bene.»
Il funzionario di Polizia annota tutti i nomi che Tommasoni pronuncia, ma capisce male “Zio Otto” e lo trasforma in “Ziotto”, un cognome abbastanza comune in Veneto. E mentre Juliano scrive, riflette su quanto le ultime confidenze – prima quelle di Pezzato e poi quelle di Tommasoni – siano gravi dal punto di vista delle possibili conseguenze per entrambi, ma anche su quanto la proverbiale esagerazione tipica dei veneti spesso ingigantisse fatti di per sé di piccola entità. Sembrava, a sentire i due confidenti, che la città di S. Antonio fosse diventata il covo prediletto di tutti i bombaroli d’Italia. E siccome Tommasoni aveva accennato alla ricompensa che sia lui che Pezzato si attendevano venisse loro corrisposta dalla Polizia (e che sicuramente avrebbe spinto anche Roveroni a parlare), Juliano comprende che nessun premio in denaro avrebbe potuto mettere al riparo i suoi confidenti dalla vendetta del gruppo neofascista casomai si fosse scoperto che avevano spifferato tutto agli inquirenti. Juliano non si tira indietro: deve proseguire le indagini per cui acconsente ad incontrare Roveroni di persona così da poter ascoltare ciò che quest’ultimo gli avrebbe confessato. Precisa, inoltre, ai due confidenti, che l’indagine sul gruppo di Freda, Pozzan e Ventura sarebbe partita una volta chiusa quella dell’attentato al rettore Opocher. E, naturalmente, solo dopo essersi confrontato col Questore ed ottenuto il nulla osta a procedere.
Trascorsi un paio di giorni, finalmente Giuseppe Roveroni si trova nell’ufficio di Juliano, faccia a faccia col Capo della Squadra Mobile.
Pasquale Juliano (ex questore): «Quando incontrai Giuseppe Roveroni in Questura, quest’ultimo confermò quanto riferitomi sia da Pezzato che da Tommasoni. Mi disse che il gruppo di Franco Freda era estremamente pericoloso perché si era messo a trafficare con l’esplosivo e lui, Roveroni, non voleva più saperne. Come accaduto per Tommasoni, anche a Roveroni era andato tutto bene finché ci si era limitati a picchiare i comunisti ma che adesso, con le bombe, il gioco si era fatto troppo pericoloso. Aggiunse che, addirittura, Freda e soci gli avevano consegnato un centinaio di grammi di arsenico affinché avvelenasse l’acquedotto comunale. Naturalmente mi sembrò un’affermazione un pochino campata in aria, dato che, quando gli chiesi di mostrarmi il veleno, Roveroni non fu in grado di farlo. Non era facile star dietro alle dichiarazioni di questi tre improvvisati confidenti perché, fino a quel momento, avevo ottenuto un mucchio di dichiarazioni che ancora non erano suffragate da fatti concreti ed oggettivi. In poche parole, ero fermo al punto di partenza.»
Il commissario Juliano prende nota delle richieste economiche del nuovo arrivato avvertendo lui e ribadendo agli altri due – che lo avevano accompagnato all’incontro col funzionario di Polizia – che non avrebbero visto un centesimo finché le loro dichiarazioni non avessero avuto un riscontro preciso. Juliano, in cuor suo, sa perfettamente che i tre si erano decisi a parlare esclusivamente per un tornaconto economico e non per scrupoli di coscienza. Proprio per questo, il commissario non poteva fidarsi prendendo per oro colato tutto ciò che dicevano. Senza contare che nessuno dei tre aveva la fedina penale pulita e che, seppur giovani, non erano santi da osannare come anime immacolate.
Pasquale Juliano decise, quindi, di procedere per gradi: prima si sarebbe occupato del gruppo di Fachini, Brancato, Petraroli, Obriedan e Bocchini Padiglione; poi si sarebbe concentrato su quello di Freda, Ventura e Pozzan. Non avrebbe mai immaginato che, ben presto, sarebbero emersi tanti e tali collegamenti fra le due cellule e che l’indagine, fin da subito, avrebbe dovuto essere portata avanti in parallelo su entrambi i gruppi.
Gli incontri tra i confidenti ed il commissario Juliano si susseguono: a tirarne le fila è il solito Pezzato che decide le date degli incontri, chi vi dovesse partecipare di volta in volta e il tema delle discussioni. Ovviamente c’è il consueto tira e molla fra i tre che chiedono soldi e Juliano che gliene concede a spizzichi e bocconi su indicazione del questore Manganella. E, piano piano, le informazioni cominciano ad arrivare. Juliano scopre così che, di depositi di armi, oltre a quello gestito dal personaggio di Thiene – che il commissario Molino identificherà in Fernando Petracca – ce ne sono molti atri sparsi per mezzo Veneto. Tommasoni racconta di una persona che, durante la Seconda Guerra Mondiale, aveva aderito alla Repubblica di Salò e che, a guerra finita, aveva sotterrato le armi in suo possesso per non incorrere nelle spiacevoli conseguenze che la resa post-bellica aveva portato nell’Italia sconfitta. Tommasoni confida a Juliano di essere ancora in contatto con questa persona la quale, se fosse stata accompagnata da qualcuno, avrebbe preso le armi e le avrebbe consegnate alla Polizia.
Avuto il via libera a procedere col rinvenimento delle armi da parte del questore Manganella, il 5 giugno 1969, il commissario Juliano carica Tommasoni e Pezzato e si dirige verso il cinema Vittoria, a Padova. Lì caricano un terzo uomo di cui, al poliziotto, viene soltanto svelato il soprannome – la “Maschera” – dovuto alla mansione che lo sconosciuto svolgeva nel cinematografo. Il quartetto si dirige verso Thiene per incontrare un altro individuo che, con grande sorpresa di Juliano, risulta essere il cognato di Nicolò Pezzato. Chiaramente Juliano non sapeva – né tantomeno Tommasoni l’aveva confermato – se il nascondiglio di Thiene fosse quello gestito da Petracca oppure no; tuttavia, ciò che premeva maggiormente al commissario, era trovare le armi e metterle al sicuro prima che potessero essere impiegate per compiere nuovi attentati.
Il cognato di Pezzato invita i nuovi arrivati a seguirlo. Dopo pochi minuti di cammino, giungono dinanzi ad una scuola. Juliano – che mai avrebbe immaginato che delle armi potessero essere state nascoste in una scuola – chiede al cognato di Pezzato se davvero le armi fossero lì. L’uomo risponde che erano nel cortile e che, per trovarle, avrebbero dovuto scavare.
Pasquale Juliano (ex questore): «Non potevo credere che le armi fossero state nascoste nel cortile della scuola. Ma bisognava procedere come Dio comandava: una cosa era scavare in aperta campagna dove, a seconda delle circostanze, si sarebbe anche potuto soprassedere; ben altra cosa era, invece, scavare nel cortile di una scuola pubblica senza avere uno straccio di mandato. Così dissi al gruppo che non avremmo fatto nulla finché non avessi avvertito sia la locale stazione dei Carabinieri sia la Questura di Vicenza ottenendo i permessi che servivano. Così ci rimettemmo in macchina e rientrammo a Padova.»
Il tragitto a ritroso verso il capoluogo veneto si svolge in assoluto silenzio finché, giunti nuovamente al cinema Vittoria per permettere alla Maschera di riprendere il suo lavoro, quest’ultima, chiudendo lo sportello dell’auto del commissario, rivela al poliziotto l’esistenza di altri svariati depositi di armi appartenute agli ex membri della Repubblica di Salò. Lasciati pure Pezzato e Tommasoni, il commissario Juliano, mentre guida fino a casa sua, tira un sospiro di sollievo: se non avesse dato l’altolà, quel gruppo sgangherato di confidenti avrebbe combinato un bel casino, scavando nel cortile della scuola senza il mandato del giudice. Per quella sera, la ricerca delle fantomatiche armi dei repubblichini sarebbe stata messa da parte a vantaggio della sua famiglia.
Come abbiamo detto più volte nel corso del racconto della storia di piazza Fontana, i colpi di scena non si fanno attendere. Ed ecco che, proprio la mattina seguente, in Questura, Pasquale Juliano riceve una telefonata.
Pasquale Juliano (ex questore): «Ero nel mio ufficio e il telefono squillò. Dal centralino mi dissero che si trattava di Pezzato il quale aveva necessità di parlarmi urgentemente. Quando mi passarono la chiamata, Pezzato mi disse che era con Tommasoni e che, di notte, erano tornati alla scuola di Thiene ed avevano scavato nel cortile per cercare le armi sepolte. Io non credetti alle mie orecchie e, quando realizzai ciò che quei due matti avevano fatto, divenni furioso e diedi loro una lavata di testa che ancora se la ricordano. Erano impazziti! E fortuna che avevo loro raccomandato chiaramente che lo scavo si sarebbe fatto solo una volta ottenuti i permessi! Ma ormai la frittata era fatta e non si poteva più tornare indietro. Non potei fare a meno di arrabbiarmi e, dopo che ebbi sbottato, Pezzato, cercando suo malgrado di scusarsi, disse che nel cortile della scuola non avevano trovato niente di niente. Anzi: grazie alla loro incursione notturna, mi ero risparmiato una figuraccia coi miei superiori e con la magistratura di Vicenza, visto che la perquisizione fatta in maniera ufficiale si sarebbe rivelata infruttuosa. Chiesi quindi a Pezzato se avesse altro da dirmi e, per tutta risposta, passò la cornetta a Tommasoni. Quest’ultimo mi disse che aveva un’informazione utile alle mie indagini e mi fece il nome di tale Renato Nalli, residente a Padova, in via Dante. A detta di Tommasoni, questo Nalli custodiva a casa sua un bel numero di armi e di munizioni. E siccome ne aveva tante al punto da averne sotterrate in posti diversi, il Nalli non si era accorto che Tommasoni stesso, nel corso del tempo, gliene aveva sottratte diverse. Naturalmente, visto l’episodio del giorno precedente, chiesi a Tommasoni se questa volta fosse sicuro… Lui mi giurò che quanto mi stava raccontando corrispondeva a verità poiché Renato Nalli era suo cugino e, nei vari nascondigli, a depositare le armi ci erano andati insieme.»
A telefonata conclusa, Pasquale Juliano convoca immediatamente il maresciallo Noventa – suo braccio destro – chiedendogli di controllare cosa risultasse a nome di Renato Nalli. A parte essere titolare di regolare porto d’armi e di possedere due fucili da caccia insieme ad un revolver ed una pistola semiautomatica, Nalli era immacolato. In ogni caso Juliano decide di dar credito alle parole di Tommasoni e, pensando che il cugino, oltre alle armi regolarmente detenute potesse averne altre, chiede alla Procura della Repubblica un mandato di perquisizione da effettuarsi il 9 giugno 1969.

Primo da sinistra, il commissario di Pubblica Sicurezza Pasquale Juliano (fotografia concessa da Antonio Juliano, figlio di Pasquale Juliano)

Terzo da sinistra, il commissario di Pubblica Sicurezza Pasquale Juliano (fotografia concessa da Antonio Juliano, figlio di Pasquale Juliano)

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