10 dicembre 2023

LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA (puntata n° 12)

La sera stessa di quel 16 giugno 1969, una volante della Questura va a prelevare Albero Muraro al numero 15 di piazza dell’Insurrezione 26 aprile: per Pasquale Juliano, il racconto del portiere sarà di fondamentale importanza per chiarire l’identità della persona che era entrata all’interno dello stabile, in quale appartamento si fosse diretta, per quanto tempo vi si fosse trattenuta e se avesse con sé un pacchetto in entrata o in uscita.
Il signor Muraro, senza incertezza alcuna, fa mettere a verbale che quella sera, verso le ore 19:00, un ragazzo, dell’apparente età di circa 25 anni e con indosso una camicia a fiori, era entrato nell’androne del condominio presso cui prestava servizio come portiere. Il giovane si era diretto senza indugio verso l’ascensore ed era salito ai piani superiori. Dopo circa tre quarti d’ora, il ragazzo era sceso e, non appena aveva messo piede nella piazza antistante allo stabile, era stato fermato da alcuni uomini che si erano poi rivelati essere poliziotti in borghese. E quando gli investigatori chiedono a Muraro se si fosse trattenuto a chiacchierare con Patrese una volta che questi era uscito dall’ascensore, l’ex carabiniere nega la circostanza nella maniera più assoluta.
Andato via il signor Muraro, Il commissario Juliano tira finalmente un sospiro di sollievo: la deposizione del portiere coincide perfettamente coi fatti che lui e i suoi avevano vissuto in prima persona proprio quella sera, Senza contare che il signor Muraro, oltre ad aver prestato servizio nell’Arma – questo rappresentava di per sé un’importante garanzia riguardo la veridicità delle sue dichiarazioni – e a non aver nessun interesse a mentire, non era nemmeno a conoscenza di quali indagini la Polizia stesse svolgendo tanto da poterle sviare in qualche modo.
Juliano, stanco morto, decide di tornarsene a casa: la giornata era stata lunghissima, anzi infinita. Non sarebbe successo nulla fino all’indomani quando, da lì alle prime luci dell’alba, sarebbero partite tutte le altre perquisizioni che il giudice Fais aveva firmato pochi giorni prima. Il commissario Juliano non vi avrebbe partecipato di persona, ma era sicuro che questa volta la Polizia avrebbe trovato armi ed esplosivo in grosse quantità. Ma mentre sta per uscire dall’ufficio, Noventa lo ferma.
Pasquale Juliano (ex questore): «Stavo per tornarmene finalmente a casa quando incrociai il maresciallo Noventa. Mi chiese cosa sarebbe successo se Pezzato e Tommasoni ci avessero fatto fare un altro buco nell’acqua… Di sicuro tutti quanti avrebbero pensato che quei due ci raccontavano balle solo per fare soldi e che noi avevamo abboccato all’amo come dei sempliciotti. Ma siccome, col denaro racimolato fino a quel momento, né Pezzato e né Tommasoni sarebbero diventati milionari, confidai al mio maresciallo che le ultime 500 lire gliele avevo date di tasca mia affinché si comprassero almeno un pacchetto di sigarette ciascuno.»
Dopo aver trascorso una nottata a rigirarsi nel letto perché preoccupato per le perquisizioni dell’indomani mattina, il Capo della Squadra Mobile giunge in ufficio di buon’ora. Ma neanche a farlo apposta, Noventa era stato profetico: nonostante la Polizia avesse effettuato le perquisizioni allo stesso momento e tutte in parallelo affinché nessuno dei perquisiti avesse il tempo materiale di avvisare i rispettivi “camerati”, i risultati ottenuti si erano rivelati estremamente scarsi. Nessuna santabarbara né, tantomeno, armi a palate ed esplosivo a quintali. Solo poche cianfrusaglie e qualche arma da fuoco detenuta illegalmente.
Pasquale Juliano, una volta rientrati i suoi uomini, stenta a credere alle proprie orecchie.
A casa di Pier Giorgio Pavanetto, la Polizia trova suo fratello Maurizio: vengono rinvenuti alcuni fucili da caccia inutilizzabili e mai denunciati, una pistola lanciarazzi a doppia canna, qualche cartuccia per fucile ed una maschera antigas. A casa di Gustavo Bocchini Padiglione saltano fuori una pistola ad aria compressa completa di pallini, una pistola Beretta calibro 22 con due scovoli per pulirne la canna, due scatole da cinquanta proiettili cadauna ed un coltello a serramanico. Nella sua autovettura, invece, la Polizia recupera un tirapugni ed una pistola calibro 6,35 con cinque proiettili. Nulla, invece, viene rinvenuto nelle abitazioni di Massimiliano Fachini, Giuseppe Brancato e Francesco Petraroli.
Dopo un primo attimo di sconforto e pur messo dinanzi all’ennesimo fiasco, il Capo della Squadra Mobile in cuor suo sa di aver imboccato la strada giusta. E sa altrettanto bene che sia il gruppo di Fachini che quello di Freda, Ventura e Pozzan, hanno a che fare con gli attentati dinamitardi di quella prima metà del 1969. Odina così ai suoi uomini di convocare tutti i destinatari dei provvedimenti di perquisizione e di farlo il prima possibile: l’idea del commissario Juliano è quella di far crollare qualcuno dei coinvolti con un interrogatorio faccia a faccia. Se uno solo tra Fachini, Petraroli, Pavanetto, Brancato e Bocchini Padiglione avesse fatto delle ammissioni, il resto della storia sarebbe arrivato da solo.
Il primo a trovarsi dinanzi al Capo della Mobile è Maurizio Pavanetto: il giovane dichiara che le armi rinvenutegli in casa dalla Polizia erano state trovate da lui e da suo fratello un po’ nei dintorni della Certosa di Vigodarzere e un po’ in alcune case diroccate che si trovavano nei terreni amministrati dal padre. Maurizio, vedendo quelle vecchie armi, si era messo in testa di farsi una collezione privata e, pur sapendo che occorreva la specifica licenza rilasciata dalla Questura, si giustifica dichiarando che i fucili erano talmente malconci e rovinati che non sarebbero mai stati in grado di sparare. Durante la guerra, quei terreni erano stati requisiti dai tedeschi per farne un arsenale e, siccome anche la maschera antigas era stata ritrovata nei medesimi posti, secondo Pavanetto non si poteva assolutamente parlare di armi occultate in quanto i luoghi dei rinvenimenti erano accessibili a chiunque. E quando Pasquale Juliano chiede a Maurizio Pavanetto se conoscesse gli altri soggetti coinvolti nelle perquisizioni, l’uomo ammette di conoscere personalmente Giuseppe Brancato perché era stato suo compagno di scuola fino all’anno precedente. Degli altri, invece, Pavanetto dice di conoscerli di vista e limitatamente alla sfera lavorativa: la famiglia Pavanetto commerciava nel settore enologico ed il Movimento Sociale di Padova figurava tra i clienti dell’azienda a conduzione famigliare. Maurizio stesso, in più di un’occasione, si era recato alla sede dell’MSI per portarvi il vino che gli era stato ordinato.
Dopo Pavanetto è il turno di Giuseppe Brancato: il ragazzo racconta a Juliano di essere stato compagno di scuola di Maurizio Pavanetto, di frequentare attivamente il FUAN pur non essendone tesserato, di aver partecipato alla manifestazione indetta dall’MSI in ricordo di Benito Mussolini e, infine, di essersi trovato in mezzo ai tafferugli scoppiati il 16 aprile davanti al Comune di Padova tra esponenti di Lotta Continua, membri delle rappresentanze sindacali e militanti di destra. Il commissario, quindi, chiede a Brancato se conoscesse Massimiliano Fachini e in quali rapporti si trovasse con lui. Il ventenne risponde di essere stato una volta sola a casa di Fachini per parlare del matrimonio di quest’ultimo che stava per approssimarsi. Per il resto, i rapporti tra i due si limitavano alla sfera politica ed universitaria per via dei consigli che Fachini stava dando a Brancato quando aveva appreso che questi si era iscritto alla facoltà di scienze statistiche. Lavorativamente parlando, alla data dell’interrogatorio Brancato risultava essere disoccupato dopo aver aiutato suo padre nel bar di famiglia di via Tommaseo e, per circa venti giorni, essere stato rappresentante della ditta Tipo Film di Milano.
Anche con Francesco Petraroli, il commissario Juliano non giunge a nulla di concreto: l’uomo racconta al Capo della Squadra Mobile di essersi iscritto all’MSI nel 1968 e di aver conosciuto i compagni di partito nel momento in cui era diventato membro dell’organizzazione politica. Aggiunge di aver partecipato direttamente a volantinaggi, a manifestazioni indette dall’MSI e alle poche campagne elettorali che c’erano state. Anche lui, il 16 aprile 1969, era stato coinvolto nella manifestazione violenta dinanzi al municipio ma che non vi aveva partecipato attivamente poiché, nel momento in cui erano cominciati gli scontri, aveva appena preso la parola nella sala consiliare del comune. Sentiti i rumori, Petraroli era sceso in strada ma era stato caricato da gente di sinistra armata di bastoni e spranghe. Fuggito verso la sede del Movimento Sociale, era riuscito a rimanere tutto intero e a tornare a casa. Alla specifica domanda del commissario Juliano su Pezzato e Patrese, Petraroli si limita a dire di conoscerli in maniera superficiale – soprattutto Pezzato che non gli piaceva per via dei reati comuni nei quali era risultato coinvolto – e di non sapere quali altri rapporti esistessero tra i due all’infuori di quelli politici.
Gustavo Bocchini Padiglione è il migliore del gruppo perché ha la riposta pronta ad ogni domanda che il commissario Juliano gli rivolge: la Beretta calibro 22 è stata acquistata con regolare porto d’armi rilasciatogli proprio dalla Questura di Padova; è sufficiente effettuare un controllo in archivio per verificare che sta dicendo la verità. La pistola ad aria compressa, invece, gli è stata concessa in prestito da un amico affinché eliminasse un piccolo topolino che Bocchini Padiglione aveva allevato insieme ad altri due; tre galli nel pollaio erano troppi ed uno dei tre topolini doveva morire. Per la pistola calibro 6,35 ecco come stavano le cose: apparteneva al padre che era stato vice prefetto di Padova e che era defunto quattrodici anni prima, nel 1955. L’arma risaliva alla Seconda Guerra Mondiale quando il padre prestava servizio nell’aeronautica e, da sempre, era rimasta in casa: all’inizio nel comodino della camera da letto e poi, alla nascita dei figli, dentro un armadio chiuso a chiave. Per caso, all’inizio del 1960, la pistola viene ritrovata e la madre di Gustavo la ripone nel ripostiglio a mo’ di cimelio. Nessuno, in famiglia, si era poi premurato di denunciare l’arma e tutti se ne erano dimenticati fino alla perquisizione di quella mattina da parte della Polizia. Per quanto concerne, infine, il coltello a serramanico e il tirapugni, Bocchini Padiglione afferma di non sapere che il primo andasse denunciato e come il secondo fosse finto nella sua autovettura. Nei giorni seguenti, ascoltata dalla Polizia, la signora Gabriella Volpato vedova Bocchini Padiglione avallerà le dichiarazioni rese dal figlio in sede di interrogatorio. In merito alla politica, anche Bocchini Padiglione aveva avuto gli stessi trascorsi degli altri interrogati: partecipazioni nel FUAN, nell’MSI, volantinaggi, manifestazioni e cose del genere. E nulla più di superficiali conoscenze degli altri membri della sezione del Movimento Sociale. Anche su Fachini, il racconto del giovane Gustavo è molto sintetico perché, al di là di conoscerlo in qualità di consigliere provinciale del FUAN, lo aveva accompagnato a casa con la macchina una sera dell’inverno passato. Soprattutto, però, Bocchini Padiglione nega con forza di aver compiuto alcuna azione illegale e, men che meno, di aver mai toccato esplosivi in vita sua.
Il “piatto forte”, Pasquale Juliano se lo riserva per ultimo: Massimiliano Fachini.
Pasquale Juliano (ex questore): «Quando fu il momento di interrogare Massimiliano Fachini, questi aveva già nominato un legale di fiducia, tale avvocato Giangaleazzo Brancaleon. Gli domandai delle armi e dell’esplosivo ritrovati nelle mani di Giancarlo Patrese e Fachini ripose di non saperne nulla così come non sapeva che intenzioni avesse il giovane che avevamo fermato in piazza dell’Insurrezione. Conosceva Patrese così come conosceva tutti gli altri perquisiti perché Fachini coordinava il FUAN padovano ma, da qui ad essere coinvolto in fatti delittuosi di qualsiasi natura, ce ne correva… In ogni caso, Fachini negò sia di aver consegnato il pacchetto a Patrese sia di averlo visto nella giornata del 16 giugno perché alle 17:10 era uscito per recarsi nel suo ufficio ed era rientrato a casa alle 19:00 passate per restarci fino al giorno dopo.»
Anche sulla presenza del manifesto del FUAN all’interno del pacco ritrovato nelle mani di Patrese, Massimiliano Fachini non sa fornire una risposta: una risma di quei manifesti – risalenti addirittura a fine 1967 – era stata rubata, dall’università, insieme a dell’altro materiale di cancelleria qualche tempo prima e, pertanto, chiunque avrebbe potuto utilizzare un volantino per avvolgerci dentro la pistola e l’esplosivo che Giancarlo Patrese aveva con sé.
Pasquale Juliano è affranto: tutto il lavoro profuso in quei giorni non era servito a nulla. Nonostante vi fossero state delle denunce – una per Patrese, già detenuto in carcere, per porto e possesso abusivo di armi ed esplosivo; ed altre tre, per detenzione abusiva di armi, emesse nei confronti di Gustavo Bocchini Padiglione, sua madre e Maurizio Pavanetto – nessuna delle persone perquisite aveva ammesso alcunché. Tutti parevano essere dei santi del paradiso scesi sulla terra. Sì, certo: ognuno di loro aveva confessato di avere simpatie per gli ambienti di destra ma, a parte questo, nessuno che fosse un “bombarolo” e che avesse mai commesso reati gravi. In sintesi, erano tutti dei bravissimi ragazzi. Magari un po’ avventati – questo sì – ma non certo delinquenti di professione.
La speranza di Juliano di risolvere “l’affare Patrese” va a farsi benedire: l’uomo, seppur detenuto, continua a dare per vera la sua versione dei fatti mentre i confidenti del commissario, in coro, replicano che l’unica persona che sta mentendo è Patrese.
Nei giorni seguenti non succede nulla di importante: Juliano torna ai reati comuni propri della Squadra Mobile e, di tanto in tanto, Pezzato e Tommasoni si fanno vivi per chiedere soldi al funzionario. Che, da uomo buono qual è, spesso glieli dà di tasca propria senza utilizzare quelli promessi dal questore Manganella.
La notte tra il 30 giugno e il 1° luglio 1969, però, accade qualcosa.
Mentre si accinge a rientrare a casa, Nicolò Pezzato viene avvicinato da Giuseppe Brancato. Al confidente del commissario Juliano, quando improvvisamente si ritrova dinanzi Brancato, quasi viene un mezzo colpo. Brancato se ne accorge e, tra il serio e il faceto, comincia ad incalzare il povero Pezzato facendo strani discorsi. Sulle prime Pezzato non capisce dove Brancato voglia andare a parare, visto che accenna a diverbi tra amici causati da donne o da debiti non onorati. Ma nel momento preciso in cui Giuseppe Brancato, nella maniera più tranquilla di questo mondo, fa l’esplicito riferimento agli amici che venivano traditi da certi doppiogiochisti vendutisi “agli sbirri”, Nicolò Pezzato capisce che la sua attività di confidente è stata scoperta e che, molto presto, sarebbe stato investito da una valanga di guai da cui non aveva la minima idea su come avrebbe fatto ad uscirne.

Il logo del FUAN - Fronte Universitario d'Azione Nazionale (fotografia reperita su Internet)

Massimiliano Fachini negli anni Sessanta (fotografia reperita su Internet)

01 gennaio 2023

LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA (puntata n° 11)

A casa di Renato Nalli i poliziotti non trovano nulla di rilevante: Juliano è infuriato perché è la seconda volta che fa un buco nell’acqua, dopo la scuola di Thiene. Infastidito dalla situazione ed una volta tornato in Questura, il commissario medita sul passo successivo da compiere, ovvero la perquisizione di un nuovo deposito di armi situato nei pressi della Certosa di Vigodarzere: secondo Pezzato, infatti, la nuova “santabarbara” sarebbe gestita da uno dei fratelli Pavanetto che è pure grande amico di Giuseppe Brancato.
Pezzato, tuttavia, non sa fornire altre informazioni precise sull’ubicazione esatta del deposito e Juliano, quindi, si ritrova costretto a mettere sotto controllo, ventiquattr’ore su ventiquattro, il vecchio monastero in disuso del piccolo paese in provincia di Padova.
I turni si susseguono a ciclo continuo e tutta la Squadra Mobile – Juliano compreso – è coinvolta negli appostamenti. Una notte, di turno, c’è proprio il commissario Juliano.
Pasquale Juliano (ex questore): «Ero di turno nei dintorni della Certosa di Vigodarzere, insieme ai soliti Pezzato e Tommasoni, divenuti ormai ospiti fissi in Questura. Ci eravamo portati sul luogo con la mia auto privata così da passare, per quanto possibile, inosservati. Rimase tutto tranquillo fino alle 2:00 del mattino quando, improvvisamente, apparve una macchina. Era una FIAT 850 e pareva essere quella di Giuseppe Brancato. Chiesi ai due che erano con me se riconoscessero l’automobile come quella appartenente a Brancato ma entrambi, un po’ per il buio e un po’ per la notevole distanza che ci separava dalla vettura che pian piano si stava avvicinando, non furono in grado di esserne certi. Tantomeno si riusciva a scorgere la targa, i cui numeri erano pressoché invisibili quasi fossero stati alterati di proposito o fossero state manomesse le lampadine che avrebbero dovuto illuminarli. Con Pezzato e Tommasoni ipotizzammo che l’850 arrivasse dalla Certosa e che fosse diretta verso Padova. L’unica cosa che eravamo riusciti a scorgere era la presenza di tre persone a bordo, cosa piuttosto insolita a quell’ora di notte. Decisi di seguire la FIAT: alla peggio si sarebbe rivelato un giro inutile ed avremmo perso un po’ di tempo. Ma tanto valeva provare. Cercai di mantenermi distante così da non creare sospetti negli occupanti dell’850: di altre vetture, in giro, non ce n’erano e sarebbe bastato un attimo per capire che stavamo seguendo proprio loro. Non feci in tempo a pensarlo: la FIAT iniziò ad accelerare compiendo giri sempre più lunghi, effettuando svolte improvvise e tornando indietro. Sembrava di stare in un film poliziesco in cui i delinquenti cercano di seminare la Polizia. Con un po’ di fortuna riuscii a star loro dietro finché giungemmo in via Beato Pellegrino, a Padova, nei pressi della casa dove abitava Giuseppe Brancato.»
Ormai sicuri di essere stati scoperti, il commissario Juliano e gli altri due vengono salvati da una trovata di Tommasoni che, abbassato il finestrino dell’auto del poliziotto, urla «sporchi fascisti!» al terzetto capitanato da Brancato fingendo, in questo modo, di essere un gruppo di comunisti a caccia di neofascisti da prendere a botte.
Il 16 giugno, mentre Juliano pensa a quanto vorrebbe chiudere l’indagine sugli attentati dinamitardi affidatagli dal questore Manganella per poter tornare ai suoi casi abituali, ecco che accade qualcosa: alle 8:30 del mattino, Juliano riceve una telefonata da parte di Nicolò Pezzato.
Pasquale Juliano (ex questore): «Fui chiamato dal centralino da cui mi dissero che c’era Pezzato in linea. Dissi loro di passarmelo e Pezzato esordì con un “commissario, ci siamo!”. Gli chiesi di spiegarmi e lui rispose che l’esplosivo che aspettavano era finalmente arrivato. Mi disse che si trovava sparpagliato per i depositi di cui mi avevano già detto lui e Tommasoni ma che, una parte, si trovava a casa di Massimiliano Fachini.»
Massimiliano Fachini, classe 1942, nasce a Tirana, in Albania. Figlio dell’ex questore di Verona durante gli anni della Repubblica di Salò, Fachini trascorre infanzia e giovinezza a Padova. Intrapresi gli studi universitari, inizia ad avvicinarsi alla politica della sua città. Diviene consigliere provinciale del FUAN – il Fronte Universitario d’Azione Nazionale – e, negli anni successivi, consigliere comunale dapprima nelle fila dell’MSI (fino al 1973) e poi come indipendente (fino al 1975 quando termina il suo mandato). Dopo i coinvolgimenti in diversi attentati dinamitardi – come quello al rettore Opocher, all’ex questore di Padova Allitto Bonanno, alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana e alla stazione di Bologna – per i quali venne prosciolto, viene arrestato per i reati di banda armata ed associazione sovversiva. Secondo le testimonianze di parecchi imputati nei diversi processi per gli attentati dinamitardi che si susseguirono a partire dal 1969, Massimiliano Fachini non solo era un esponente di spicco di Ordine Nuovo in Veneto, ma era pure legato a doppio filo col SID – il Servizio Informazioni della Difesa – che lo avrebbe protetto ed aiutato a sottrarsi agli ordini di cattura che lo riguardavano. Scarcerato nel 1983, inizia a lavorare come agente di commercio. Morirà il 3 febbraio 2000 in un maxi-tamponamento sull’autostrada A4 Torino-Venezia nei pressi di Grisignano di Zocco, in provincia di Vicenza.
Il commissario Juliano ricorda bene il nome di Fachini poiché faceva parte del gruppo che comprendeva anche Domenico Obriedan, Gustavo Bocchini Padiglione, Francesco Petraroli e Giuseppe Brancato. Da quando aveva preso in mano le indagini sugli attentati dinamitardi di quella prima metà del 1969, Juliano era incappato moltissime volte nel nome di Fachini. E proprio per questa ragione, decide di dar credito alle parole di Pezzato e lo invita a proseguire col suo racconto.
Pasquale Juliano (ex questore): «Chiesi a Pezzato se fosse sicuro di quel che stesse dicendo. Lui assentì ed io gli chiesi dove abitasse questo Fachini e come facesse, Pezzato, ad essere sicuro della presenza dell’esplosivo in casa del consigliere. Pezzato rivelò di aver visto l’esplosivo coi propri occhi ed aggiunse che il materiale non si trovava direttamente in casa di Fachini bensì in una soffitta di sua proprietà all’interno dello stesso stabile al numero 15 di piazza dell’Insurrezione 26 aprile.»
Piazza dell’Insurrezione 26 aprile si trova a due passi dal centro di Padova e, al numero 15, si trova il palazzo dove risiede Massimiliano Fachini: si tratta di quel palazzo silenzioso e signorile dove, poco meno di tre mesi dopo, Alberto Muraro morirà cadendo “accidentalmente” nella tromba delle scale. Ma Pasquale Juliano, pur addentrandosi sempre più profondamente all’interno della realtà neofascista di Padova, ancora non può cogliere questa strana coincidenza e tantomeno immaginare cosa capiterà da lì a pochissime settimane.
Pasquale Juliano (ex questore): «Dopo che mi ebbe rivelato il luogo in cui Massimiliano Fachini avrebbe detenuto l’esplosivo, Pezzato, per il timore che i sospetti del gruppo si concentrassero su di lui, mi chiese espressamente di non intervenire né a casa del consigliere, né alla Certosa di Vigodarzere e né a Thiene dove abitava Petracca. Io provai a ribattere perché temevo che l’esplosivo potesse essere usato prima che lo sequestrassimo, ma Pezzato mi rassicurò dicendomi che le bombe sarebbero servite per un fatto eclatante e che, per il momento, nessuno avrebbe toccato nulla. Ci lasciammo con la promessa che Pezzato mi avrebbe avvertito prima che l’esplosivo potesse essere utilizzato in qualche altro attentato.»
Ma quella mattina, a Juliano, non giunge solo la telefonata di Nicolò Pezzato: ne arriva un’altra – questa volta anonima – durante la quale il misterioso interlocutore invita la Polizia a perquisire l’abitazione di Fachini perché ci sarebbero state interessantissime “scoperte fragorose” da fare. Il Capo della Squadra Mobile, da fine investigatore qual è, comincia così a riflettere su quanto spesso, negli ultimi giorni, sia inciampato nel nome di Fachini: se è vero che, per la Questura di Padova – e nella fattispecie per l’Ufficio Politico – il consigliere provinciale del FUAN è «un elemento di indubbie capacità organizzative e portato per il suo fanatismo ideologico anche a pericolose intemperanze di estremismo politico», per Juliano, che ne conosce la storia per sommi capi, non può essere una semplice coincidenza che Fachini stia diventando un punto nevralgico delle sue indagini.
Senza indugio, si alza dalla sedia e corre nell’ufficio del questore Manganella. Arrivato pure il commissario Molino, i tre decidono sul da farsi. Vengono così richiesti, al procuratore di Padova Aldo Fais, i mandati di perquisizione per le abitazioni di Massimiliano Fachini e di tutti i suoi sodali: Giuseppe Brancato, Francesco Petraroli, Gustavo Bocchini Padiglione e Pier Giorgio Pavanetto. Alla Procura di Vicenza, invece, viene chiesto il mandato per l’abitazione di Thiene di Fernando Petracca. Nell’ufficio del Questore viene definita la strategia che si spera possa portare agli arresti che chiuderanno le indagini: squadre miste, composte sia da membri della Squadra Mobile sia da quelli dell’Ufficio Politico, effettueranno gli appostamenti presso i presunti depositi di armi e le perquisizioni presso le abitazioni degli indagati.
In piazza dell’Insurrezione, la Polizia si nasconde all’interno della pizzeria-birreria Italia Pilsner: oltre a Pasquale Juliano, ci sono il commissario Giosuè Salomone e il maresciallo Noventa, l’agente Giordano Barozzi – in forza alla Squadra Mobile – e l’agente Aldo Mariuzza, in forza all’Ufficio Politico. Le vetrate della pizzeria sono il luogo perfetto per poter sorvegliare il portone del palazzo in cui risiede Fachini: non solo si è in grado di vedere chi entri o chi esca, ma pure la direzione da cui si sta provenendo o verso cui si stia andando.
Intorno alle 11:00 circa del mattino, Nicolò Pezzato fa la sua apparizione all’interno del locale. Senza proferire parola, Pezzato di dirige immediatamente verso la toilette, subito seguito dal commissario Juliano. La discussione che hanno è brevissima e, in quella sede, il confidente si limita a confermare al poliziotto che l’unico posto che vale la pena sorvegliare è quello in cui si trovano esattamente in quel momento: il numero 15 di piazza dell’Insurrezione 26 aprile. Andato via Pezzato, Juliano confida al commissario Salomone ciò che gli era stato riferito nel bagno della pizzeria.
Pasquale Juliano (ex questore): «Nel breve incontro avuto con Pezzato nella toilette della pizzeria, il confidente mi disse che l’unico luogo che valesse la pena sorvegliare era il palazzo dove abitava Fachini. Appena Pezzato se ne fu andato, mi consigliai col mio pari grado Salomone il quale, dopo qualche istante di riflessione, convenne sul fatto che, se davvero Pezzato stava dicendo la verità, era inutile tener d’occhio tutti quei posti fra Padova e Vicenza. A maggior ragione se pure dalle altre parti non stava succedendo nulla così come stava capitando a noi. Decisi di seguire il consiglio del mio commissario e insieme a lui rientrai in Questura, non prima di aver raccomandato ai miei uomini che non dovevano assolutamente muoversi da lì.»
Alle 19:00 di quello stesso giorno, però, ecco che accade qualcosa.
Un giovane, che sembra provenire dai portici di via dei Borromeo, si infila nel portone al numero 15 di piazza dell’insurrezione 26 aprile. L’agente Mariuzza lo riconosce: si tratta di Giancarlo Patrese, persona già nota alla Questura per essere un attivista di spicco dell’MSI. Patrese, impiegato postale, ha 31 anni e vive a Padova con sua moglie, Bruna Rampazzo. I poliziotti capiscono subito che non si tratta di una coincidenza fortuita: se Giancarlo Patrese è entrato in quel palazzo, di sicuro deve incontrare Massimiliano Fachini.
Il maresciallo Noventa esce dalla pizzeria e va in piazza. Fingendo di essere interessato alle mercanzie di due venditori ambulanti, si avvicina al palazzo nel quale è entrato Patrese. Anche gli altri due poliziotti fanno altrettanto e si mescolano alla gente che cammina in piazza, tenendosi, però, a distanza dal collega più alto in grado senza mai, tuttavia, perderlo d’occhio.
Trascorsi circa quarantacinque minuti, gli agenti della Questura vedono Patrese uscire dallo stabile di piazza dell’Insurrezione. Il maresciallo Noventa inizia a seguirlo mentre, dall’altro lato della piazza, gli vanno incontro Mariuzza e Barozzi. Quando gli sono addosso, Patrese si blocca perché capisce immediatamente che quelle persone sono poliziotti e che stanno cercando proprio lui.
Noventa, Barozzi e Mariuzza si qualificano e, mentre lo stanno facendo, si accorgono che Giancarlo Patrese, fra le mani, regge un pacchetto che non aveva con sé quando era entrato nel palazzo. Gli uomini della Questura chiedono all’uomo cosa ci fosse nel pacco ma lui, per tutta risposta, dice di non saperlo. Pochi minuti dopo, Giancarlo Patrese si ritrova in Questura per gli accertamenti di rito.
Pasquale Juliano (ex questore): «Giancarlo Patrese fu portato in Questura dove fu messo a sedere nella stanza degli interrogatori. Da quando i miei erano rientrati da piazza dell’Insurrezione, continuavo a chiedermi perché mai Pezzato non mi avesse mai parlato di questo Patrese. Eh sì che di nomi ne aveva fatti, accidentaccio! Ma non quello di Giancarlo Patrese!»
Mentre il commissario Juliano si arrovella sui motivi che potevano aver spinto Pezzato a tacergli il ruolo di Patrese all’interno del gruppo di Fachini, nella stanza degli interrogatori, il maresciallo Noventa comincia ad aprire il pacchetto che, sulle prime, pareva non contenere nulla di rilevante. Dopo aver rimosso la carta che fungeva da involucro esterno, il maresciallo della Noventa trova un manifesto del FUAN che avvolgeva altri due pacchetti. Il primo, simile ad un mattone, era chiaramente materiale esplosivo. L’altro, più pesante, contiene una pistola Beretta avente matricola non abrasa e corrispondente al numero 792056. Noventa chiede spiegazioni a Patrese che, dal canto suo, dichiara di non saperne nulla e di volere la presenza de suo avvocato, tale Lionello Luci che era pure il segretario della sezione padovana del Movimento Sociale Italiano.
Una volta relazionato in merito al primo interrogatorio di Patrese, Pasquale Juliano capisce che la svolta delle indagini che attendeva da settimane, è finalmente arrivata. A questo punto avrebbe voluto subito reinterrogare il giovane missino ma, non essendoci né Salomone né Molino – usciti per mangiare un boccone – deve per forza attendere. Nel frattempo, il solerte funzionario si dà da fare per organizzare tutto il lavoro che, da lì a qualche ora, sarebbe sfociato in controlli e perquisizioni a tappeto fra le provincie di Padova e Vicenza. Organizza con cura gli equipaggi delle auto mescolando i suoi uomini con quelli dell’Ufficio Politico, nomina i capisquadra e dà, ad ognuno, un luogo preciso da controllare. Alla fine Juliano, esauriti tutti i compiti che poteva svolgere e sollecitato dal maresciallo Noventa, acconsente ad andare a cena.
Quando il Capo della Squadra Mobile ed il suo maresciallo rientrano in Questura, Giancarlo Patrese è nuovamente sotto interrogatorio, incalzato dai commissari Molino e Salomone.
Pasquale Juliano (ex questore): «Quando io e Noventa rientrammo in ufficio, Salomone e Molino stavano interrogando Giancarlo Patrese. Entrai pure io nella stanza degli interrogatori per ascoltare cosa avesse da dire.»
Il copione del secondo interrogatorio è identico al primo: da una parte i poliziotti chiedono e richiedono a Patrese se sapesse cosa ci fosse all’interno del pacco; dall’altra Patrese risponde di non saperne nulla. E più i poliziotti lo incalzano, più Patrese nega. E mentre Juliano ascolta attentamente in religioso silenzio, ecco che Molino e Salomone chiedono al giovane fermato chi gli avesse consegnato materialmente il pacco contenente la pistola e l’esplosivo. Mai e poi mai i tre commissari si sarebbero aspettati la risposta che Patrese diede a quella domanda: a dargli quel pacco di cui lui assolutamente ignorava il contenuto, era stato nientemeno che Nicolò Pezzato quando si erano incontrati quel giorno.
Nella stanza degli interrogatori scende il gelo: Juliano, Molino e Salomone si guardano attoniti perché non hanno la minima idea di cosa diavolo stesse succedendo. Ma soprattutto, ad essere sconcertato e a rimanere senza fiato quasi avesse ricevuto un pugno nello stomaco, è proprio Pasquale Juliano che non capisce perché il suo confidente abbia consegnato dell’esplosivo a Patrese.
I tre poliziotti, senza proferire parola ma intendendosi solamente con lo sguardo, proseguono l’interrogatorio per capire come si siano svolti i fatti e cosa c’entrasse Pezzato in quella faccenda che iniziava a farsi davvero intricata. A tal proposito, quindi, Molino e Salomone ripartono con domande a raffica tese a ricostruire i movimenti di Giancarlo Patrese di quel 16 giugno 1969.
Secondo quanto Patrese riferisce alla Polizia, dalle 7:00 del mattino alle 14:00 o poco più, sarebbe stato in posta, a lavorare. Alle 11:00 circa, mentre stava lavorando, avrebbe ricevuto la visita di Nicolò Pezzato e di uno studente che conosceva di vista e di cui sapeva solo il cognome, tale Marinoni. I due volevano che Patrese consegnasse loro le chiavi della sezione dell’MSI che, in quei giorni, Patrese custodiva per poter esporre la bandiera a lutto in seguito alla morte di Arturo Michelini, l’allora segretario nazionale del Movimento Sociale Italiano. Non avendo con sé le chiavi e non potendo lasciare il lavoro perché l’orario non era ancora terminato, Patrese avrebbe invitato i due ad andare a casa sua e farsele consegnare da sua moglie. Trascorso poco tempo da quando i due avevano l’asciato l’ufficio postale, secondo il racconto di Patrese, sua moglie gli avrebbe telefonato in ufficio per farsi autorizzare a consegnar loro le chiavi. Verso 14:15, Patrese sarebbe tornato a casa per pranzo e, intorno le 15:30, si sarebbe recato alla sezione dell’MSI per verificare cosa Pezzato e Marinoni stessero facendo.
Gli investigatori pesano ogni parola che Patrese pronuncia, incerti se credergli o meno. Juliano, fra i tre, continua ad essere il più incredulo per via del nuovo ruolo che Pezzato sembrava avere nelle indagini. È ormai notte inoltrata e Giancarlo Patrese prosegue col suo racconto.
Giunto alla sede dell’MSI e non vedendo né Pezzato e né Marinoni, Patrese si sarebbe fermato ad attenderli. Ma avrebbe notato, nella cassetta delle lettere vicino all’ingresso, l’avviso di telegramma lasciato dal postino. E siccome gli uffici postali erano ancora aperti, Patrese avrebbe deciso di andare a ritirarlo. Nel mentre sarebbe arrivato Pezzato e, insieme, sarebbero andati a prendere il telegramma – annunciante i funerali dell’onorevole Michelini per il giorno 17 giugno 1969 – per poi consegnarlo all’avvocato Luci quale segretario provinciale. Una volta giunti allo studio dell’avvocato in via S. Fermo, Patrese e Pezzato, dopo avergli lasciato il telegramma, si sarebbero fatti dare la somma di 10.000 lire per organizzare il viaggio della delegazione padovana dell’MSI che, a Roma, avrebbe presenziato ai funerali dell’onorevole Michelini. Usciti dallo studio dell’avvocato, i due sarebbero tornati alla sede dell’MSI per sbrigare alcune faccende ed attendere di ritornare nuovamente, verso le 19:00, dall’avvocato Luci per farsi dare altri soldi poiché la somma ricevuta nel pomeriggio non sarebbe stata sufficiente per tutte e cinque le persone che avrebbero composto la delegazione. Venuti via dallo studio dell’avvocato ottenendo altre 3.000 lire, Pezzato avrebbe chiesto a Patrese di accompagnarlo in piazza dell’Insurrezione dove avrebbe dovuto ritirare delle cose.
Patrese, acconsentendo alla richiesta di Pezzato, si sarebbe così diretto verso piazza dell’Insurrezione, sapendo che, al numero 15, ci abitava Massimiliano Fachini. Percorso il tragitto in silenzio e giunti a destinazione, i due sarebbero entrati nel palazzo e preso l’ascensore per salire al terzo piano. Arrivati sul pianerottolo, Pezzato avrebbe chiesto a Patrese di aspettarlo lì e si sarebbe infilato dentro un appartamento la cui porta di ingresso era stata lasciata aperta. Trascorso qualche minuto, Pezzato ne sarebbe uscito con un pacco in mano.
Pasquale Juliano (ex questore): «Patrese raccontò che, quando Pezzato fu uscito dall’appartamento, gli avrebbe consegnato il pacco e gli avrebbe ordinato di scendere al pianterreno con l’ascensore. Aggiunse che l’avrebbe seguito a momenti prendendo le scale. Patrese avrebbe quindi preso l’ascensore e sarebbe sceso al pianterreno dove, in attesa di Pezzato, avrebbe chiacchierato col portinaio, il signor Alberto Muraro. Poi sarebbe uscito in strada e lì sarebbe stato fermato dalla Polizia. Ovviamente ripeté più volte che Pezzato non gli disse alcunché in merito al contenuto del pacco, e che mai e poi mai avrebbe avuto intenzione di organizzare qualsivoglia attentato dinamitardo servendosi dell’esplosivo col quale lo avevamo sorpreso.»
Pasquale Juliano, che aveva seguito l’interrogatorio di Giancarlo Patrese per filo e per segno senza dire una parola, esce dalla stanza degli interrogatori e chiama i poliziotti che erano stati in appostamento dinanzi alla casa di Fachini per tutta la giornata del 16 giugno.
Pasquale Juliano (ex questore): «Dopo aver ascoltato attentamente l’interrogatorio di Patrese ed appreso del coinvolgimento di Pezzato, chiamai Noventa, Barozzi e Mariuzza. Chiesi loro se, oltre a Patrese, avessero visto qualcun altro entrare con lui all’interno del palazzo dove abitava Fachini. Tutti e tre, sicuri del loro dire, risposero che in compagnia di Patrese non c’era stato nessuno, eccezion fatta per il portiere dello stabile. Ma soprattutto dissero che Pezzato non era mai entrato né uscito da quel palazzo. L’unico momento in cui lo avevano visto, era quando era venuto in pizzeria per parlarmi.»
Per capire cosa stesse effettivamente succedendo, a Juliano non rimane altro da fare che sentire direttamente Nicolò Pezzato. Insieme al maresciallo Noventa, sale sull’auto di servizio e si dirige presso l’abitazione del confidente, sita in via Perosi.
Pasquale Juliano (ex questore): «Arrivati sotto la casa di Pezzato, scesi dall’auto di servizio e suonai al citofono. Ci volle qualche minuto prima che rispondesse, vista l’ora tarda. Gli dissi di scendere immediatamente perché dovevo parlargli. Quando fu arrivato, lo caricammo in macchina perché dovevamo fargli parecchie domande. Lui, per tutto il tragitto, rimase in silenzio. Quando lo portammo nella stanza degli interrogatori, gli chiedemmo di riferirci cosa avesse fatto quel giorno.»
Nicolò Pezzato non si fa pregare e racconta agli investigatori tutti i suoi movimenti di quel 16 giugno 1969: verso mezzogiorno si trovava nei pressi della posta centrale di Padova dove sarebbe stato avvicinato da Marinoni e da Luigi Vettore Presilio, un altro militante di estrema destra. I due sarebbero andati da Pezzato per chiedergli se avesse visto Patrese in quanto dovevano farsi dare le chiavi della sede dell’MSI. Dopo pochi minuti, andatolo a chiamare, Patrese sarebbe uscito dall’ufficio ed avrebbe detto a Marinoni e a Vettore Presilio di andare a casa da sua moglie e farsi dare le chiavi da lei. I due si sarebbero quindi avviati verso la casa di Patrese mentre quest’ultimo avrebbe invitato Pezzato al bar – sito all’interno del medesimo stabile dove c’era anche l’ufficio postale – offrendogli un caffè. Pezzato avrebbe quindi lasciato Patrese e sarebbe rientrato presso la sua abitazione, dato che era ora di pranzo. Il confidente del commissario Juliano sarebbe poi uscito, verso le 15:40, per recarsi alla sede del Movimento Sociale. La porta era chiusa e lui sarebbe rimasto ad aspettare che qualcuno aprisse. Pochi minuti dopo sarebbe apparso Giancarlo Patrese che avrebbe aperto la sede e che gli avrebbe chiesto di accompagnarlo presso lo studio di Lionello Luci. Giunti dall’avvocato verso le 16:30, Patrese si sarebbe messo a discutere per farsi dare altri soldi per la trasferta romana della delegazione padovana dell’MSI. Tornati alla sede del Movimento Sociale, Pezzato sarebbe rimasto con Patrese fino alle 19:00 circa per poi accompagnarlo, nuovamente, dall’avvocato Luci dove Patrese doveva tornare per ritirare il resto del denaro promessogli dal segretario missino. Ma arrivati in via S. Fermo nei pressi dello studio dell’avvocato, Pezzato e Patrese si sarebbero definitivamente separati: Pezzato doveva assolutamente rientrare perché, quella sera stessa, avrebbe dovuto cenare fuori insieme a sua moglie, ai suoi amici Francesco Tommasoni, Giuliano Comunian e le rispettive fidanzate.
Pasquale Juliano (ex questore): «Pezzato riferì di essere rientrato a casa intorno alle 19:30 e lì cominciò a litigare con sua moglie. Quella sera dovevano andare per cena fuori Padova – a Murelle – e il mio confidente, secondo sua moglie, era rincasato troppo tardi. Fra il ritardo di Pezzato ed il tempo impiegato a litigare, il quintetto rinunciò all’uscita e rimase a casa di Pezzato. Verso le 22:00, i tre uomini si recarono al bar sotto casa di Pezzato per bere qualcosa e parlare ancora un po’ trattenendosi lì fin oltre la mezzanotte. Rientrato a casa, Pezzato andò a coricarsi e rimase a letto finché non arrivammo noi per portarlo in Questura.»
Incalzato dal commissario Juliano che vuole sapere se gli stia dicendo o meno la verità, Nicolò Pezzato conferma il suo racconto e nega apertamente sia di aver ricevuto il pacchetto da Fachini, sia di averlo consegnato a Giancarlo Patrese. Nega, altresì, di essere a conoscenza che, dentro il pacco, vi fossero dell’esplosivo e una pistola Beretta. E per confermare la sua buona fede, invita il commissario a perquisire casa sua perché è sicuro di non aver nulla da nascondere. Il Capo della Squadra Mobile non se lo fa ripetere due volte e, insieme al maresciallo Noventa, si porta presso l’abitazione di Pezzato ed effettua la perquisizione che, come il confidente aveva predetto, non dà alcun risultato: i poliziotti non trovano nulla di rilevante ed attinente alle indagini sui presunti depositi di armi ed esplosivo del gruppo di Massimiliano Fachini.
La situazione è abbastanza confusa: nemmeno il confronto diretto fra Pezzato e Patrese porta ad una versione univoca dei fatti: entrambi rimangono fermi sulle rispettive posizioni col primo che nega di essere andato in piazza dell’Insurrezione, e il secondo che afferma il contrario. A Juliano, quindi, per sbrogliare l’intricata matassa, non resta che convocare, quanto prima, il portiere dello stabile al numero 15 di piazza dell’Insurrezione 26 aprile: Alberto Muraro.

Massimiliano Fachini durante il processo per la strage della stazione di Bologna (fotografia reperita su Internet)

29 luglio 2022

LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA (puntata n° 10)

Dei nomi fatti da Tommasoni, il commissario Juliano conosce solo quello di Freda perché fa il procuratore legale; di Ventura e Pozzan non sa assolutamente nulla né, tantomeno, ne ha mai sentito parlare. Il commissario chiede quindi a Tommasoni come faccia a conoscere quelle tre persone e l’uomo – all’epoca procacciatore di clienti per conto di una compagnia di assicurazioni – risponde che le conosce perché, di quel gruppo, ne fa parte anche lui. Non solo: Tommasoni aggiunge che Freda, Ventura e Pozzan starebbero organizzando qualcosa di grosso ammettendo, però, di non sapere di cosa si tratti. Ciò nonostante, ben sapendo che avrebbe corso grossi rischi che non era pronto a prendersi, Tommasoni confessa, al Capo della Squadra Mobile, di voler lasciare al più presto il gruppo di Freda.
Ma Juliano, che non si fida completamente del nuovo confidente, si fa comunque dare il nome di una terza persona che, a mezzo interrogatorio, potesse avallare le dichiarazioni che Tommasoni gli ha appena reso: se vorrà essere assolutamente certo della veridicità della storia di Tommasoni, Juliano dovrà parlare con un ex membro dello stesso gruppo che è stato messo alla porta poiché considerato un mezzo pazzo. La persona cui Tommasoni si riferisce 
 di livello più basso rispetto a Freda, Pozzan e Ventiura  si chiama Giuseppe Roveroni e, oltre ad essere suo personale amico, è pure l’agente di zona della compagnia di assicurazioni per cui Tommasoni stesso lavora.
Pasquale Juliano (ex questore): «Tommasoni mi disse che avrei potuto confutare le sue dichiarazioni cercando questo tale Giuseppe Roveroni, suo amico e datore di lavoro. Io rimasi stupito da come Tommasoni non esitasse a “vendere” i suoi amici così facilmente e, quando gliene domandai il motivo, lui rispose che maneggiare bombe era roba assai più pericolosa che prendere a sprangate i comunisti. I “rossi”, li chiamava… Aggiunse che avrebbe avuto modo di raccontarmi molte cose anche su di un certo “Zio Otto” che lui conosceva bene.»
Il funzionario di Polizia annota tutti i nomi che Tommasoni pronuncia, ma capisce male “Zio Otto” e lo trasforma in “Ziotto”, un cognome abbastanza comune in Veneto. E mentre Juliano scrive, riflette su quanto le ultime confidenze – prima quelle di Pezzato e poi quelle di Tommasoni – siano gravi dal punto di vista delle possibili conseguenze per entrambi, ma anche su quanto la proverbiale esagerazione tipica dei veneti spesso ingigantisse fatti di per sé di piccola entità. Sembrava, a sentire i due confidenti, che la città di S. Antonio fosse diventata il covo prediletto di tutti i bombaroli d’Italia. E siccome Tommasoni aveva accennato alla ricompensa che sia lui che Pezzato si attendevano venisse loro corrisposta dalla Polizia (e che sicuramente avrebbe spinto anche Roveroni a parlare), Juliano comprende che nessun premio in denaro avrebbe potuto mettere al riparo i suoi confidenti dalla vendetta del gruppo neofascista casomai si fosse scoperto che avevano spifferato tutto agli inquirenti. Juliano non si tira indietro: deve proseguire le indagini per cui acconsente ad incontrare Roveroni di persona così da poter ascoltare ciò che quest’ultimo gli avrebbe confessato. Precisa, inoltre, ai due confidenti, che l’indagine sul gruppo di Freda, Pozzan e Ventura sarebbe partita una volta chiusa quella dell’attentato al rettore Opocher. E, naturalmente, solo dopo essersi confrontato col Questore ed ottenuto il nulla osta a procedere.
Trascorsi un paio di giorni, finalmente Giuseppe Roveroni si trova nell’ufficio di Juliano, faccia a faccia col Capo della Squadra Mobile.
Pasquale Juliano (ex questore): «Quando incontrai Giuseppe Roveroni in Questura, quest’ultimo confermò quanto riferitomi sia da Pezzato che da Tommasoni. Mi disse che il gruppo di Franco Freda era estremamente pericoloso perché si era messo a trafficare con l’esplosivo e lui, Roveroni, non voleva più saperne. Come accaduto per Tommasoni, anche a Roveroni era andato tutto bene finché ci si era limitati a picchiare i comunisti ma che adesso, con le bombe, il gioco si era fatto troppo pericoloso. Aggiunse che, addirittura, Freda e soci gli avevano consegnato un centinaio di grammi di arsenico affinché avvelenasse l’acquedotto comunale. Naturalmente mi sembrò un’affermazione un pochino campata in aria, dato che, quando gli chiesi di mostrarmi il veleno, Roveroni non fu in grado di farlo. Non era facile star dietro alle dichiarazioni di questi tre improvvisati confidenti perché, fino a quel momento, avevo ottenuto un mucchio di dichiarazioni che ancora non erano suffragate da fatti concreti ed oggettivi. In poche parole, ero fermo al punto di partenza.»
Il commissario Juliano prende nota delle richieste economiche del nuovo arrivato avvertendo lui e ribadendo agli altri due – che lo avevano accompagnato all’incontro col funzionario di Polizia – che non avrebbero visto un centesimo finché le loro dichiarazioni non avessero avuto un riscontro preciso. Juliano, in cuor suo, sa perfettamente che i tre si erano decisi a parlare esclusivamente per un tornaconto economico e non per scrupoli di coscienza. Proprio per questo, il commissario non poteva fidarsi prendendo per oro colato tutto ciò che dicevano. Senza contare che nessuno dei tre aveva la fedina penale pulita e che, seppur giovani, non erano santi da osannare come anime immacolate.
Pasquale Juliano decise, quindi, di procedere per gradi: prima si sarebbe occupato del gruppo di Fachini, Brancato, Petraroli, Obriedan e Bocchini Padiglione; poi si sarebbe concentrato su quello di Freda, Ventura e Pozzan. Non avrebbe mai immaginato che, ben presto, sarebbero emersi tanti e tali collegamenti fra le due cellule e che l’indagine, fin da subito, avrebbe dovuto essere portata avanti in parallelo su entrambi i gruppi.
Gli incontri tra i confidenti ed il commissario Juliano si susseguono: a tirarne le fila è il solito Pezzato che decide le date degli incontri, chi vi dovesse partecipare di volta in volta e il tema delle discussioni. Ovviamente c’è il consueto tira e molla fra i tre che chiedono soldi e Juliano che gliene concede a spizzichi e bocconi su indicazione del questore Manganella. E, piano piano, le informazioni cominciano ad arrivare. Juliano scopre così che, di depositi di armi, oltre a quello gestito dal personaggio di Thiene – che il commissario Molino identificherà in Fernando Petracca – ce ne sono molti atri sparsi per mezzo Veneto. Tommasoni racconta di una persona che, durante la Seconda Guerra Mondiale, aveva aderito alla Repubblica di Salò e che, a guerra finita, aveva sotterrato le armi in suo possesso per non incorrere nelle spiacevoli conseguenze che la resa post-bellica aveva portato nell’Italia sconfitta. Tommasoni confida a Juliano di essere ancora in contatto con questa persona la quale, se fosse stata accompagnata da qualcuno, avrebbe preso le armi e le avrebbe consegnate alla Polizia.
Avuto il via libera a procedere col rinvenimento delle armi da parte del questore Manganella, il 5 giugno 1969, il commissario Juliano carica Tommasoni e Pezzato e si dirige verso il cinema Vittoria, a Padova. Lì caricano un terzo uomo di cui, al poliziotto, viene soltanto svelato il soprannome – la “Maschera” – dovuto alla mansione che lo sconosciuto svolgeva nel cinematografo. Il quartetto si dirige verso Thiene per incontrare un altro individuo che, con grande sorpresa di Juliano, risulta essere il cognato di Nicolò Pezzato. Chiaramente Juliano non sapeva – né tantomeno Tommasoni l’aveva confermato – se il nascondiglio di Thiene fosse quello gestito da Petracca oppure no; tuttavia, ciò che premeva maggiormente al commissario, era trovare le armi e metterle al sicuro prima che potessero essere impiegate per compiere nuovi attentati.
Il cognato di Pezzato invita i nuovi arrivati a seguirlo. Dopo pochi minuti di cammino, giungono dinanzi ad una scuola. Juliano – che mai avrebbe immaginato che delle armi potessero essere state nascoste in una scuola – chiede al cognato di Pezzato se davvero le armi fossero lì. L’uomo risponde che erano nel cortile e che, per trovarle, avrebbero dovuto scavare.
Pasquale Juliano (ex questore): «Non potevo credere che le armi fossero state nascoste nel cortile della scuola. Ma bisognava procedere come Dio comandava: una cosa era scavare in aperta campagna dove, a seconda delle circostanze, si sarebbe anche potuto soprassedere; ben altra cosa era, invece, scavare nel cortile di una scuola pubblica senza avere uno straccio di mandato. Così dissi al gruppo che non avremmo fatto nulla finché non avessi avvertito sia la locale stazione dei Carabinieri sia la Questura di Vicenza ottenendo i permessi che servivano. Così ci rimettemmo in macchina e rientrammo a Padova.»
Il tragitto a ritroso verso il capoluogo veneto si svolge in assoluto silenzio finché, giunti nuovamente al cinema Vittoria per permettere alla Maschera di riprendere il suo lavoro, quest’ultima, chiudendo lo sportello dell’auto del commissario, rivela al poliziotto l’esistenza di altri svariati depositi di armi appartenute agli ex membri della Repubblica di Salò. Lasciati pure Pezzato e Tommasoni, il commissario Juliano, mentre guida fino a casa sua, tira un sospiro di sollievo: se non avesse dato l’altolà, quel gruppo sgangherato di confidenti avrebbe combinato un bel casino, scavando nel cortile della scuola senza il mandato del giudice. Per quella sera, la ricerca delle fantomatiche armi dei repubblichini sarebbe stata messa da parte a vantaggio della sua famiglia.
Come abbiamo detto più volte nel corso del racconto della storia di piazza Fontana, i colpi di scena non si fanno attendere. Ed ecco che, proprio la mattina seguente, in Questura, Pasquale Juliano riceve una telefonata.
Pasquale Juliano (ex questore): «Ero nel mio ufficio e il telefono squillò. Dal centralino mi dissero che si trattava di Pezzato il quale aveva necessità di parlarmi urgentemente. Quando mi passarono la chiamata, Pezzato mi disse che era con Tommasoni e che, di notte, erano tornati alla scuola di Thiene ed avevano scavato nel cortile per cercare le armi sepolte. Io non credetti alle mie orecchie e, quando realizzai ciò che quei due matti avevano fatto, divenni furioso e diedi loro una lavata di testa che ancora se la ricordano. Erano impazziti! E fortuna che avevo loro raccomandato chiaramente che lo scavo si sarebbe fatto solo una volta ottenuti i permessi! Ma ormai la frittata era fatta e non si poteva più tornare indietro. Non potei fare a meno di arrabbiarmi e, dopo che ebbi sbottato, Pezzato, cercando suo malgrado di scusarsi, disse che nel cortile della scuola non avevano trovato niente di niente. Anzi: grazie alla loro incursione notturna, mi ero risparmiato una figuraccia coi miei superiori e con la magistratura di Vicenza, visto che la perquisizione fatta in maniera ufficiale si sarebbe rivelata infruttuosa. Chiesi quindi a Pezzato se avesse altro da dirmi e, per tutta risposta, passò la cornetta a Tommasoni. Quest’ultimo mi disse che aveva un’informazione utile alle mie indagini e mi fece il nome di tale Renato Nalli, residente a Padova, in via Dante. A detta di Tommasoni, questo Nalli custodiva a casa sua un bel numero di armi e di munizioni. E siccome ne aveva tante al punto da averne sotterrate in posti diversi, il Nalli non si era accorto che Tommasoni stesso, nel corso del tempo, gliene aveva sottratte diverse. Naturalmente, visto l’episodio del giorno precedente, chiesi a Tommasoni se questa volta fosse sicuro… Lui mi giurò che quanto mi stava raccontando corrispondeva a verità poiché Renato Nalli era suo cugino e, nei vari nascondigli, a depositare le armi ci erano andati insieme.»
A telefonata conclusa, Pasquale Juliano convoca immediatamente il maresciallo Noventa – suo braccio destro – chiedendogli di controllare cosa risultasse a nome di Renato Nalli. A parte essere titolare di regolare porto d’armi e di possedere due fucili da caccia insieme ad un revolver ed una pistola semiautomatica, Nalli era immacolato. In ogni caso Juliano decide di dar credito alle parole di Tommasoni e, pensando che il cugino, oltre alle armi regolarmente detenute potesse averne altre, chiede alla Procura della Repubblica un mandato di perquisizione da effettuarsi il 9 giugno 1969.

Primo da sinistra, il commissario di Pubblica Sicurezza Pasquale Juliano (fotografia concessa da Antonio Juliano, figlio di Pasquale Juliano)

Terzo da sinistra, il commissario di Pubblica Sicurezza Pasquale Juliano (fotografia concessa da Antonio Juliano, figlio di Pasquale Juliano)

31 dicembre 2021

LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA (puntata n° 9)

Se Pietro Valpreda e gli anarchici non hanno nulla a che vedere con gli attentati di Milano e di Roma, chi è stato a portare quella Mosbach-Gruber nera, colma di gelignite, all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana per uccidere, in un batter di ciglia, diciassette persone e ferirne ottantasei?
Nell’opinione pubblica e in molti addetti ai lavori inizia ad insinuarsi il dubbio che, nei fatti di piazza Fontana, siano troppe le cose che non tornino. Alcuni giornalisti – fra loro Camilla Cederna, Corrado Stajano, Giorgio Bocca, Giampaolo Pansa – coordinati dall’avvocato Eduardo Di Giovanni e dal giornalista Marco Ligini (appartenente a Lotta Continua) creano un collettivo di “contro-informazione” che punta a cercare la verità: saranno queste persone che conieranno il termine “strage di Stato”, che diventa anche il titolo del libro che racconta la loro inchiesta.
Giorgio Boatti (giornalista e scrittore): «Il lavoro del gruppo di contro-informazione è stato molto importante per due motivi essenziali: in primo luogo perché è riuscito a fare emergere i piccoli brandelli di verità che venivano adeguatamente nascosti; in secondo luogo, perché ha fornito un modo per interpretarli. In sintesi, la contro-informazione ha dato, all’opinione pubblica, una sorta di “kit interpretativo” che ha aiutato a comprendere cosa stava accadendo sotto gli occhi della nazione intera. Il lavoro del collettivo aiutò a distinguere la verità dalle menzogne e a capire che, quando si parla di stragi come fu quella di piazza Fontana, il potere costituito non è mai neutrale ma diviene parte attiva di tali nefandezze. La contro-informazione aiutò ad identificare il buono dal meno buono e dal cattivo e, non per ultimo, aiutò a constatare come, nel fenomeno stragista che iniziò con l’attentato alla Banca dell’Agricoltura, vi fosse sempre lo stesso modus operandi che si ripeteva all’infinito. Ecco: questo sparuto gruppo di giornalisti ed avvocati – che io definisco “veri democratici” – fece un lavoro superbo nonostante i pochissimi mezzi a disposizione.»
Ad affiancare il collettivo di contro-informazione nella ricerca della verità, ci sono anche poliziotti e magistrati che, da qualche tempo, pensano di aver imboccato la direzione giusta per catturare mandanti ed esecutori della strage. Per capire di cosa stiamo parlando, però, dobbiamo tornare a Ruvo di Puglia, dove avevamo lasciato Pasquale Juliano mentre, sgomento dinanzi al televisore, assiste ai funerali delle vittime della strage di piazza Fontana.
Ma chi è Pasquale Juliano e, soprattutto, cos’ha a che fare con la storia che stiamo raccontando?
Pasquale Juliano nasce il 31 maggio 1932 ad Ostuni, in provincia di Brindisi, da padre napoletano e madre pugliese. Dopo la maturità classica, si iscrive all’università di Bari dove, nel 1956, si laurea in giurisprudenza. Intrapresa la carriera forense, il giovane Juliano inizia a lavorare come procuratore legale in attesa trascorrano i sei anni necessari a diventare avvocato. Giunto a metà percorso – siamo nel 1959 – Pasquale conosce Rosa, se ne innamora e la sposa in quello stesso anno. Il matrimonio con la sua amata cambia totalmente i piani del futuro avvocato: la paga che percepisce come procuratore legale non basta a mantenerli entrambi – a quei tempi un procuratore aveva un salario pari alla metà di quello di un avvocato e, a livello operativo, poteva patrocinare solo alcune cause – per cui Pasquale deve trovare un’alternativa che gli permetta di lavorare subito a stipendio pieno. Così decide, sempre nel 1959, di partecipare a diversi concorsi pubblici, finendo per vincere quello di vice commissario nelle Guardie di Pubblica Sicurezza. Col grado di vice commissario aggiunto, il primo incarico di Juliano è presso la Questura di Matera. È qui che, nel 1960, Rosa e Pasquale hanno Guglielmo, il loro primo figlio. Per i novelli genitori, Matera sembra la città ideale per mettere le radici: è piccola, è a misura d’uomo ed ha un bassissimo tasso delinquenziale. Ma solo dopo due anni di permanenza nella città lucana, Juliano viene trasferito a Novara dove, col grado di commissario e grazie alle sue capacità di acuto osservatore e fine investigatore, diventa capo della Squadra Mobile. Resta nella città piemontese fino al 1966; nel frattempo, la famiglia di Pasquale e Rosa si allarga con l’arrivo, nel 1963, del secondogenito Antonio. Nel 1972, infine, la nascita di Graziano – il terzo maschietto di casa – allieterà la vita della famiglia Juliano. In questi anni, Pasquale lavora sodo e si fa sempre più apprezzare sia dai suoi superiori sia dagli uomini sotto il suo comando: il commissario è zelante ed attento ma, soprattutto, utilizza metodi di indagine ancora pressoché sconosciuti nel lavoro di polizia. Ecco perché, ad un certo punto, nel 1966 verrà trasferito a Padova dove, sempre come capo della Squadra Mobile, inizierà le indagini che si riveleranno cruciali per la nostra storia.
Padova, in quegli anni, nonostante fosse una città apparentemente tranquilla, è in realtà molto difficile poiché molto attiva dal punto di vista politico, con particolare menzione all’eversione di destra. E, quando Juliano vi giunge, le bombe esplodono già da un po’: è il 30 aprile 1968 quando il primo ordigno scoppia di fronte alla casa del questore Ferruccio Allitto Bonanno, funzionario che, nel 1972, ritroveremo a capo della Questura di Milano quando verrà ucciso il commissario Calabresi.
Il flusso di esplosioni nel 1968 sembra non avere fine: il 2 luglio una bomba esplode nei pressi del Liceo Classico “Tito Livio” e, il 16 ottobre, ne scoppia un’altra all’ingresso dell’università. L’anno successivo non è da meno: il 26 gennaio 1969 una bomba esplode vicino al palazzo di giustizia; il 5 febbraio, un’altra fa saltare in aria l’entrata del Gazzettino e, il 29 marzo, diverse bombe molotov vengono lanciate contro le sedi del Movimento Sociale Italiano e del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria. Ma è il 15 aprile 1969 che i “bombaroli” danno il meglio di loro stessi: oltre ad un attacco alla sede del Partito Comunista Italiano, una bomba viene piazzata nello studio di Enrico Giuseppe Opocher, filosofo e magnifico rettore dell’Università degli Studi di Padova.
A base di nitrato di potassio, zolfo, carbone, polvere di alluminio e magnesio, l’ordigno viene posto, sotto mentite spoglie, su uno degli scaffali della libreria del rettorato ed esplode poco prima delle 23:00 di quella stessa sera, quando l’università è chiusa e gli uffici sono deserti. I danni provocati dall’esplosione sono ingenti: libri, suppellettili e parte del mobilio vanno a fuoco così come vanno in frantumi i vetri ed il vasellame. Porte ed infissi vengono scardinati e le pareti vengono investite, a mezz’aria, da una pioggia di schegge che l’energia dell’esplosione dissemina in giro come fossero proiettili. Segni evidenti dell’esplosione sono, inoltre, ben visibili nei locali adiacenti all’ufficio di Opocher. Dalle perizie effettuate nello studio del rettore, gli esperti della Scientifica confermeranno che la bomba era confezionata in un contenitore metallico posto all’interno di una borsa di plastica completa di manico e fibbia. Lo stesso rettore, interrogato nei giorni successivi, dirà agli inquirenti che, senza alcun dubbio, l’attentato di cui era stato vittima aveva una matrice neofascista.
Pasquale Juliano inizia le indagini sugli attentati dinamitardi il 16 aprile 1969, il giorno dopo lo scoppio della bomba nell’ufficio del rettore Opocher: è lo stesso questore di Padova – il dottor Federico Manganella – che, deluso dai risultati ottenuti dal suo Ufficio Politico, decide di affidare l’inchiesta al giovane commissario. Il ragionamento del Questore è molto semplice e lineare: acclarata la matrice politica degli attentati che in tutte le questure d’Italia apparteneva, per competenza, all’Ufficio Politico, secondo Manganella era impossibile che si colpissero indiscriminatamente gli obiettivi più disparati – e fra questi le sedi di partiti politici sia di destra che di sinistra – senza che l’Ufficio Politico, a parte i sospetti sui soliti anarchici e sui membri della sinistra extra-parlamentare, riuscisse a trovare altre piste su cui lavorare. Meglio, quindi, affidare le indagini a gente nuova che vedesse le cose con occhi diversi e che, magari, giungesse in breve tempo a qualche risultato degno di nota.
Il commissario Juliano si mette subito al lavoro relazionando, quotidianamente, sia il Questore sia la Procura della Repubblica: inizia a girare per la città e a sentire i suoi confidenti. Prende informazioni dalle persone che pensa possano sapere qualcosa ed inizia ad effettuare accertamenti e perquisizioni.
Il primo frutto del lavoro del commissario Juliano giunge inaspettato una ventina di giorni dopo l’attentato al rettore Opocher: alla sala operativa della Questura di Padova, arriva la telefonata di un uomo che vuole restare anonimo, che afferma di avere informazioni sugli attentati di quel periodo e che chiede espressamente di voler parlare con Pasquale Juliano.
Pasquale Juliano (ex questore): «Ero nel mio ufficio quando, dal centralino, mi passarono una telefonata. Quando risposi, un uomo mi chiese se fossi il commissario Juliano. Alla mia riposta affermativa, l’uomo mi disse di avere informazioni sugli attentati dinamitardi che avevano colpito Padova a partire dalla primavera del 1968. Aggiunse che, per parlare, voleva 5.000.000 di lire e che, solo dopo aver ricevuto tale compenso, mi avrebbe svelato la sua identità ed i fatti che voleva raccontarmi. Gli risposi che si trattava di tanti soldi e che non era una cosa per la quale avrei potuto decidere io liberamente. L’uomo mi invitò a parlarne coi miei superiori e si congedò dicendomi che, da lì a qualche giorno, mi avrebbe richiamato per sapere cos’avevamo deciso.”
Al commissario Juliano quella telefonata appare come un’oasi nel deserto: non gli sembra vero di aver trovato la direzione giusta da imboccare, visto che era trascorso ormai parecchio tempo dall’inizio degli attentati e la Polizia non aveva ancora individuato nessun attentatore. Quel giorno stesso, Juliano riferisce al Questore in merito alla telefonata e riceve il benestare a trattare con lo sconosciuto.
Pasquale Juliano (ex questore): «Il Questore mi ordinò di dire allo sconosciuto che, se le informazioni in suo possesso fossero state utili, gli avremmo dato un premio in denaro e così, quando l’uomo richiamò, gli spiegai che prima avremmo verificato le sue dichiarazioni e che, solamente dopo, gli sarebbe stata corrisposta una ricompensa.»
Dall’altro capo del filo lo sconosciuto accetta e, finalmente, i due uomini si incontrano in Questura, nell’ufficio di Juliano, che rimane stupito di trovarsi dinanzi il giovane Nicolò Pezzato, una vecchia conoscenza della Polizia legata alla criminalità comune.
Pasquale Juliano (ex questore): «Quando mi trovai di fronte Pezzato, mi chiese subito se volessi sapere delle bombe. Gli chiesi, a mia volta, di quali bombe parlasse e lui accennò a quelle esplose alle sedi dell’MSI e del PSIUP del 29 marzo 1969. In più, fece riferimento ad un attentato dinamitardo alla sede del PCI di Rovigo e ad un altro nei confronti dell’onorevole Franco Franchi, membro dell’MSI di Vicenza. Mi disse che gli attentatori erano personaggi appartenenti alla destra extra-parlamentare che simpatizzavano per il Movimento Sociale. Domandai a Pezzato come facesse a sapere chi fossero gli autori materiali degli attentati e lui rispose che, da qualche tempo, era entrato in contatto con alcuni di loro. Aggiunse inoltre che, se gli avessi concesso un po’ di tempo, avrebbe raccolto molte più informazioni.»
Di fronte a queste parole, Juliano si convince che Nicolò Pezzato sarebbe potuto diventare quella “testa di ponte” che serviva alla Polizia per districarsi nel nugolo di attentati dinamitardi del biennio 1968/1969; senza pensarci due volte, strappa un foglietto dal suo block-notes, ci scrive sopra il suo numero privato di casa – cosa che, fino a quel momento, il commissario si era sempre ben guardato dal fare – e lo consegna a Pezzato dicendogli di utilizzarlo ogni qualvolta ve ne fosse stato il bisogno, perfino di notte.
Gli incontri fra Pezzato e Juliano iniziano così a farsi via via più frequenti e sempre con lo stesso cliché: Pezzato parla di questo o quell’attentato, fa riferimento a date e snocciola nomi su nomi come quelli di Massimiliano Fachini, Domenico Obriedan, Gustavo Bocchini Padiglione, Francesco Petraroli, Giuseppe Brancato.
Ma più Pezzato parla e più Juliano va in confusione: il poliziotto non ha idea di chi siano le persone nominate dall’inaspettato confidente perché queste sono al di fuori della criminalità comune con cui Juliano si è confrontato sino a quel momento. Per cui, durante uno degli incontri, il commissario chiede a Pezzato di fargli uno specchietto riassuntivo nel quale, per ogni attentato, vi fossero elencati i nomi di chi era coinvolto. Il confidente accetta, non prima di aver rammentato a Juliano che la Polizia doveva rispettare la sua parte di accordo e dargli un po’ di denaro.
Quando Juliano consegna a Manganella lo specchietto redatto da Pezzato, il Questore ne rimane talmente colpito che autorizza il commissario a consegnare la somma di 20.000 lire al confidente, con impegno di firma, da parte di quest’ultimo, della ricevuta di avvenuta riscossione. Juliano, bisognoso di supporto per districarsi nel modo della politica extra-parlamentare, ne approfitta per chiedere espressamente a Manganella se fosse possibile coinvolgere il collega Saverio Molino – capo dell’Ufficio Politico – nelle indagini.
Pasquale Juliano (ex questore): «Quando Pezzato mi consegnò lo specchietto che gli chiesi di redigere, lo portai al questore Manganella. Avevo assoluto bisogno di dare un senso a tutti i nomi elencati da Pezzato; perciò, chiesi al Questore di coinvolgere il capo dell’Ufficio Politico affinché mi desse un aiuto a svolgere le indagini e mi permettesse di fare chiarezza sui vari attentati. Il Questore era riluttante e, sulle prime, ribadì la sua volontà riguardo l’esclusiva direzione delle indagini che voleva restasse solo mia evitando che Molino intervenisse (d’altronde lo aveva escluso fin dal principio). Ma poi, vista la mia insistenza affinché cambiasse idea, il dottor Manganella decise di accontentarmi.»
Il coinvolgimento di Molino, però, non si dimostra affatto determinante così come Juliano si aspetta: ogni qualvolta che Juliano lo relaziona in merito alle informazioni ricevute da Pezzato, il capo dell’Ufficio Politico si limita ad ascoltare senza aprir bocca e dare alcuna indicazione. E a Juliano pare molto strano che Molino non dica nulla su nomi che dovrebbe senz’altro conoscere perché direttamente legati all’attentato al PSIUP e all’MSI; nonostante ciò, continua ad indagare sperando in cuor suo che, presto o tardi, Molino si decida a dargli un supporto nel senso compiuto del termine.
Dopo giorni di intenso lavoro anche notturno – nel 1969 la Polizia era ancora un corpo militare in cui non esistevano sindacati ed in cui gli ordini ricevuti non si discutevano – Juliano pretende che, all’ennesimo incontro con Pezzato, partecipino sia il questore Manganella sia il commissario Molino. Durante quest’incontro, Nicolò Pezzato parla di un giovane di Thiene – un piccolo paesino in provincia di Vicenza – che avrebbe custodito l’esplosivo utilizzato per gli attentati. Di quest’uomo, però, Pezzato non conosce il nome ma sa che è il responsabile dei volontari dell’MSI. E, dopo aver ascoltato le dichiarazioni del confidente di Juliano, finalmente Molino apre bocca affermando che le informazioni di Pezzato sono attendibili e che l’indagine sta procedendo nella giusta direzione.
Ma ecco che, ad inizio giugno del 1969, accade qualcosa. D’altronde – lo abbiamo ormai visto più volte – la nostra storia è talmente ricca di colpi di scena che, se fosse un film, lascerebbe gli spettatori incollati alle poltrone e senza fiato.
Per capire di cosa stiamo parlando, dobbiamo andare nell’appartamento buio di Pasquale Juliano: è notte e tutti dormono. Ad un certo punto, il telefono inizia a squillare. Juliano si sveglia con riluttanza perché ha sonno, ma sa che deve comunque rispondere: a quell’ora, infatti, la telefonata poteva giungere solo dalla Questura. Juliano risponde e, sorpreso, sente la voce di Pezzato dall’altro capo del ricevitore.
Pasquale Juliano (ex questore): «Quella notte il telefono squillò. Mi alzai e, cercando di non svegliare moglie e figli, andai a rispondere. Al telefono era Pezzato. Mentalmente maledissi il giorno che gli diedi il mio numero privato di casa, ma ormai la frittata era fatta. Gli chiesi cosa volesse a quell’ora e Pezzato mi disse che dovevamo incontrarci subito perché aveva una cosa importantissima da dirmi. Vista l’ora tarda, risposi che sarebbe stato meglio rimandare l’incontro all’indomani mattina, ma Pezzato insistette affinché ci incontrassimo, quella stessa notte, da lì a mezz’ora.»
I due uomini si incontrano in via Tommaseo, vicino alla chiesa della Pace e poco lontano dalla stazione ferroviaria. E se oggi quel posto è brulicante di gente quando la Fiera di Padova è aperta e per via della presenza di molti negozi e bar, a fine anni Sessanta la zona era poco frequentata e pure poco illuminata. In sintesi, il luogo ideale dove un poliziotto potesse incontrare un confidente.
Quando Juliano arriva, Nicolò Pezzato è già lì che lo aspetta. Il commissario chiede a Pezzato cos’avesse di tanto urgente da dirgli ed il confidente risponde che un suo amico – tale Francesco Tommasoni – doveva assolutamente parlare al commissario in merito agli attentati dinamitardi di quel periodo. Juliano dice a Pezzato che avrebbe incontrato il suo amico e si raccomanda di mandare Tommasoni in Questura il prima possibile. Premesso che la collaborazione di Tommasoni fosse tutt’altro che disinteressata perché era totalmente a scopo di lucro, l’uomo si reca in Questura qualche giorno dopo l’incontro notturno tra Pezzato e Juliano.
Pasquale Juliano (ex questore): «Quando Tommasoni si presentò nel mio ufficio chiedendo denaro in cambio di informazioni, dissi anche a lui che, prima di elargirgli qualsiasi compenso, si sarebbero rese necessarie delle verifiche alle sue dichiarazioni. E così come la cosa aveva già funzionato con Pezzato, funzionò pure con Tommasoni. Mi disse che conosceva un gruppo di persone, molto pericolose, che avevano il loro quartier generale a Padova ma che, per com’era organizzato, poteva operare anche in grandi centri come Milano e Roma. Io risposi che Pezzato mi aveva già riferito di un gruppo del genere, ma Tommasoni replicò dicendomi che le persone cui si riferiva erano altre e non le stesse di cui mi aveva detto Pezzato.»
I nomi che Tommasoni rivelerà a Juliano saranno i nomi che, d’ora in avanti, diverranno il cardine fondamentale della nostra storia sia per il ruolo che rivestiranno, sia per ciò che riguarderà, molto presto, la carriera del commissario stesso: si tratta dell’avvocato padovano Franco Freda, del libraio padovano Giovanni Ventura e di Marco Pozzan, che di professione fa il bidello presso l’istituto per ciechi di Padova “Luigi Configliachi”.

Pasquale Juliano con sua moglie Rosa (fotografia concessa da Antonio Juliano, figlio di Pasquale Juliano)

Pasquale Juliano con la moglie Rosa ed il figlio Antonio (fotografia concessa da Antonio Juliano, figlio di Pasquale Juliano)

Pasquale Juliano con la moglie Rosa ed il figli Guglielmo e Graziano (fotografia concessa da Antonio Juliano, figlio di Pasquale Juliano)

29 settembre 2021

LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA (puntata n° 8)

Sono intanto trascorsi quattro giorni dalla strage di piazza Fontana: è il 16 dicembre 1969 quando Giuseppe Pinelli muore “cadendo” dalla finestra del quarto piano della Questura di Milano mentre diversi anarchici e militanti di sinistra sono detenuti nel carcere di S. Vittore a Milano. Altri, come Roberto Gargamelli e Pietro Valpreda, sono in custodia a Roma, nel carcere di Regina Coeli.
Roberto Gargamelli (fondatore del circolo anarchico “22 marzo”): «Ero a casa coi miei genitori quando arrivarono i Carabinieri. Erano in quattro e, dopo aver effettuato una sommaria perquisizione in casa, senza darmi alcuna spiegazione, mi fermarono portandomi a Regina Coeli. Avevo 19 anni e fu un’esperienza traumatica: mi fecero spogliare e, dopo essere rimasto in mutande e maglietta, mi diedero una casacca di lana grezza accompagnata dalle scarpe di cartone che davano ai detenuti a quei tempi. Mi fecero sedere e mi misero in mano un fascicolo di circa quindici pagine in cui c’era scritta la parola “strage” coi nomi dei morti e dei feriti. In fondo c’era lo spazio per la firma e, quando mi dissero di firmare, chiesi loro se fossero pazzi. Ma non erano pazzi perché, ahimé, gli attentati c’erano stati davvero.»
A riconoscere Gargamelli quale esecutore materiale dell’attentato alla Banca Nazionale del Lavoro di via S. Basilio a Roma, è stato giovane addetto alle pulizie che, guardando le foto segnaletiche mostrategli dalla Polizia, indica senza indugi l’istantanea che mostra il volto dell’anarchico romano.
Roberto Gargamelli (fondatore del circolo anarchico “22 marzo”): «Qualche giorno dopo il mio ingresso in carcere, venni di nuovo interrogato. Il giudice mi disse che un testimone mi aveva visto lasciare la borsa con la bomba alla Banca Nazionale del Lavoro e che – lo lessi nel verbale – era sicuro al novantanove per cento che si trattasse di me. Il giudice mi disse che avrei dovuto sottopormi ad un confronto ed io, non avendo nessun’altra alternativa, acconsentii. Ricordo che, quel giorno, mi misero in mezzo a quattro poliziotti puliti, ben vestiti ed ordinati. Io ero in condizioni pietose come si potrà ben immaginare… Dopo diversi giorni di cella ero sporco e maleodorante perché non mi era stato permesso di lavarmi; sembravo un pulcino bagnato in una gabbia di matti… Il testimone era un ragazzo giovanissimo che poteva avere la mia età e che, quando mi vide, trasalì per lo stato in cui versavo. Non mi riconobbe perché ero completamente diverso dalla persona che aveva visto quel giorno in banca e, per questo motivo, non se la sentì di accusarmi come l’autore di quell’attentato.»
Sebbene Gargamelli venga escluso dalla lista dei colpevoli per gli attentati di Roma, non viene subito rilasciato. Gli inquirenti lo trattengono ulteriormente in custodia per un suo possibile coinvolgimento nella strage di piazza Fontana: il giovane romano avrebbe un rapporto stretto con Pietro Valpreda col quale ha fondato il circolo anarchico “22 marzo” e a cui, quella stessa mattina, il giudice Vittorio Occorsio contesta ufficialmente l’accusa di strage. Gargamelli, quindi, non può assolutamente essere rimesso in libertà perché potrebbe aver aiutato Valpreda a compiere l’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura.
Dal telegiornale del 16 dicembre, tutta l’Italia apprende, per bocca del giovanissimo inviato RAI Bruno Vespa, che Pietro Valpreda è il colpevole della strage di piazza Fontana. Ma perché la Polizia è convinta che Valpreda sia il colpevole degli ignobili attentati di Milano e di Roma? Quali sono gli elementi che inchiodano il ballerino anarchico?
Rodolfo Brancoli (ex giornalista): «Pochi istanti fa è arrivata questa notizia: un anarchico, appartenente al gruppo anarchico “22 marzo” e che si chiama Pietro Valpreda, è stato riconosciuto da un testimone giunto stamani da Milano. Nel corso di un confronto che si è svolto alla presenza del magistrato, è stato incriminato per il reato di concorso in strage. Il suo fermo è stato tramutato in arresto. Chiediamo, intanto, una conferma di questa notizia. Pronto, Vespa?»
Bruno Vespa (giornalista e scrittore): «Sì, sono qui: Pietro Valpreda è un colpevole, uno dei responsabili della strage di Milano e degli attentati di Roma. La conferma è arrivata un momento fa qui, nella Questura di Roma. Dottor Parlato, come siete arrivati ad una così rapida identificazione dei responsabili?»
Giuseppe Parlato (ex prefetto): «Attraverso un lavoro molto intenso che, come lei sa, è stato svolto in questi giorni da tutti i componenti le Questure di Roma e di Milano e dall’Arma dei Carabinieri.»
Bruno Vespa (giornalista e scrittore): «Voi avete avuto subito i primi indizi?»
Giuseppe Parlato (ex prefetto): «Sì, li abbiamo avuti, direi, dopo qualche ora quando si è cominciata a delineare un po’ più chiaramente la situazione e l’Ufficio Politico ha portato ad individuare gli elementi che potevano ritenersi responsabili degli attentati criminosi come quelli che si sono verificati.»
Bruno Vespa (giornalista e scrittore): «Ricordo bene quei giorni perché per me fu un’esperienza umana e professionale indimenticabile. Feci una gaffe colossale: parlai di Valpreda come del colpevole della strage di piazza Fontana anche se, in quel momento, l’uomo era sì fortemente indagato, ma non condannato in via definitiva e, per questo, innocente sino a prova contraria. C’è però da dire che, nonostante io avessi l’arroganza tipica di un giovane di 25 anni che voleva fare carriera, tutti i giornali dell’epoca – nessuno escluso – parlavano di Valpreda etichettandolo coi termini più disparati di cui il migliore era “mostro”. Ricordo che, dopo la prima tranche del collegamento col telegiornale, se non sbaglio, ricevetti la notizia dell’arresto di Valpreda dal direttore stesso del TG che era collegato con noi in bassa frequenza (la sua voce era udibile nella stanza dove ci trovavamo ma non veniva trasmessa in onda). La cosa quasi buffa, in quella che era a tutti gli effetti una tragedia, fu che il direttore ci intimò di non dire, nel modo più assoluto, che Valpreda facesse il ballerino di professione. Era stato infatti scritturato dalla RAI per una serie di spettacoli e, se fosse saltato fuori che questo ballerino, oltre ad essere anarchico, era pure accusato di essere l’autore materiale della strage di piazza Fontana, la TV pubblica avrebbe chiuso i battenti definitivamente. Ricevuto questo ultimatum da parte del direttore, andai dal questore Parlato – che poi diventò capo della Polizia – e gli dissi che doveva assolutamente confermare la notizia in diretta nazionale dicendo tutto ciò che sapeva. E lui, al microfono, affermò che un tassista, il 12 dicembre 1969, aveva accompagnato una persona, somigliante a Valpreda, nei pressi della Banca Nazionale dell’Agricoltura.»
Il testimone di cui parla il questore Giuseppe Parlato durante il collegamento TV con Bruno Vespa, si chiama Cornelio Rolandi: fa il tassista di professione, ha 47 anni ed è nato nel quartiere di Porta Ticinese a Milano. Vive, con la moglie e il figlio, al dodicesimo piano di un palazzone in via Copernico a Corsico, nell’hinterland milanese.
Rodolfo Brancoli (ex giornalista): «È un tassista – un tassista milanese – che si chiama Cornelio Rolandi e si è fatto avanti ieri mattina prima – è giusto sottolinearlo – che si avesse notizia della somma di 50.000.000 di lire messi a disposizione per chi avesse fornito notizie capaci di portare all’identificazione degli attentatori.»
La prima notizia inerente al tassista Rolandi giunge, al 113, la mattina del 15 dicembre: il professor Liliano Paolucci – direttore generale del patronato scolastico di Milano – telefona alla centrale operativa della Questura dicendo di essere salito in mattinata su di un taxi il cui conducente, a suo dire, avrebbe trasportato l’attentatore di piazza Fontana nel tardo pomeriggio del 12 dicembre.
Liliano Paolucci (ex professore): «La mattina del 15 dicembre salii su un taxi. Il taxi, come seppi poi, era quello di Cornelio Rolandi. Il conducente era molto agitato e sbagliò strada più volte. Gli chiesi perché non facesse più attenzione e perché fosse così distratto. Rolandi non sì fece pregare per rivelare “quello che si sentiva dentro”. Raccontò di essere stato proprio lui a portare in piazza Fontana, davanti alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, quello che aveva messo la bomba. Io dissi al tassista che era suo dovere raccontare alla Polizia quanto sapeva. Lui mi sembrò titubante; cosicché, quando scesi, annotai il numero della vettura – che era 3444 – e chiamai il 113 riferendo quanto avevo appreso.»
Il giorno della strage di piazza Fontana, Rolandi è di turno. Fermo in piazza Beccaria in attesa di clienti, da dentro il taxi Rolandi guarda in direzione dell’Hotel Ambasciatori quando scorge un tizio che, dalla Galleria del Corso, si dirige verso la piazzola dei taxi. L’uomo indossa un cappotto scuro col bavero alzato e, in mano, regge una borsa nera. Alle 16:12, l’uomo si infila rapidissimo nella FIAT 600 Multipla di Rolandi ed ordina al tassista di portarlo in via Albricci passando, però, da via S. Tecla.
Rolandi sa che il percorso da piazza Beccaria a via Albricci è di per sé abbastanza breve: lungo circa settecento metri, a piedi si percorre in circa quindici minuti e si snoda tra via Beccaria, piazza Fontana, via S. Clemente e via Larga. L’uomo salito sul taxi potrebbe andare tranquillamente a piedi passeggiando per il centro illuminato a festa, ma quella persona insiste affinché Rolandi lo accompagni col taxi. È molto strano, quell’uomo, e Rolandi, oltre a dirlo agli inquirenti la mattina del 15 dicembre, lo racconterà nell’intervista che rilascerà, nel gennaio del 1970, al giornalista Giampaolo Pansa. 
Cornelio Rolandi (ex tassista): «Quando quell’uomo entrò nel taxi, ebbi modo di guardarlo molto bene, dato che il suo viso si trovava a poche decine di centimetri di distanza dal mio. E, anche se quel tizio era di poche parole ed aveva qualcosa di strano, aveva comunque un viso normale, come quello di tanti clienti che salivano, di solito, sul mio taxi. Mi disse che doveva andare in via Albricci e che avrei dovuto passare per via S. Tecla, una traversa di via S. Clemente. Non capii questo giro perché era insolito: per andare in via Albricci, era molto più comodo proseguire fino in fondo a via S. Clemente e svoltare, poi, a destra in via Larga. Ricordo che, non appena imboccai via S. Tecla, quell’uomo mi disse di fermarmi perché doveva scendere. Dopo essere sceso, richiuse la portiera del taxi sbattendola molto forte; la cosa mi dette fastidio perché, anche se la mia 600 era vecchia, la mantenevo in condizioni decorose e mi infastidiva molto che i clienti la trattassero come un rottame. Dopo quattro o cinque minuti il tizio tornò è lo accompagnai all’angolo tra via Larga e via Albricci. Fu nel momento in cui scese che notai che l’uomo non aveva più la borsa nera con sé.»
Pochi minuti dopo che l’uomo scende dal taxi di Rolandi, in piazza Fontana scoppia la bomba e si compie l’orribile strage di innocenti che ha scioccato l’Italia intera. Rolandi, incredulo, si rende conto di quanto sia stato fortunato per essere passato nei pressi della banca pochi istanti prima dell’esplosione ed essersi salvato. Ma la sera successiva, il dettaglio della borsa scomparsa inizia a farsi strada nella sua testa: in TV continuano a susseguirsi gli aggiornamenti sulla strage di piazza Fontana e scorrono le immagini della Mosbach-Gruber rinvenuta alla Banca Commerciale di piazza della Scala prima che venga fatta esplodere.
Cornelio Rolandi (ex tassista): «Più guardavo in TV le immagini della borsa – o valigetta che fosse – più sembrava essere quella appartenente al tizio del taxi. E se fosse stato davvero lui a mettere la bomba in piazza Fontana?! Mia moglie continuava a ripetermi che, quasi certamente, non era stato quell’uomo a far saltare in aria la banca. Il mio cervello, però, continuava a lavorare e a macinare: vedevo i volti delle vittime della banca e poi vedevo quell’uomo. La notte tra domenica 14 e lunedì 15 mi sentivo male, come un leone in gabbia. Alle 4:30 scoppiai a piangere così forte che svegliai mia moglie e mio figlio; fu lì che decisi che, in mattinata, sarei corso dalla Polizia a raccontare tutto.»
Dopo aver ricevuto la telefonata del professor Paolucci, la centrale operativa avverte immediatamente l’Ufficio Politico riguardo a ciò che il professore aveva raccontato. Gli uomini di Antonino Allegra diramano le ricerche per Cornelio Rolandi il quale, negli stessi istanti, si sta recando spontaneamente dai Carabinieri.
Cornelio Rolandi (ex tassista): «Quando mi alzai, mi recai in via Valpetrosa – non lontano dal Duomo – per andare al Comando dei Carabinieri che ha l’entrata in via Fosse Ardeatine. Appena entrato, brancai il primo militare che mi capitò a tiro e gli dissi: “Devo riferire sull’attentato!” Questo, esclamando “santo Dio!”, iniziò a verbalizzare. Immediatamente mi trasferirono al Comando regionale di via della Moscova dove prima parlai con un capitano e poi con un colonnello. Da qui, andammo in piazza Fontana per un sopralluogo e poi di nuovo alla Moscova per disegnare un identikit. Nel frattempo, mi mostrarono centinaia di fotografie segnaletiche ma non trovai il volto che avevo visto il 12 dicembre. Infine, mi portarono a casa per permettermi di mangiare qualcosa. Alle 19:00 della stessa sera sentii suonare al citofono: era la Polizia che era venuta a prendermi per andare in Questura, in via Fatebenefratelli. Dopo oltre tre ore di anticamera, fui ricevuto dal questore Guida. Sulla sua scrivania c’era l’identikit che i Carabinieri avevano disegnato in mattinata e, dentro un foglio piegato a metà, la foto di un tizio. Il Questore mi mostrò la fotografia e mi chiese: “Rolandi guardi la foto e ci pensi molto bene: è questa la persona che venerdì 12 dicembre ha caricato sul suo taxi?” Io guardai la foto e dissi che, sì, mi sembrava lui, anche se non ne ero certo al cento per cento perché il tizio della fotografia era molto più smagrito ed aveva le guance scavate rispetto alla persona che avevo trasportato. Chiesi al Questore come si chiamasse e il dottor Guida rispose che si chiamava Pietro Valpreda.»
Per compiere rapidi passi in avanti, il Ministero dell’Interno istituisce una ricompensa pari a 50.000.000 di lire – un’enormità per l’epoca – da corrispondere a chi avesse fornito importanti informazioni utili alle indagini. Rolandi, sicuro di aver riconosciuto l’attentatore di piazza Fontana, è convinto che il suo senso civico, oltre ad aiutare la Polizia, lo ricompenserà anche dal punto di vista economico permettendogli, finalmente, di cambiare vita.
Cornelio Rolandi (ex tassista): «Dopo che riconobbi in Valpreda colui che avevo accompagnato in centro quel 12 dicembre, il dottor Guida, dandomi un buffetto sulla guancia, mi disse: “Bravo Rolandi! Ha finito di fare il tassista! Si è sistemato!” Io ero convinto si riferisse alla taglia di 50.000.000 di lire che dovevano dare ai testimoni utili alle indagini ma, di quei soldi, non ricevetti mai nemmeno un centesimo… Anzi: il giorno dopo vennero a prendermi per portarmi a Roma dove, in tribunale, mi misero a confronto con Valpreda per un confronto ufficiale.»
Cornelio Rolandi viene prelevato la mattina del 16 dicembre dal commissario capo Antonino Allegra e da altri membri dell’Ufficio Politico, viene caricato sul primo volo per Roma e portato direttamente in tribunale, nell’ufficio del giudice Vittorio Occorsio.
Quando Rolandi entra nell’ufficio del dottor Occorsio, si trova davanti ad altre cinque persone. Quattro di loro sono poliziotti ben vestiti, puliti, ordinati e ben rasati; il quinto, spettinato e coi vestiti stropicciati da una notte di interrogatorio, è Pietro Valpreda. Il giudice Occorsio chiede a Rolandi di indicargli se, tra i cinque uomini presenti nella stanza, vi fosse la persona che il tassista aveva caricato sul suo taxi nel tardo pomeriggio di venerdì 12 dicembre 1969. Non sarebbe una procedura molto corretta perché Rolandi, avendo già visto la foto di Valpreda il giorno precedente durante l’incontro col questore Guida, potrebbe essere rimasto influenzato. Ma non importa: Rolandi, con sicurezza, indica Valpreda dicendo, in dialetto, milanese, «l’è lü» («è lui»).
Pietro Valpreda (ex ballerino): «Nell’ufficio entrò questo tassista. Mi guardò un attimo e disse: “L’è lü.” Io lo guardai a mia volta e gli domandai: “Oh, ma mi hai guardato bene?!” Rolandi restò lì un attimo e poi rispose: “Beh, se non è lui, qui non c’è.” Chiesi quindi al mio legale – l’avvocato Guido Calvi – che fosse messo a verbale quanto aveva appena detto Rolandi.»
Dal momento in cui è stato riconosciuto, Pietro Valpreda diventa per tutti – stampa ed opinione pubblica – il “mostro”, il “corriere della morte”, la persona che, materialmente, ha messo la bomba sotto al tavolo ottagonale della Banca Nazionale dell’Agricoltura. Viene sbattuto in prima pagina dai giornali e dai telegiornali senza possibilità di appello: l’attentatore di piazza Fontana è lui.
Guido Calvi (ex avvocato): «Quando incontrai per la prima volta Rolandi, mi resi subito conto che era un pover’uomo, una persona alla mercè di tutti. Gli chiesi se, prima del confronto di Roma, avesse visto la fotografia di Pietro Valpreda e lui rispose che sì, non solo l’aveva vista, ma che gli era stato detto che il mio assistito doveva essere la persona da riconoscere. Era evidente che quel confronto, dal punto di vista giudiziario non fosse per nulla probatorio e, per questo, assolutamente nullo.»
È da qui che, per il tassista milanese, inizia il calvario che lo accompagnerà fino alla sua morte: benché in cuor suo fosse convinto di aver agito in buona fede, Rolandi verrà da tutti etichettato come “infame”, “contaballe”, “confidente della Polizia” e “sporco fascista”. Subito dopo piazza Fontana, smetterà di fare il tassista per andare a gestire un chiosco di bibite al parco pubblico di Corsico. Con la reputazione ormai distrutta, la vita di Cornelio Rolandi proseguirà così fino a luglio 1971, quando morirà a causa di un deperimento fisico legato all’ulcera gastrica che, nel frattempo, lo aveva colpito.
Giunti a questo punto della nostra storia, dobbiamo forzatamente fare un bilancio sui tanti colpi di scena cui abbiamo assistito e che ne hanno infittito la trama: la bomba trovata intatta alla Banca Commerciale Italiana di piazza della Scala che viene fatta esplodere senza poterla esaminare, il portiere di un condominio di Padova che muore cadendo nella tromba delle scale mentre stava lavorando, Giuseppe Pinelli che muore precipitando dalla finestra dell’ufficio del commissario Calabresi, Pietro Valpreda che viene riconosciuto da un testimone che sembra essere manovrato da terzi. Oltre a tutto questo, casomai non fosse abbastanza, qualcuno nota che un giornalista del Corriere della Sera – quel Giorgio Zicari che si trovava al palazzo di giustizia di Milano al momento dell’arresto di Valpreda – continua a fornire notizie inedite sulla strage di piazza Fontana quasi avesse una sorta di corsia preferenziale tra gli inquirenti. Sa sempre tutto prima di tutti e il 14 dicembre, addirittura, prima ancora che Cornelio Rolandi si rechi spontaneamente dai Carabinieri, Zicari scrive sul giornale dell’esistenza di un testimone che avrebbe riconosciuto l’attentatore di piazza Fontana.
Cosa sta succedendo nella storia della strage di piazza Fontana? Perché i conti non tornano?
Paolo Silva (figlio di Carlo Silva): «Io e mio fratello Giorgio pensammo, fin da subito, che l’attentato di piazza Fontana non avesse niente a che vedere coi soliti attentati dinamitardi. Ma fu proprio dopo la morte di Pinelli che ci convincemmo che la bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura fosse stata piazzata sotto una precisa regia.»
Ad indirizzare gli inquirenti verso gli anarchici e Pietro Valpreda, oltre alla testimonianza di Cornelio Rolandi, ci sono precise indicazioni di altri due personaggi che compaiono per la prima volta nella nostra storia: uno è il “compagno Andrea” e l’altro è Mario Michele Merlino. Entrambi fanno parte del circolo anarchico “22 marzo” ed entrambi conoscono molto bene sia Pietro Valpreda che le attività del circolo. Il “compagno Andrea” si chiama, in realtà, Salvatore Ippolito ed è un poliziotto infiltrato nel circolo dall’Ufficio Politico della Questura di Roma affinché fornisse alla Polizia una precisa mappatura del circolo dall’interno. Mario Merlino, invece, è un personaggio molto strano: afferma di essere anarchico ed è un assiduo frequentatore del circolo ma, in realtà, è un infiltrato neofascista che riferisce direttamente ai gruppi di Ordine Nuovo di Pino Rauti e di Avanguardia Nazionale di Stefano delle Chiaie. All’epoca dei fatti che stiamo raccontando, Mario Merlino ha 25 anni e. nella primavera del 1968, ha fatto parte di una delegazione, guidata da Pino Rauti, di neofascisti italiani in visita nella Grecia del regime dei Colonnelli.
Luciano Lanza (giornalista e scrittore): «Nel circolo anarchico “22 marzo” si venne a creare una situazione molto particolare: su una decina di componenti effettivi, tre erano infiltrati: Ippolito che era un poliziotto, Mario Merlino che era un neofascista vicino a Stefano Delle Chiaie e, infine, Stefano Serpieri che era un agente infiltrato del SID, il servizio segreto militare. Questa triade, confluita proprio nel circolo di Valpreda e Gargamelli, dà da pensare perché, grazie ad essa, il circolo “22 marzo”, per quanto concerne gli attentati di Roma, diventa il capro espiatorio perfetto… In tutte le manifestazioni cui quel gruppo aveva partecipato, aveva incitato alla violenza ed aveva cercato di scontrarsi con la Polizia. Ed anche se alla fine non aveva fatto nulla di più di ciò che facevano, a quei tempi, tutte le organizzazioni extraparlamentari sia di destra che di sinistra, il circolo anarchico “22 marzo” era diventato l’obiettivo principe a cui imputare la colpa degli attentati dinamitardi del 12 dicembre 1969.»
Paolo Bellucci (ex giornalista): «Pietro Valpreda, denunciato per concorso in strage durante le indagini per gli attentati di Milano e Roma, continua a negare.»
Fin dai primi istanti del suo fermo poi tramutatosi in arresto, Pietro Valpreda non ha mai smesso di proclamarsi innocente. Alla Polizia ha fornito, fin da subito, un alibi ben preciso: quel venerdì 12 dicembre, il ballerino si trovava a casa della prozia, in via Orsini a Milano, ed era a letto con l’influenza. “cinese” che, proprio in quegli stessi giorni, aveva fatto ammalare mezza Italia. La signora Rachele Torri – che avevamo lasciato al palazzo di giustizia di Milano durante il fermo del nipote – conferma quanto dice Valpreda e così fanno pure la madre Ele Lovati, la sorella Maddalena Valpreda e la nonna, Olimpia Torri.
Rachele Torri (prozia di Pietro Valpreda): «Pietro era a letto con la febbre. Bisognava andare a prendere il cappotto che avrebbe usato l’indomani per andare in ordine dal giudice Amati. Bene: ci andai io. Saranno state le 19:00 o le 19,30 e ricordo che salendo sull’autobus della linea E in piazza Giovanni dalle Bande Nere, una signora ha aperto La Notte e ho visto, a grossi caratteri, la parola “morti”. Le chiesi se fosse stato un incidente e lei mi rispose che erano state le bombe. Sono scesa in piazza del Duomo e, passando in via Dogana per prendere il tram 13 per andare in piazzale Corvetto dai genitori di Pietro, mi sono fermata all’edicola e ho comprato La Notte. Giunta da mia nipote, le ho detto che Pietro era arrivato, che stava male e che perciò ero andata io a prendere il cappotto. La sorella di Pietro, la Nena, mi ha raccomandato di farlo mangiare, mi ha dato il cappotto e le scarpe. Allora sono tornata subito a casa, ho detto a Pietro che sua sorella gli raccomandava di mangiare, poi gli ho dato il giornale.»
Ma non c’è nulla da fare: i giudici non credono all’alibi di Valpreda e lo rinviano a giudizio per concorso in strage. Il ballerino anarchico resterà in carcere fino al 1972 quando il Parlamento promulgherà una legge –   la numero 773 del 19 dicembre 1972 nota come “legge Valpreda” – che accorcerà i termini della custodia cautelare anche per i reati gravissimi, compreso quello di strage. Nel 1979, la Corte d’Assise di Catanzaro – sede in cui verrà celebrato il primo processo per la strage di piazza Fontana – assolverà Valpreda per insufficienza di prove: per i giudici, zia Rachele e le altre donne della famiglia hanno raccontato la verità. L’alibi di Valpreda per il giorno della strage regge tanto che l’uomo verrà assolto anche in appello. Nel 1986, il Tribunale di Bari – nel nuovo processo di appello richiesto dalla Cassazione – assolverà Valpreda sempre per insufficienza di prove nonostante per lui fosse stata richiesta l’assoluzione con formula piena. Nel 1987, infine, la Corte di Cassazione, cancellando tutte le condanne e dando, così, un “colpo di spugna” sulla vicenda di piazza Fontana, metterà fine all’odissea giudiziaria di Pietro Valpreda durata ben diciotto anni.

Pietro Valpreda (fotografia reperita su Internet)

Cornelio Rolandi a bordo del suo taxi (fotografia reperita su Internet)

Secondo da sinistra, ecco Pietro Valpreda tra i poliziotti durante il confronto del 16 dicembre 1969 (fotografia reperita su Internet)

Rachele Torri, la prozia di Pietro Valpreda (fotografia reperita su Internet)

Roberto Gargamelli, uno dei fondatori, insieme a Valpreda, del circolo anarchico "22 marzo" (fotografia reperita su Internet)

Mario Michele Merlino, il neofascista infiltrato nel circolo anarchico "22 marzo" di Gargamelli e Valpreda (fotografia reperita su Internet)