31 dicembre 2021

LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA (puntata n° 9)

Se Pietro Valpreda e gli anarchici non hanno nulla a che vedere con gli attentati di Milano e di Roma, chi è stato a portare quella Mosbach-Gruber nera, colma di gelignite, all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana per uccidere, in un batter di ciglia, diciassette persone e ferirne ottantasei?
Nell’opinione pubblica e in molti addetti ai lavori inizia ad insinuarsi il dubbio che, nei fatti di piazza Fontana, siano troppe le cose che non tornino. Alcuni giornalisti – fra loro Camilla Cederna, Corrado Stajano, Giorgio Bocca, Giampaolo Pansa – coordinati dall’avvocato Eduardo Di Giovanni e dal giornalista Marco Ligini (appartenente a Lotta Continua) creano un collettivo di “contro-informazione” che punta a cercare la verità: saranno queste persone che conieranno il termine “strage di Stato”, che diventa anche il titolo del libro che racconta la loro inchiesta.
Giorgio Boatti (giornalista e scrittore): «Il lavoro del gruppo di contro-informazione è stato molto importante per due motivi essenziali: in primo luogo perché è riuscito a fare emergere i piccoli brandelli di verità che venivano adeguatamente nascosti; in secondo luogo, perché ha fornito un modo per interpretarli. In sintesi, la contro-informazione ha dato, all’opinione pubblica, una sorta di “kit interpretativo” che ha aiutato a comprendere cosa stava accadendo sotto gli occhi della nazione intera. Il lavoro del collettivo aiutò a distinguere la verità dalle menzogne e a capire che, quando si parla di stragi come fu quella di piazza Fontana, il potere costituito non è mai neutrale ma diviene parte attiva di tali nefandezze. La contro-informazione aiutò ad identificare il buono dal meno buono e dal cattivo e, non per ultimo, aiutò a constatare come, nel fenomeno stragista che iniziò con l’attentato alla Banca dell’Agricoltura, vi fosse sempre lo stesso modus operandi che si ripeteva all’infinito. Ecco: questo sparuto gruppo di giornalisti ed avvocati – che io definisco “veri democratici” – fece un lavoro superbo nonostante i pochissimi mezzi a disposizione.»
Ad affiancare il collettivo di contro-informazione nella ricerca della verità, ci sono anche poliziotti e magistrati che, da qualche tempo, pensano di aver imboccato la direzione giusta per catturare mandanti ed esecutori della strage. Per capire di cosa stiamo parlando, però, dobbiamo tornare a Ruvo di Puglia, dove avevamo lasciato Pasquale Juliano mentre, sgomento dinanzi al televisore, assiste ai funerali delle vittime della strage di piazza Fontana.
Ma chi è Pasquale Juliano e, soprattutto, cos’ha a che fare con la storia che stiamo raccontando?
Pasquale Juliano nasce il 31 maggio 1932 ad Ostuni, in provincia di Brindisi, da padre napoletano e madre pugliese. Dopo la maturità classica, si iscrive all’università di Bari dove, nel 1956, si laurea in giurisprudenza. Intrapresa la carriera forense, il giovane Juliano inizia a lavorare come procuratore legale in attesa trascorrano i sei anni necessari a diventare avvocato. Giunto a metà percorso – siamo nel 1959 – Pasquale conosce Rosa, se ne innamora e la sposa in quello stesso anno. Il matrimonio con la sua amata cambia totalmente i piani del futuro avvocato: la paga che percepisce come procuratore legale non basta a mantenerli entrambi – a quei tempi un procuratore aveva un salario pari alla metà di quello di un avvocato e, a livello operativo, poteva patrocinare solo alcune cause – per cui Pasquale deve trovare un’alternativa che gli permetta di lavorare subito a stipendio pieno. Così decide, sempre nel 1959, di partecipare a diversi concorsi pubblici, finendo per vincere quello di vice commissario nelle Guardie di Pubblica Sicurezza. Col grado di vice commissario aggiunto, il primo incarico di Juliano è presso la Questura di Matera. È qui che, nel 1960, Rosa e Pasquale hanno Guglielmo, il loro primo figlio. Per i novelli genitori, Matera sembra la città ideale per mettere le radici: è piccola, è a misura d’uomo ed ha un bassissimo tasso delinquenziale. Ma solo dopo due anni di permanenza nella città lucana, Juliano viene trasferito a Novara dove, col grado di commissario e grazie alle sue capacità di acuto osservatore e fine investigatore, diventa capo della Squadra Mobile. Resta nella città piemontese fino al 1966; nel frattempo, la famiglia di Pasquale e Rosa si allarga con l’arrivo, nel 1963, del secondogenito Antonio. Nel 1972, infine, la nascita di Graziano – il terzo maschietto di casa – allieterà la vita della famiglia Juliano. In questi anni, Pasquale lavora sodo e si fa sempre più apprezzare sia dai suoi superiori sia dagli uomini sotto il suo comando: il commissario è zelante ed attento ma, soprattutto, utilizza metodi di indagine ancora pressoché sconosciuti nel lavoro di polizia. Ecco perché, ad un certo punto, nel 1966 verrà trasferito a Padova dove, sempre come capo della Squadra Mobile, inizierà le indagini che si riveleranno cruciali per la nostra storia.
Padova, in quegli anni, nonostante fosse una città apparentemente tranquilla, è in realtà molto difficile poiché molto attiva dal punto di vista politico, con particolare menzione all’eversione di destra. E, quando Juliano vi giunge, le bombe esplodono già da un po’: è il 30 aprile 1968 quando il primo ordigno scoppia di fronte alla casa del questore Ferruccio Allitto Bonanno, funzionario che, nel 1972, ritroveremo a capo della Questura di Milano quando verrà ucciso il commissario Calabresi.
Il flusso di esplosioni nel 1968 sembra non avere fine: il 2 luglio una bomba esplode nei pressi del Liceo Classico “Tito Livio” e, il 16 ottobre, ne scoppia un’altra all’ingresso dell’università. L’anno successivo non è da meno: il 26 gennaio 1969 una bomba esplode vicino al palazzo di giustizia; il 5 febbraio, un’altra fa saltare in aria l’entrata del Gazzettino e, il 29 marzo, diverse bombe molotov vengono lanciate contro le sedi del Movimento Sociale Italiano e del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria. Ma è il 15 aprile 1969 che i “bombaroli” danno il meglio di loro stessi: oltre ad un attacco alla sede del Partito Comunista Italiano, una bomba viene piazzata nello studio di Enrico Giuseppe Opocher, filosofo e magnifico rettore dell’Università degli Studi di Padova.
A base di nitrato di potassio, zolfo, carbone, polvere di alluminio e magnesio, l’ordigno viene posto, sotto mentite spoglie, su uno degli scaffali della libreria del rettorato ed esplode poco prima delle 23:00 di quella stessa sera, quando l’università è chiusa e gli uffici sono deserti. I danni provocati dall’esplosione sono ingenti: libri, suppellettili e parte del mobilio vanno a fuoco così come vanno in frantumi i vetri ed il vasellame. Porte ed infissi vengono scardinati e le pareti vengono investite, a mezz’aria, da una pioggia di schegge che l’energia dell’esplosione dissemina in giro come fossero proiettili. Segni evidenti dell’esplosione sono, inoltre, ben visibili nei locali adiacenti all’ufficio di Opocher. Dalle perizie effettuate nello studio del rettore, gli esperti della Scientifica confermeranno che la bomba era confezionata in un contenitore metallico posto all’interno di una borsa di plastica completa di manico e fibbia. Lo stesso rettore, interrogato nei giorni successivi, dirà agli inquirenti che, senza alcun dubbio, l’attentato di cui era stato vittima aveva una matrice neofascista.
Pasquale Juliano inizia le indagini sugli attentati dinamitardi il 16 aprile 1969, il giorno dopo lo scoppio della bomba nell’ufficio del rettore Opocher: è lo stesso questore di Padova – il dottor Federico Manganella – che, deluso dai risultati ottenuti dal suo Ufficio Politico, decide di affidare l’inchiesta al giovane commissario. Il ragionamento del Questore è molto semplice e lineare: acclarata la matrice politica degli attentati che in tutte le questure d’Italia apparteneva, per competenza, all’Ufficio Politico, secondo Manganella era impossibile che si colpissero indiscriminatamente gli obiettivi più disparati – e fra questi le sedi di partiti politici sia di destra che di sinistra – senza che l’Ufficio Politico, a parte i sospetti sui soliti anarchici e sui membri della sinistra extra-parlamentare, riuscisse a trovare altre piste su cui lavorare. Meglio, quindi, affidare le indagini a gente nuova che vedesse le cose con occhi diversi e che, magari, giungesse in breve tempo a qualche risultato degno di nota.
Il commissario Juliano si mette subito al lavoro relazionando, quotidianamente, sia il Questore sia la Procura della Repubblica: inizia a girare per la città e a sentire i suoi confidenti. Prende informazioni dalle persone che pensa possano sapere qualcosa ed inizia ad effettuare accertamenti e perquisizioni.
Il primo frutto del lavoro del commissario Juliano giunge inaspettato una ventina di giorni dopo l’attentato al rettore Opocher: alla sala operativa della Questura di Padova, arriva la telefonata di un uomo che vuole restare anonimo, che afferma di avere informazioni sugli attentati di quel periodo e che chiede espressamente di voler parlare con Pasquale Juliano.
Pasquale Juliano (ex questore): «Ero nel mio ufficio quando, dal centralino, mi passarono una telefonata. Quando risposi, un uomo mi chiese se fossi il commissario Juliano. Alla mia riposta affermativa, l’uomo mi disse di avere informazioni sugli attentati dinamitardi che avevano colpito Padova a partire dalla primavera del 1968. Aggiunse che, per parlare, voleva 5.000.000 di lire e che, solo dopo aver ricevuto tale compenso, mi avrebbe svelato la sua identità ed i fatti che voleva raccontarmi. Gli risposi che si trattava di tanti soldi e che non era una cosa per la quale avrei potuto decidere io liberamente. L’uomo mi invitò a parlarne coi miei superiori e si congedò dicendomi che, da lì a qualche giorno, mi avrebbe richiamato per sapere cos’avevamo deciso.”
Al commissario Juliano quella telefonata appare come un’oasi nel deserto: non gli sembra vero di aver trovato la direzione giusta da imboccare, visto che era trascorso ormai parecchio tempo dall’inizio degli attentati e la Polizia non aveva ancora individuato nessun attentatore. Quel giorno stesso, Juliano riferisce al Questore in merito alla telefonata e riceve il benestare a trattare con lo sconosciuto.
Pasquale Juliano (ex questore): «Il Questore mi ordinò di dire allo sconosciuto che, se le informazioni in suo possesso fossero state utili, gli avremmo dato un premio in denaro e così, quando l’uomo richiamò, gli spiegai che prima avremmo verificato le sue dichiarazioni e che, solamente dopo, gli sarebbe stata corrisposta una ricompensa.»
Dall’altro capo del filo lo sconosciuto accetta e, finalmente, i due uomini si incontrano in Questura, nell’ufficio di Juliano, che rimane stupito di trovarsi dinanzi il giovane Nicolò Pezzato, una vecchia conoscenza della Polizia legata alla criminalità comune.
Pasquale Juliano (ex questore): «Quando mi trovai di fronte Pezzato, mi chiese subito se volessi sapere delle bombe. Gli chiesi, a mia volta, di quali bombe parlasse e lui accennò a quelle esplose alle sedi dell’MSI e del PSIUP del 29 marzo 1969. In più, fece riferimento ad un attentato dinamitardo alla sede del PCI di Rovigo e ad un altro nei confronti dell’onorevole Franco Franchi, membro dell’MSI di Vicenza. Mi disse che gli attentatori erano personaggi appartenenti alla destra extra-parlamentare che simpatizzavano per il Movimento Sociale. Domandai a Pezzato come facesse a sapere chi fossero gli autori materiali degli attentati e lui rispose che, da qualche tempo, era entrato in contatto con alcuni di loro. Aggiunse inoltre che, se gli avessi concesso un po’ di tempo, avrebbe raccolto molte più informazioni.»
Di fronte a queste parole, Juliano si convince che Nicolò Pezzato sarebbe potuto diventare quella “testa di ponte” che serviva alla Polizia per districarsi nel nugolo di attentati dinamitardi del biennio 1968/1969; senza pensarci due volte, strappa un foglietto dal suo block-notes, ci scrive sopra il suo numero privato di casa – cosa che, fino a quel momento, il commissario si era sempre ben guardato dal fare – e lo consegna a Pezzato dicendogli di utilizzarlo ogni qualvolta ve ne fosse stato il bisogno, perfino di notte.
Gli incontri fra Pezzato e Juliano iniziano così a farsi via via più frequenti e sempre con lo stesso cliché: Pezzato parla di questo o quell’attentato, fa riferimento a date e snocciola nomi su nomi come quelli di Massimiliano Fachini, Domenico Obriedan, Gustavo Bocchini Padiglione, Francesco Petraroli, Giuseppe Brancato.
Ma più Pezzato parla e più Juliano va in confusione: il poliziotto non ha idea di chi siano le persone nominate dall’inaspettato confidente perché queste sono al di fuori della criminalità comune con cui Juliano si è confrontato sino a quel momento. Per cui, durante uno degli incontri, il commissario chiede a Pezzato di fargli uno specchietto riassuntivo nel quale, per ogni attentato, vi fossero elencati i nomi di chi era coinvolto. Il confidente accetta, non prima di aver rammentato a Juliano che la Polizia doveva rispettare la sua parte di accordo e dargli un po’ di denaro.
Quando Juliano consegna a Manganella lo specchietto redatto da Pezzato, il Questore ne rimane talmente colpito che autorizza il commissario a consegnare la somma di 20.000 lire al confidente, con impegno di firma, da parte di quest’ultimo, della ricevuta di avvenuta riscossione. Juliano, bisognoso di supporto per districarsi nel modo della politica extra-parlamentare, ne approfitta per chiedere espressamente a Manganella se fosse possibile coinvolgere il collega Saverio Molino – capo dell’Ufficio Politico – nelle indagini.
Pasquale Juliano (ex questore): «Quando Pezzato mi consegnò lo specchietto che gli chiesi di redigere, lo portai al questore Manganella. Avevo assoluto bisogno di dare un senso a tutti i nomi elencati da Pezzato; perciò, chiesi al Questore di coinvolgere il capo dell’Ufficio Politico affinché mi desse un aiuto a svolgere le indagini e mi permettesse di fare chiarezza sui vari attentati. Il Questore era riluttante e, sulle prime, ribadì la sua volontà riguardo l’esclusiva direzione delle indagini che voleva restasse solo mia evitando che Molino intervenisse (d’altronde lo aveva escluso fin dal principio). Ma poi, vista la mia insistenza affinché cambiasse idea, il dottor Manganella decise di accontentarmi.»
Il coinvolgimento di Molino, però, non si dimostra affatto determinante così come Juliano si aspetta: ogni qualvolta che Juliano lo relaziona in merito alle informazioni ricevute da Pezzato, il capo dell’Ufficio Politico si limita ad ascoltare senza aprir bocca e dare alcuna indicazione. E a Juliano pare molto strano che Molino non dica nulla su nomi che dovrebbe senz’altro conoscere perché direttamente legati all’attentato al PSIUP e all’MSI; nonostante ciò, continua ad indagare sperando in cuor suo che, presto o tardi, Molino si decida a dargli un supporto nel senso compiuto del termine.
Dopo giorni di intenso lavoro anche notturno – nel 1969 la Polizia era ancora un corpo militare in cui non esistevano sindacati ed in cui gli ordini ricevuti non si discutevano – Juliano pretende che, all’ennesimo incontro con Pezzato, partecipino sia il questore Manganella sia il commissario Molino. Durante quest’incontro, Nicolò Pezzato parla di un giovane di Thiene – un piccolo paesino in provincia di Vicenza – che avrebbe custodito l’esplosivo utilizzato per gli attentati. Di quest’uomo, però, Pezzato non conosce il nome ma sa che è il responsabile dei volontari dell’MSI. E, dopo aver ascoltato le dichiarazioni del confidente di Juliano, finalmente Molino apre bocca affermando che le informazioni di Pezzato sono attendibili e che l’indagine sta procedendo nella giusta direzione.
Ma ecco che, ad inizio giugno del 1969, accade qualcosa. D’altronde – lo abbiamo ormai visto più volte – la nostra storia è talmente ricca di colpi di scena che, se fosse un film, lascerebbe gli spettatori incollati alle poltrone e senza fiato.
Per capire di cosa stiamo parlando, dobbiamo andare nell’appartamento buio di Pasquale Juliano: è notte e tutti dormono. Ad un certo punto, il telefono inizia a squillare. Juliano si sveglia con riluttanza perché ha sonno, ma sa che deve comunque rispondere: a quell’ora, infatti, la telefonata poteva giungere solo dalla Questura. Juliano risponde e, sorpreso, sente la voce di Pezzato dall’altro capo del ricevitore.
Pasquale Juliano (ex questore): «Quella notte il telefono squillò. Mi alzai e, cercando di non svegliare moglie e figli, andai a rispondere. Al telefono era Pezzato. Mentalmente maledissi il giorno che gli diedi il mio numero privato di casa, ma ormai la frittata era fatta. Gli chiesi cosa volesse a quell’ora e Pezzato mi disse che dovevamo incontrarci subito perché aveva una cosa importantissima da dirmi. Vista l’ora tarda, risposi che sarebbe stato meglio rimandare l’incontro all’indomani mattina, ma Pezzato insistette affinché ci incontrassimo, quella stessa notte, da lì a mezz’ora.»
I due uomini si incontrano in via Tommaseo, vicino alla chiesa della Pace e poco lontano dalla stazione ferroviaria. E se oggi quel posto è brulicante di gente quando la Fiera di Padova è aperta e per via della presenza di molti negozi e bar, a fine anni Sessanta la zona era poco frequentata e pure poco illuminata. In sintesi, il luogo ideale dove un poliziotto potesse incontrare un confidente.
Quando Juliano arriva, Nicolò Pezzato è già lì che lo aspetta. Il commissario chiede a Pezzato cos’avesse di tanto urgente da dirgli ed il confidente risponde che un suo amico – tale Francesco Tommasoni – doveva assolutamente parlare al commissario in merito agli attentati dinamitardi di quel periodo. Juliano dice a Pezzato che avrebbe incontrato il suo amico e si raccomanda di mandare Tommasoni in Questura il prima possibile. Premesso che la collaborazione di Tommasoni fosse tutt’altro che disinteressata perché era totalmente a scopo di lucro, l’uomo si reca in Questura qualche giorno dopo l’incontro notturno tra Pezzato e Juliano.
Pasquale Juliano (ex questore): «Quando Tommasoni si presentò nel mio ufficio chiedendo denaro in cambio di informazioni, dissi anche a lui che, prima di elargirgli qualsiasi compenso, si sarebbero rese necessarie delle verifiche alle sue dichiarazioni. E così come la cosa aveva già funzionato con Pezzato, funzionò pure con Tommasoni. Mi disse che conosceva un gruppo di persone, molto pericolose, che avevano il loro quartier generale a Padova ma che, per com’era organizzato, poteva operare anche in grandi centri come Milano e Roma. Io risposi che Pezzato mi aveva già riferito di un gruppo del genere, ma Tommasoni replicò dicendomi che le persone cui si riferiva erano altre e non le stesse di cui mi aveva detto Pezzato.»
I nomi che Tommasoni rivelerà a Juliano saranno i nomi che, d’ora in avanti, diverranno il cardine fondamentale della nostra storia sia per il ruolo che rivestiranno, sia per ciò che riguarderà, molto presto, la carriera del commissario stesso: si tratta dell’avvocato padovano Franco Freda, del libraio padovano Giovanni Ventura e di Marco Pozzan, che di professione fa il bidello presso l’istituto per ciechi di Padova “Luigi Configliachi”.

Pasquale Juliano con sua moglie Rosa (fotografia concessa da Antonio Juliano, figlio di Pasquale Juliano)

Pasquale Juliano con la moglie Rosa ed il figlio Antonio (fotografia concessa da Antonio Juliano, figlio di Pasquale Juliano)

Pasquale Juliano con la moglie Rosa ed il figli Guglielmo e Graziano (fotografia concessa da Antonio Juliano, figlio di Pasquale Juliano)

29 settembre 2021

LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA (puntata n° 8)

Sono intanto trascorsi quattro giorni dalla strage di piazza Fontana: è il 16 dicembre 1969 quando Giuseppe Pinelli muore “cadendo” dalla finestra del quarto piano della Questura di Milano mentre diversi anarchici e militanti di sinistra sono detenuti nel carcere di S. Vittore a Milano. Altri, come Roberto Gargamelli e Pietro Valpreda, sono in custodia a Roma, nel carcere di Regina Coeli.
Roberto Gargamelli (fondatore del circolo anarchico “22 marzo”): «Ero a casa coi miei genitori quando arrivarono i Carabinieri. Erano in quattro e, dopo aver effettuato una sommaria perquisizione in casa, senza darmi alcuna spiegazione, mi fermarono portandomi a Regina Coeli. Avevo 19 anni e fu un’esperienza traumatica: mi fecero spogliare e, dopo essere rimasto in mutande e maglietta, mi diedero una casacca di lana grezza accompagnata dalle scarpe di cartone che davano ai detenuti a quei tempi. Mi fecero sedere e mi misero in mano un fascicolo di circa quindici pagine in cui c’era scritta la parola “strage” coi nomi dei morti e dei feriti. In fondo c’era lo spazio per la firma e, quando mi dissero di firmare, chiesi loro se fossero pazzi. Ma non erano pazzi perché, ahimé, gli attentati c’erano stati davvero.»
A riconoscere Gargamelli quale esecutore materiale dell’attentato alla Banca Nazionale del Lavoro di via S. Basilio a Roma, è stato giovane addetto alle pulizie che, guardando le foto segnaletiche mostrategli dalla Polizia, indica senza indugi l’istantanea che mostra il volto dell’anarchico romano.
Roberto Gargamelli (fondatore del circolo anarchico “22 marzo”): «Qualche giorno dopo il mio ingresso in carcere, venni di nuovo interrogato. Il giudice mi disse che un testimone mi aveva visto lasciare la borsa con la bomba alla Banca Nazionale del Lavoro e che – lo lessi nel verbale – era sicuro al novantanove per cento che si trattasse di me. Il giudice mi disse che avrei dovuto sottopormi ad un confronto ed io, non avendo nessun’altra alternativa, acconsentii. Ricordo che, quel giorno, mi misero in mezzo a quattro poliziotti puliti, ben vestiti ed ordinati. Io ero in condizioni pietose come si potrà ben immaginare… Dopo diversi giorni di cella ero sporco e maleodorante perché non mi era stato permesso di lavarmi; sembravo un pulcino bagnato in una gabbia di matti… Il testimone era un ragazzo giovanissimo che poteva avere la mia età e che, quando mi vide, trasalì per lo stato in cui versavo. Non mi riconobbe perché ero completamente diverso dalla persona che aveva visto quel giorno in banca e, per questo motivo, non se la sentì di accusarmi come l’autore di quell’attentato.»
Sebbene Gargamelli venga escluso dalla lista dei colpevoli per gli attentati di Roma, non viene subito rilasciato. Gli inquirenti lo trattengono ulteriormente in custodia per un suo possibile coinvolgimento nella strage di piazza Fontana: il giovane romano avrebbe un rapporto stretto con Pietro Valpreda col quale ha fondato il circolo anarchico “22 marzo” e a cui, quella stessa mattina, il giudice Vittorio Occorsio contesta ufficialmente l’accusa di strage. Gargamelli, quindi, non può assolutamente essere rimesso in libertà perché potrebbe aver aiutato Valpreda a compiere l’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura.
Dal telegiornale del 16 dicembre, tutta l’Italia apprende, per bocca del giovanissimo inviato RAI Bruno Vespa, che Pietro Valpreda è il colpevole della strage di piazza Fontana. Ma perché la Polizia è convinta che Valpreda sia il colpevole degli ignobili attentati di Milano e di Roma? Quali sono gli elementi che inchiodano il ballerino anarchico?
Rodolfo Brancoli (ex giornalista): «Pochi istanti fa è arrivata questa notizia: un anarchico, appartenente al gruppo anarchico “22 marzo” e che si chiama Pietro Valpreda, è stato riconosciuto da un testimone giunto stamani da Milano. Nel corso di un confronto che si è svolto alla presenza del magistrato, è stato incriminato per il reato di concorso in strage. Il suo fermo è stato tramutato in arresto. Chiediamo, intanto, una conferma di questa notizia. Pronto, Vespa?»
Bruno Vespa (giornalista e scrittore): «Sì, sono qui: Pietro Valpreda è un colpevole, uno dei responsabili della strage di Milano e degli attentati di Roma. La conferma è arrivata un momento fa qui, nella Questura di Roma. Dottor Parlato, come siete arrivati ad una così rapida identificazione dei responsabili?»
Giuseppe Parlato (ex prefetto): «Attraverso un lavoro molto intenso che, come lei sa, è stato svolto in questi giorni da tutti i componenti le Questure di Roma e di Milano e dall’Arma dei Carabinieri.»
Bruno Vespa (giornalista e scrittore): «Voi avete avuto subito i primi indizi?»
Giuseppe Parlato (ex prefetto): «Sì, li abbiamo avuti, direi, dopo qualche ora quando si è cominciata a delineare un po’ più chiaramente la situazione e l’Ufficio Politico ha portato ad individuare gli elementi che potevano ritenersi responsabili degli attentati criminosi come quelli che si sono verificati.»
Bruno Vespa (giornalista e scrittore): «Ricordo bene quei giorni perché per me fu un’esperienza umana e professionale indimenticabile. Feci una gaffe colossale: parlai di Valpreda come del colpevole della strage di piazza Fontana anche se, in quel momento, l’uomo era sì fortemente indagato, ma non condannato in via definitiva e, per questo, innocente sino a prova contraria. C’è però da dire che, nonostante io avessi l’arroganza tipica di un giovane di 25 anni che voleva fare carriera, tutti i giornali dell’epoca – nessuno escluso – parlavano di Valpreda etichettandolo coi termini più disparati di cui il migliore era “mostro”. Ricordo che, dopo la prima tranche del collegamento col telegiornale, se non sbaglio, ricevetti la notizia dell’arresto di Valpreda dal direttore stesso del TG che era collegato con noi in bassa frequenza (la sua voce era udibile nella stanza dove ci trovavamo ma non veniva trasmessa in onda). La cosa quasi buffa, in quella che era a tutti gli effetti una tragedia, fu che il direttore ci intimò di non dire, nel modo più assoluto, che Valpreda facesse il ballerino di professione. Era stato infatti scritturato dalla RAI per una serie di spettacoli e, se fosse saltato fuori che questo ballerino, oltre ad essere anarchico, era pure accusato di essere l’autore materiale della strage di piazza Fontana, la TV pubblica avrebbe chiuso i battenti definitivamente. Ricevuto questo ultimatum da parte del direttore, andai dal questore Parlato – che poi diventò capo della Polizia – e gli dissi che doveva assolutamente confermare la notizia in diretta nazionale dicendo tutto ciò che sapeva. E lui, al microfono, affermò che un tassista, il 12 dicembre 1969, aveva accompagnato una persona, somigliante a Valpreda, nei pressi della Banca Nazionale dell’Agricoltura.»
Il testimone di cui parla il questore Giuseppe Parlato durante il collegamento TV con Bruno Vespa, si chiama Cornelio Rolandi: fa il tassista di professione, ha 47 anni ed è nato nel quartiere di Porta Ticinese a Milano. Vive, con la moglie e il figlio, al dodicesimo piano di un palazzone in via Copernico a Corsico, nell’hinterland milanese.
Rodolfo Brancoli (ex giornalista): «È un tassista – un tassista milanese – che si chiama Cornelio Rolandi e si è fatto avanti ieri mattina prima – è giusto sottolinearlo – che si avesse notizia della somma di 50.000.000 di lire messi a disposizione per chi avesse fornito notizie capaci di portare all’identificazione degli attentatori.»
La prima notizia inerente al tassista Rolandi giunge, al 113, la mattina del 15 dicembre: il professor Liliano Paolucci – direttore generale del patronato scolastico di Milano – telefona alla centrale operativa della Questura dicendo di essere salito in mattinata su di un taxi il cui conducente, a suo dire, avrebbe trasportato l’attentatore di piazza Fontana nel tardo pomeriggio del 12 dicembre.
Liliano Paolucci (ex professore): «La mattina del 15 dicembre salii su un taxi. Il taxi, come seppi poi, era quello di Cornelio Rolandi. Il conducente era molto agitato e sbagliò strada più volte. Gli chiesi perché non facesse più attenzione e perché fosse così distratto. Rolandi non sì fece pregare per rivelare “quello che si sentiva dentro”. Raccontò di essere stato proprio lui a portare in piazza Fontana, davanti alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, quello che aveva messo la bomba. Io dissi al tassista che era suo dovere raccontare alla Polizia quanto sapeva. Lui mi sembrò titubante; cosicché, quando scesi, annotai il numero della vettura – che era 3444 – e chiamai il 113 riferendo quanto avevo appreso.»
Il giorno della strage di piazza Fontana, Rolandi è di turno. Fermo in piazza Beccaria in attesa di clienti, da dentro il taxi Rolandi guarda in direzione dell’Hotel Ambasciatori quando scorge un tizio che, dalla Galleria del Corso, si dirige verso la piazzola dei taxi. L’uomo indossa un cappotto scuro col bavero alzato e, in mano, regge una borsa nera. Alle 16:12, l’uomo si infila rapidissimo nella FIAT 600 Multipla di Rolandi ed ordina al tassista di portarlo in via Albricci passando, però, da via S. Tecla.
Rolandi sa che il percorso da piazza Beccaria a via Albricci è di per sé abbastanza breve: lungo circa settecento metri, a piedi si percorre in circa quindici minuti e si snoda tra via Beccaria, piazza Fontana, via S. Clemente e via Larga. L’uomo salito sul taxi potrebbe andare tranquillamente a piedi passeggiando per il centro illuminato a festa, ma quella persona insiste affinché Rolandi lo accompagni col taxi. È molto strano, quell’uomo, e Rolandi, oltre a dirlo agli inquirenti la mattina del 15 dicembre, lo racconterà nell’intervista che rilascerà, nel gennaio del 1970, al giornalista Giampaolo Pansa. 
Cornelio Rolandi (ex tassista): «Quando quell’uomo entrò nel taxi, ebbi modo di guardarlo molto bene, dato che il suo viso si trovava a poche decine di centimetri di distanza dal mio. E, anche se quel tizio era di poche parole ed aveva qualcosa di strano, aveva comunque un viso normale, come quello di tanti clienti che salivano, di solito, sul mio taxi. Mi disse che doveva andare in via Albricci e che avrei dovuto passare per via S. Tecla, una traversa di via S. Clemente. Non capii questo giro perché era insolito: per andare in via Albricci, era molto più comodo proseguire fino in fondo a via S. Clemente e svoltare, poi, a destra in via Larga. Ricordo che, non appena imboccai via S. Tecla, quell’uomo mi disse di fermarmi perché doveva scendere. Dopo essere sceso, richiuse la portiera del taxi sbattendola molto forte; la cosa mi dette fastidio perché, anche se la mia 600 era vecchia, la mantenevo in condizioni decorose e mi infastidiva molto che i clienti la trattassero come un rottame. Dopo quattro o cinque minuti il tizio tornò è lo accompagnai all’angolo tra via Larga e via Albricci. Fu nel momento in cui scese che notai che l’uomo non aveva più la borsa nera con sé.»
Pochi minuti dopo che l’uomo scende dal taxi di Rolandi, in piazza Fontana scoppia la bomba e si compie l’orribile strage di innocenti che ha scioccato l’Italia intera. Rolandi, incredulo, si rende conto di quanto sia stato fortunato per essere passato nei pressi della banca pochi istanti prima dell’esplosione ed essersi salvato. Ma la sera successiva, il dettaglio della borsa scomparsa inizia a farsi strada nella sua testa: in TV continuano a susseguirsi gli aggiornamenti sulla strage di piazza Fontana e scorrono le immagini della Mosbach-Gruber rinvenuta alla Banca Commerciale di piazza della Scala prima che venga fatta esplodere.
Cornelio Rolandi (ex tassista): «Più guardavo in TV le immagini della borsa – o valigetta che fosse – più sembrava essere quella appartenente al tizio del taxi. E se fosse stato davvero lui a mettere la bomba in piazza Fontana?! Mia moglie continuava a ripetermi che, quasi certamente, non era stato quell’uomo a far saltare in aria la banca. Il mio cervello, però, continuava a lavorare e a macinare: vedevo i volti delle vittime della banca e poi vedevo quell’uomo. La notte tra domenica 14 e lunedì 15 mi sentivo male, come un leone in gabbia. Alle 4:30 scoppiai a piangere così forte che svegliai mia moglie e mio figlio; fu lì che decisi che, in mattinata, sarei corso dalla Polizia a raccontare tutto.»
Dopo aver ricevuto la telefonata del professor Paolucci, la centrale operativa avverte immediatamente l’Ufficio Politico riguardo a ciò che il professore aveva raccontato. Gli uomini di Antonino Allegra diramano le ricerche per Cornelio Rolandi il quale, negli stessi istanti, si sta recando spontaneamente dai Carabinieri.
Cornelio Rolandi (ex tassista): «Quando mi alzai, mi recai in via Valpetrosa – non lontano dal Duomo – per andare al Comando dei Carabinieri che ha l’entrata in via Fosse Ardeatine. Appena entrato, brancai il primo militare che mi capitò a tiro e gli dissi: “Devo riferire sull’attentato!” Questo, esclamando “santo Dio!”, iniziò a verbalizzare. Immediatamente mi trasferirono al Comando regionale di via della Moscova dove prima parlai con un capitano e poi con un colonnello. Da qui, andammo in piazza Fontana per un sopralluogo e poi di nuovo alla Moscova per disegnare un identikit. Nel frattempo, mi mostrarono centinaia di fotografie segnaletiche ma non trovai il volto che avevo visto il 12 dicembre. Infine, mi portarono a casa per permettermi di mangiare qualcosa. Alle 19:00 della stessa sera sentii suonare al citofono: era la Polizia che era venuta a prendermi per andare in Questura, in via Fatebenefratelli. Dopo oltre tre ore di anticamera, fui ricevuto dal questore Guida. Sulla sua scrivania c’era l’identikit che i Carabinieri avevano disegnato in mattinata e, dentro un foglio piegato a metà, la foto di un tizio. Il Questore mi mostrò la fotografia e mi chiese: “Rolandi guardi la foto e ci pensi molto bene: è questa la persona che venerdì 12 dicembre ha caricato sul suo taxi?” Io guardai la foto e dissi che, sì, mi sembrava lui, anche se non ne ero certo al cento per cento perché il tizio della fotografia era molto più smagrito ed aveva le guance scavate rispetto alla persona che avevo trasportato. Chiesi al Questore come si chiamasse e il dottor Guida rispose che si chiamava Pietro Valpreda.»
Per compiere rapidi passi in avanti, il Ministero dell’Interno istituisce una ricompensa pari a 50.000.000 di lire – un’enormità per l’epoca – da corrispondere a chi avesse fornito importanti informazioni utili alle indagini. Rolandi, sicuro di aver riconosciuto l’attentatore di piazza Fontana, è convinto che il suo senso civico, oltre ad aiutare la Polizia, lo ricompenserà anche dal punto di vista economico permettendogli, finalmente, di cambiare vita.
Cornelio Rolandi (ex tassista): «Dopo che riconobbi in Valpreda colui che avevo accompagnato in centro quel 12 dicembre, il dottor Guida, dandomi un buffetto sulla guancia, mi disse: “Bravo Rolandi! Ha finito di fare il tassista! Si è sistemato!” Io ero convinto si riferisse alla taglia di 50.000.000 di lire che dovevano dare ai testimoni utili alle indagini ma, di quei soldi, non ricevetti mai nemmeno un centesimo… Anzi: il giorno dopo vennero a prendermi per portarmi a Roma dove, in tribunale, mi misero a confronto con Valpreda per un confronto ufficiale.»
Cornelio Rolandi viene prelevato la mattina del 16 dicembre dal commissario capo Antonino Allegra e da altri membri dell’Ufficio Politico, viene caricato sul primo volo per Roma e portato direttamente in tribunale, nell’ufficio del giudice Vittorio Occorsio.
Quando Rolandi entra nell’ufficio del dottor Occorsio, si trova davanti ad altre cinque persone. Quattro di loro sono poliziotti ben vestiti, puliti, ordinati e ben rasati; il quinto, spettinato e coi vestiti stropicciati da una notte di interrogatorio, è Pietro Valpreda. Il giudice Occorsio chiede a Rolandi di indicargli se, tra i cinque uomini presenti nella stanza, vi fosse la persona che il tassista aveva caricato sul suo taxi nel tardo pomeriggio di venerdì 12 dicembre 1969. Non sarebbe una procedura molto corretta perché Rolandi, avendo già visto la foto di Valpreda il giorno precedente durante l’incontro col questore Guida, potrebbe essere rimasto influenzato. Ma non importa: Rolandi, con sicurezza, indica Valpreda dicendo, in dialetto, milanese, «l’è lü» («è lui»).
Pietro Valpreda (ex ballerino): «Nell’ufficio entrò questo tassista. Mi guardò un attimo e disse: “L’è lü.” Io lo guardai a mia volta e gli domandai: “Oh, ma mi hai guardato bene?!” Rolandi restò lì un attimo e poi rispose: “Beh, se non è lui, qui non c’è.” Chiesi quindi al mio legale – l’avvocato Guido Calvi – che fosse messo a verbale quanto aveva appena detto Rolandi.»
Dal momento in cui è stato riconosciuto, Pietro Valpreda diventa per tutti – stampa ed opinione pubblica – il “mostro”, il “corriere della morte”, la persona che, materialmente, ha messo la bomba sotto al tavolo ottagonale della Banca Nazionale dell’Agricoltura. Viene sbattuto in prima pagina dai giornali e dai telegiornali senza possibilità di appello: l’attentatore di piazza Fontana è lui.
Guido Calvi (ex avvocato): «Quando incontrai per la prima volta Rolandi, mi resi subito conto che era un pover’uomo, una persona alla mercè di tutti. Gli chiesi se, prima del confronto di Roma, avesse visto la fotografia di Pietro Valpreda e lui rispose che sì, non solo l’aveva vista, ma che gli era stato detto che il mio assistito doveva essere la persona da riconoscere. Era evidente che quel confronto, dal punto di vista giudiziario non fosse per nulla probatorio e, per questo, assolutamente nullo.»
È da qui che, per il tassista milanese, inizia il calvario che lo accompagnerà fino alla sua morte: benché in cuor suo fosse convinto di aver agito in buona fede, Rolandi verrà da tutti etichettato come “infame”, “contaballe”, “confidente della Polizia” e “sporco fascista”. Subito dopo piazza Fontana, smetterà di fare il tassista per andare a gestire un chiosco di bibite al parco pubblico di Corsico. Con la reputazione ormai distrutta, la vita di Cornelio Rolandi proseguirà così fino a luglio 1971, quando morirà a causa di un deperimento fisico legato all’ulcera gastrica che, nel frattempo, lo aveva colpito.
Giunti a questo punto della nostra storia, dobbiamo forzatamente fare un bilancio sui tanti colpi di scena cui abbiamo assistito e che ne hanno infittito la trama: la bomba trovata intatta alla Banca Commerciale Italiana di piazza della Scala che viene fatta esplodere senza poterla esaminare, il portiere di un condominio di Padova che muore cadendo nella tromba delle scale mentre stava lavorando, Giuseppe Pinelli che muore precipitando dalla finestra dell’ufficio del commissario Calabresi, Pietro Valpreda che viene riconosciuto da un testimone che sembra essere manovrato da terzi. Oltre a tutto questo, casomai non fosse abbastanza, qualcuno nota che un giornalista del Corriere della Sera – quel Giorgio Zicari che si trovava al palazzo di giustizia di Milano al momento dell’arresto di Valpreda – continua a fornire notizie inedite sulla strage di piazza Fontana quasi avesse una sorta di corsia preferenziale tra gli inquirenti. Sa sempre tutto prima di tutti e il 14 dicembre, addirittura, prima ancora che Cornelio Rolandi si rechi spontaneamente dai Carabinieri, Zicari scrive sul giornale dell’esistenza di un testimone che avrebbe riconosciuto l’attentatore di piazza Fontana.
Cosa sta succedendo nella storia della strage di piazza Fontana? Perché i conti non tornano?
Paolo Silva (figlio di Carlo Silva): «Io e mio fratello Giorgio pensammo, fin da subito, che l’attentato di piazza Fontana non avesse niente a che vedere coi soliti attentati dinamitardi. Ma fu proprio dopo la morte di Pinelli che ci convincemmo che la bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura fosse stata piazzata sotto una precisa regia.»
Ad indirizzare gli inquirenti verso gli anarchici e Pietro Valpreda, oltre alla testimonianza di Cornelio Rolandi, ci sono precise indicazioni di altri due personaggi che compaiono per la prima volta nella nostra storia: uno è il “compagno Andrea” e l’altro è Mario Michele Merlino. Entrambi fanno parte del circolo anarchico “22 marzo” ed entrambi conoscono molto bene sia Pietro Valpreda che le attività del circolo. Il “compagno Andrea” si chiama, in realtà, Salvatore Ippolito ed è un poliziotto infiltrato nel circolo dall’Ufficio Politico della Questura di Roma affinché fornisse alla Polizia una precisa mappatura del circolo dall’interno. Mario Merlino, invece, è un personaggio molto strano: afferma di essere anarchico ed è un assiduo frequentatore del circolo ma, in realtà, è un infiltrato neofascista che riferisce direttamente ai gruppi di Ordine Nuovo di Pino Rauti e di Avanguardia Nazionale di Stefano delle Chiaie. All’epoca dei fatti che stiamo raccontando, Mario Merlino ha 25 anni e. nella primavera del 1968, ha fatto parte di una delegazione, guidata da Pino Rauti, di neofascisti italiani in visita nella Grecia del regime dei Colonnelli.
Luciano Lanza (giornalista e scrittore): «Nel circolo anarchico “22 marzo” si venne a creare una situazione molto particolare: su una decina di componenti effettivi, tre erano infiltrati: Ippolito che era un poliziotto, Mario Merlino che era un neofascista vicino a Stefano Delle Chiaie e, infine, Stefano Serpieri che era un agente infiltrato del SID, il servizio segreto militare. Questa triade, confluita proprio nel circolo di Valpreda e Gargamelli, dà da pensare perché, grazie ad essa, il circolo “22 marzo”, per quanto concerne gli attentati di Roma, diventa il capro espiatorio perfetto… In tutte le manifestazioni cui quel gruppo aveva partecipato, aveva incitato alla violenza ed aveva cercato di scontrarsi con la Polizia. Ed anche se alla fine non aveva fatto nulla di più di ciò che facevano, a quei tempi, tutte le organizzazioni extraparlamentari sia di destra che di sinistra, il circolo anarchico “22 marzo” era diventato l’obiettivo principe a cui imputare la colpa degli attentati dinamitardi del 12 dicembre 1969.»
Paolo Bellucci (ex giornalista): «Pietro Valpreda, denunciato per concorso in strage durante le indagini per gli attentati di Milano e Roma, continua a negare.»
Fin dai primi istanti del suo fermo poi tramutatosi in arresto, Pietro Valpreda non ha mai smesso di proclamarsi innocente. Alla Polizia ha fornito, fin da subito, un alibi ben preciso: quel venerdì 12 dicembre, il ballerino si trovava a casa della prozia, in via Orsini a Milano, ed era a letto con l’influenza. “cinese” che, proprio in quegli stessi giorni, aveva fatto ammalare mezza Italia. La signora Rachele Torri – che avevamo lasciato al palazzo di giustizia di Milano durante il fermo del nipote – conferma quanto dice Valpreda e così fanno pure la madre Ele Lovati, la sorella Maddalena Valpreda e la nonna, Olimpia Torri.
Rachele Torri (prozia di Pietro Valpreda): «Pietro era a letto con la febbre. Bisognava andare a prendere il cappotto che avrebbe usato l’indomani per andare in ordine dal giudice Amati. Bene: ci andai io. Saranno state le 19:00 o le 19,30 e ricordo che salendo sull’autobus della linea E in piazza Giovanni dalle Bande Nere, una signora ha aperto La Notte e ho visto, a grossi caratteri, la parola “morti”. Le chiesi se fosse stato un incidente e lei mi rispose che erano state le bombe. Sono scesa in piazza del Duomo e, passando in via Dogana per prendere il tram 13 per andare in piazzale Corvetto dai genitori di Pietro, mi sono fermata all’edicola e ho comprato La Notte. Giunta da mia nipote, le ho detto che Pietro era arrivato, che stava male e che perciò ero andata io a prendere il cappotto. La sorella di Pietro, la Nena, mi ha raccomandato di farlo mangiare, mi ha dato il cappotto e le scarpe. Allora sono tornata subito a casa, ho detto a Pietro che sua sorella gli raccomandava di mangiare, poi gli ho dato il giornale.»
Ma non c’è nulla da fare: i giudici non credono all’alibi di Valpreda e lo rinviano a giudizio per concorso in strage. Il ballerino anarchico resterà in carcere fino al 1972 quando il Parlamento promulgherà una legge –   la numero 773 del 19 dicembre 1972 nota come “legge Valpreda” – che accorcerà i termini della custodia cautelare anche per i reati gravissimi, compreso quello di strage. Nel 1979, la Corte d’Assise di Catanzaro – sede in cui verrà celebrato il primo processo per la strage di piazza Fontana – assolverà Valpreda per insufficienza di prove: per i giudici, zia Rachele e le altre donne della famiglia hanno raccontato la verità. L’alibi di Valpreda per il giorno della strage regge tanto che l’uomo verrà assolto anche in appello. Nel 1986, il Tribunale di Bari – nel nuovo processo di appello richiesto dalla Cassazione – assolverà Valpreda sempre per insufficienza di prove nonostante per lui fosse stata richiesta l’assoluzione con formula piena. Nel 1987, infine, la Corte di Cassazione, cancellando tutte le condanne e dando, così, un “colpo di spugna” sulla vicenda di piazza Fontana, metterà fine all’odissea giudiziaria di Pietro Valpreda durata ben diciotto anni.

Pietro Valpreda (fotografia reperita su Internet)

Cornelio Rolandi a bordo del suo taxi (fotografia reperita su Internet)

Secondo da sinistra, ecco Pietro Valpreda tra i poliziotti durante il confronto del 16 dicembre 1969 (fotografia reperita su Internet)

Rachele Torri, la prozia di Pietro Valpreda (fotografia reperita su Internet)

Roberto Gargamelli, uno dei fondatori, insieme a Valpreda, del circolo anarchico "22 marzo" (fotografia reperita su Internet)

Mario Michele Merlino, il neofascista infiltrato nel circolo anarchico "22 marzo" di Gargamelli e Valpreda (fotografia reperita su Internet)

12 settembre 2021

LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA (puntata n° 7)

Come è morto Giuseppe Pinelli? E com’è stato possibile che un fermato sia precipitato dalla finestra dell’ufficio di una questura in cui si trovava sotto interrogatorio?
Il questore Marcello Guida indice immediatamente una conferenza stampa nella quale affermerà che Pinelli si è suicidato in seguito ai gravi indizi di colpevolezza che la Polizia gli aveva contestato durante l’interrogatorio: il ferroviere, vedendosi con le spalle al muro e senza via di scampo, era corso verso la finestra, l’aveva spalancata e si era lanciato di sotto. Un suicidio in piena regola, secondo Guida.
Dal telegiornale del 16 dicembre 1969: «Giuseppe Pinelli questa notte veniva interrogato in una stanza al quarto piano della Questura. Pinelli era noto per la sua attività anarchica ed il suo fermo era stato convalidato e protratto su disposizione dell’autorità giudiziaria. Durante una breve sosta dell’interrogatorio, si è gettato da una finestra rimasta socchiusa. Nonostante il tentativo di trattenerlo da parte del personale di polizia presente in quel momento – un ufficiale dei Carabinieri e quattro sottufficiali di Pubblica Sicurezza –, Pinelli è precipitato nel vuoto ed è caduto su un’aiuola. Lo hanno trasportato all’ospedale ma le cure dei sanitari sono risultate vane. Lascia la moglie e due figlie.»
Silvia Pinelli (figlia d Giuseppe Pinelli): «Mio padre è sempre stato una persona molto aperta con un enorme bisogno di confrontarsi con gli altri perché, in lui, si era radicato fortemente l’ideale di un mondo senza divisioni né barriere. Quella sera, come spesso accadeva, io e mia sorella Claudia eravamo a giocare con delle vicine di casa e, ad una certa ora, rientrammo a casa facendo le scale di corsa per vedere chi arrivasse prima.»
Claudia Pinelli (figlia di Giuseppe Pinelli): «Arrivate a casa, io e Silvia vedemmo la porta nella nostra piccolissima casa – si trattava di un bilocale nelle case popolari di via Preneste, nel quartiere S. Siro – completamente spalancata. All’interno c’erano diverse persone e, quando feci per avvicinarmi a loro per capire chi fossero, mia madre mi prese per un braccio e mi disse che non potevo avvicinarmi perché in casa nostra c’era la Polizia. Rovesciarono per terra ogni cosa: il contenuto dei cassetti, i libri della libreria, il contenuto dell’unico armadio che avevamo. Aprirono perfino i regali di Natale che i miei genitori avevano nascosto proprio dentro a quell’armadio affinché io e mia sorella non li trovassimo. La mamma ci spiegò che la Polizia si trovava lì perché era scoppiata una bomba dentro una banca e che, per questo fatto, anche nostro padre era stato fermato. Per rassicurarci, la mamma aggiunse che non c’era da preoccuparsi perché, scherzando come lei era solita fare, la Polizia avrebbe fatto prendere a papà un grosso “spaghetto” per poi rimandarlo a casa. È una frase che è rimasta impressa nella mia mente per tutti questi anni e di cui, quella sera, chiesi spiegazione a mia madre perché non capivo cosa intendesse dire. Lo “spaghetto” di cui parlava, non era nient’altro che uno spavento: la Polizia avrebbe fatto spaventare papà e poi lo avrebbe rimandato a casa da noi. Ma invece non fu così.»
Achille Serra (ex prefetto): «In tutto quel ricercare gli anarchici come ci fu ordinato, incappammo in Giuseppe Pinelli che, a quei tempi, era uno dei maggiori rappresentanti del mondo anarchico lombardo. Ciò che accadde quella notte non saprei come spiegarlo, ma vorrei precisare che il commissario Calabresi, al momento della caduta di Pinelli, non si trovava nella stanza poiché convocato dal suo capo.»
Le indagini sulla misteriosa morte di Giuseppe Pinelli vengono affidate al giovane giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio che, molti anni più tardi, farà parte del pool di giudici dell’inchiesta “Mani pulite” sulle tangenti ai partiti politici italiani.
Gerardo D’Ambrosio (ex magistrato): «Lavoravo a Milano già da diversi anni e mi imbattei nell’inchiesta sulla strage di piazza Fontana per puro caso. L’allora procuratore capo di Milano, il dottor Bianchi D’Espinosa – per me uno dei più grandi procuratori d’Italia – mi affidò l’inchiesta sulla morte del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli dopo che la signora Rognini, vedova del Pinelli, con atto formale di denuncia chiese la riapertura delle indagini. Le indagini preliminari si conclusero con un’archiviazione del procedimento da parte della Procura per suicidio. Secondo la tesi sostenuta dalla signora Rognini, nella sentenza di archiviazione del collega Antonio Amati non vi era la minima traccia di qualsiasi reale motivazione che potesse indurre il marito a togliersi la vita. In forza della denuncia della vedova Pinelli, era sacrosanto ed obbligatorio che l’inchiesta venisse riaperta ed io iniziai ad indagare.»
Gerardo D’Ambrosio, classe 1930, nasce a S. Maria a Vico, in provincia di Caserta. Dopo gli studi classici, nel 1952 si laurea in giurisprudenza e diventa procuratore legale. Nel 1957 entra in magistratura e, dopo il primo incarico presso il Tribunale di Nola, transiterà da Voghera per poi approdare a Milano. Nel capoluogo lombardo, per i primi cinque anni riveste l’incarico di pretore e poi diventa giudice istruttore. Per gran parte degli anni Settanta si occuperà dei fatti di piazza Fontana sia con l’inchiesta sulla morte del ferroviere Giuseppe Pinelli sia con l’inchiesta sulla strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura che, dopo essere stata assegnata alla Procura di Roma, ritorna nuovamente in possesso dei magistrati milanesi. Negli anni Ottanta si occupa dell’inchiesta sul fallimento del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e, nel 1992, avrà un ruolo importante nell’inchiesta “Mani pulite” insieme agli allora magistrati del pool Gherardo Colombo, Antonio Di Pietro e Piercamillo Davigo. Nel 1999 sostituisce Francesco Saverio Borrelli alla guida della Procura di Milano ricoprendo la carica di procuratore capo fino al 2002 quando va in pensione. Nel 2003 inizia a collaborare col quotidiano l’Unità e col settimanale Oggi. Nel 2006 inizia la sua avventura politica nelle fila del Partito Democratico venendo eletto dapprima in Lombardia e poi in Senato. Rimarrà in politica fino a febbraio del 2013. Da questa data in avanti, D’Ambrosio si ritirerà a vita privata e di lui non si saprà più nulla fino al 30 marzo 2014, quando, ricoverato da qualche giorno al Policlinico di Milano, morirà a causa di un attacco cardiaco.
Claudia Pinelli (figlia di Giuseppe Pinelli): «All’1:00 circa di quella notte, sentimmo suonare alla nostra porta. Mia madre si diresse verso l’uscio e, aprendone solo un piccolissimo spiraglio, fu accecata dai flash dei fotografi che seguivano i giornalisti. Mia madre venne avvisata dalla stampa che papà si trovava in gravissime condizioni all’ospedale Fatebenefratelli dopo essere caduto da una finestra. Mia madre, immediatamente, afferrò il telefono e chiamò in Questura chiedendo perché non fosse stata avvisata di una cosa gravissima come questa. A risponderle fu direttamente il commissario Calabresi che, dopo averle detto “ma sa signora, avevamo tanto da fare!”, le chiuse il telefono in faccia.»
Licia Rognini (moglie di Giuseppe Pinelli): «Ricevetti una prima telefonata da parte della Questura domenica 14 dicembre, in mattinata. Pensavo fosse Pino ma, invece, era un poliziotto. Mi fu detto di chiamare le Ferrovie dello Stato e dire che mio marito era malato. Alle 14:00 di lunedì 15 dicembre, arrivò un’altra chiamata della Questura in cui mi dissero di comunicare alle Ferrovie che mio marito si trovava in stato di fermo per accertamenti. Alle 22:00, il dottor Calabresi telefonò di persona per chiedermi di cercare il libretto chilometrico di Pino. Dieci minuti più tardi, avendolo trovato, richiamai Calabresi avvisandolo a riguardo e chiedendogli se dovessi portarglielo. Lui rispose che avrebbe mandato qualcuno a prenderlo. Gli chiesi notizie di Pino e lui mi disse che Pino era lì da loro “dove stava molto meglio”. Alle 23:00 un agente venne a ritirare il libretto chilometrico e poi, all’1:00 del 16 dicembre, i giornalisti arrivarono a casa mia dicendomi che Pino era grave.»
Dalle prime risultanze testimoniali dell’inchiesta raccolte immediatamente dopo la morte di Pinelli, sembra non esserci alcun dubbio che il ferroviere abbia deciso di suicidarsi. Tutti i presenti nell’ufficio del commissario Calabresi sono concordi nel dichiarare che, oltre al fatto che il funzionario non fosse lì, che Pinelli si sia buttato di sotto intenzionalmente: il brigadiere Mucilli dice che «Pinelli ha fatto un tuffo oltre la ringhiera», il brigadiere Caracuta che «Pinelli ha fatto un balzo verso la finestra», il brigadiere Mainardi ed il tenente Lograno affermano che «Pinelli è scattato verso la finestra» e il brigadiere Panessa, con maggiore precisione, afferma che «Pinelli ha fatto uno scatto felino verso la finestra».
Ma non è vero niente: durante l’inchiesta del giudice D’Ambrosio, direttamente interrogati, tutti i testi ritratteranno le dichiarazioni iniziali. Non ci furono né lo scatto felino, né il balzo verso la finestra, né il tuffo oltre la ringhiera.
Gli indagati, nelle nuove dichiarazioni che renderanno a D’Ambrosio, diranno che Pinelli, durante una pausa dell’interrogatorio, si avvicinò con calma verso la finestra per fumare una sigaretta. Quando il ferroviere mise la mano tra i battenti socchiusi della finestra, improvvisamente udirono un rumore di anta sbattuta e videro Pinelli cadere di sotto. Di più: nessuno dei presenti nella stanza – compreso il brigadiere Sarti che in quel preciso istante si trovava sull’uscio – vide effettivamente Pinelli cadere, ma solo le gambe ed i piedi dell’uomo che già si trovavano ben oltre la ringhiera.
Nel salone dei fermati al quarto piano della Questura c’è un anarchico che si chiama Pasquale Valitutti il quale, durante la fase istruttoria, dice di non aver visto passare il commissario Calabresi nei quindici minuti precedenti la caduta di Pinelli. Secondo la testimonianza di Valitutti, per recarsi nell’ufficio di Allegra, il commissario avrebbe dovuto transitare proprio nei pressi del salone dei fermati da cui l’anarchico poteva vedere un tratto di corridoio. Oltre a ciò, Valitutti racconta di aver udito forti rumori di colluttazione provenire dall’ufficio in cui Giuseppe Pinelli era interrogato. Questa testimonianza, però, verrà smentita al processo sia dal personale di polizia sia da altri anarchici che, quella sera, si trovavano confinati nel salone insieme a Valitutti.
Nonostante i dubbi legittimi sulle misteriose circostanze che portarono alla morte di Giuseppe Pinelli, l’inchiesta giudiziaria del giudice D’Ambrosio si concluderà, il 27 ottobre 1975, con l’assoluzione di tutti gli imputati – il tenente Lograno, i brigadieri Caracuta, Panessa, Mucilli e Mainardi, il commissario Calabresi e il commissario capo Allegra – «perché il fatto non sussiste». Per Antonino Allegra, inoltre, grazie alla sopraggiunta amnistia, decade il reato di arresto illegale: Pinelli era stato fermato già il 12 dicembre, ma il rapporto inerente il suo fermo era stato inviato alla Procura solo il giorno 14 quando già avrebbe dovuto essere rilasciato o trasferito in carcere.
Secondo il dispositivo della sentenza, Giuseppe Pinelli non si gettò volontariamente di sotto né venne spinto in alcun modo dal personale di polizia che lo stava interrogando: sul suo cadavere non furono riscontrati in alcun modo segni di violenza pre mortem ma solo ecchimosi e contusioni derivanti dalla caduta. Oltre a questo fatto, dalle testimonianze raccolte era emerso che Pinelli amava fortemente la vita ed era assolutamente inverosimile che pensasse di suicidarsi lasciando al loro destino l’amata moglie Licia e le sue adorate figlie Claudia e Silvia.
Per il giudice D’Ambrosio, Giuseppe Pinelli sarebbe precipitato dalla finestra a causa di un “malore attivo”: era stanco, fortemente teso, sotto pressione e, quando si sarebbe avvicinato alla finestra per fumare la sigaretta, avrebbe accusato una vertigine che avrebbe fatto ruotare il suo corpo in avanti oltre la ringhiera, alterando così il suo centro di gravità e provocandone la caduta nel vuoto.
Aldo Giannuli (storico): «La morte di Pinelli rimane ancora oggi, a tanti anni di distanza, un episodio che, per molti aspetti, non è stato ancora chiarito. Ci fu la tesi dell’incidente, quella del suicidio e quella del “malore attivo” che tanto piacque al giudice D’Ambrosio. A tutt’oggi, però, la tesi del giudice istruttore dell’epoca è rimasta indimostrata nonostante faccia parte, ormai, della giurisprudenza.»
Benedetta Tobagi (giornalista e scrittrice): «La morte di Pinelli destò un grande scandalo perché il ferroviere era, al momento della morte, trattenuto illegalmente in stato di fermo. Ed anche se la sentenza del 1975 mette la parola “fine” sul caso Pinelli dando la responsabilità del fatto ad un malore, ancora oggi non abbiamo la verità su ciò che è successo in quella stanza quella notte.»
Silvia Pinelli (figlia di Giuseppe Pinelli): «La vicenda di mio padre implica che qualsiasi cittadino innocente possa entrare in una questura e morire tragicamente. E senza alcuna risposta da parte delle istituzioni.»
Dopo la morte di Pinelli, iniziarono giorni convulsi e molto tesi. Il periodico Lotta Continua – e con esso quasi tutta la stampa di sinistra – iniziò una campagna accusatoria diretta al commissario Calabresi dipingendolo, di fatto, come l’assassino del ferroviere anarchico. La giornalista Camilla Cederna – la stessa a cui il questore Marcello Guida, in un’intervista, disse «le giuro che Pinelli non l’abbiamo ucciso noi!» – fece altrettanto, pubblicando sull’Espresso una lettera aperta nella quale metteva Calabresi con le spalle al muro per la morte dell’anarchico. Anche Dario Fo e sua moglie Franca Rame trattarono il caso Pinelli, rappresentando a teatro, nel 1970, la commedia Morte accidentale di un anarchico che costò loro diversi processi in tutt’Italia per vilipendio delle istituzioni, diffamazione e calunnia.
Achille Serra (ex prefetto): «I giorni dopo la morte di Pinelli furono sconvolgenti. L’intera stampa di sinistra – con in testa l’Avanti, l’Unità e Lotta Continua – si scatenò contro “noi fascisti” e soprattutto, col povero commissario Calabresi che – voglio ribadirlo casomai ve ne fosse il bisogno – al momento della caduta non si trovava in quella stanza perché recatosi dal commissario Allegra. Continuavo a chiedermi – ed a distanza di anni me lo chiedo ancora – come fosse possibile che, se davvero Pinelli fosse stato colpevole, la Polizia avesse interesse ad eliminarlo. Perché ucciderlo, se davvero Pinelli fosse stato coinvolto nell’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura?! Era follia pura… Eliminare una delle persone chiave coinvolte nell’esplosione, avrebbe impedito di trovare gli altri eventuali colpevoli. Ma ammesso e non concesso che in Questura fossero tutti impazziti tanto da decidere deliberatamente di uccidere il ferroviere, perché farlo lì e non da un’altra parte?! Non sarebbe stato più intelligente farlo sparire senza lasciare traccia e, soprattutto, il più possibile lontano dalle sue stanze?! Senza contare che, quella sera, insieme al personale nostro c’era pure un tenente dei Carabinieri… Ecco: è immaginabile che un ufficiale dell’Arma dei Carabinieri avallasse e coprisse un omicidio in Questura?! Era impossibile, ma nessuno degli organi di stampa e delle organizzazioni di sinistra fece un’attenta disamina sui fatti. Calabresi divenne così il bersaglio univoco come l’assassino di Giuseppe Pinelli tanto che venne battezzato “il commissario finestra”. Ricordo che venne inciso un brano musicale intitolato La ballata del Pinelli. E non dimentico il Premio Nobel Dario Fo che portò a teatro la pièce Morte accidentale di un anarchico. Ma, più di tutti, mi ferì la giornalista Camilla Cederna che, sull’Espresso, iniziò la campagna diffamatoria più dura di sempre nei confronti di Luigi Calabresi. Se davvero Calabresi era colpevole, perché la Cederna, anziché diffamarlo, non ha indagato sui fatti per scoprire e raccontare la verità?! La verità… La verità è che Luigi Calabresi per nulla al mondo avrebbe potuto intenzionalmente fare del male ad un essere umano. Ucciderlo, poi, era assolutamente impensabile. E non solo per la sua integrità di uomo, che lo aveva portato ad essere un esempio, un riferimento fondamentale per coloro che esercitavano la professione che la sua vocazione aveva scelto per lui. Luigi era un uomo dolce, pacato, assolutamente non incline alla violenza a cui, in ogni occasione, aveva preferito il dialogo ad ogni costo. Luigi Calabresi non ha ucciso né fatto uccidere Pinelli, ecco qual è la verità. Si conoscevano da diverso tempo e si stimavano… Ricordo che si erano perfino scambiati dei libri cosa che, se davvero Calabresi avesse odiato Pinelli al punto da farlo uccidere, non sarebbe di certo avvenuta! In più bisogna dire che, quella sera, Pinelli si contraddisse più volte e che, per questo motivo, il verbale dell'interrogatorio dovette essere riscritto: Pinelli prima diceva una cosa e poi la ritrattava. Eppure, nessuno dei colleghi si lamentò o manifestò irritazione evidente nei confronti dell'indagato. Un’altra grossissima falsità – a scriverla sempre la solita Cederna – fu che Pinelli venne interrogato per settantasette ore di fila… Ma che razza di sciocchezza! Pinelli venne interrogato tre volte al massimo: la prima volta nella notte tra il 12 ed il 13 dicembre dai brigadieri Mainardi e D’Alessandro; la seconda il 14 dicembre dal commissario Pagnozzi e, la terza, quel maledetto 15 dicembre da Calabresi. Il problema del caso Pinelli fu solo uno: la Polizia sbagliò completamente l’approccio a quel fatto. In poche ore vennero fornite tre differenti versioni dell’accaduto che non fecero altro che alimentare i sospetti. La prima: Pinelli decise volontariamente di suicidarsi, cogliendo di sorpresa tutti i presenti all’interno della stanza. La seconda: Pinelli aprì la finestra, si lanciò di sotto e il personale riuscì quasi ad afferrarlo ma senza riuscirci. La terza: Pinelli si lanciò fuori dalla finestra, il personale cercò di sventarne il suicidio perché il brigadiere Panessa provò a salvarlo afferrandolo per una gamba. Ma essendo Pinelli pesante, a Panessa non rimase in mano che una scarpa del povero ferroviere che cadde di sotto. Su quest’ultima tesi, peraltro, un giornalista dell’Unità, in conferenza stampa, fece notare che Pinelli, una volta giunto a terra, aveva ai piedi entrambe le scarpe. Se la Polizia avesse detto fin da subito come si erano svolti i fatti senza arrampicarsi sui vetri, probabilmente tutto il clamore sulla morte di Pinelli non ci sarebbe mai stato.»
Sebbene le parole del prefetto Serra siano sicuramente dettate dall’esperienza vissuta in quegli anni e dal rapporto di stima ed amicizia che nutriva nei confronti di Luigi Calabresi, è tuttavia innegabile che, nella notte tra il 15 ed il 16 dicembre 1969, in Questura accadde qualcosa che non doveva accadere. E questo “qualcosa” non è stato mai chiarito: né dai protagonisti e né dalle inchieste giudiziarie che pure hanno cercato di dare una spiegazione univoca e definitiva.
In un’audizione del 5 luglio 2000 presso la Commissione Stragi del Senato, Antonino Allegra – il commissario capo divenuto questore e che comandava l’Ufficio Politico negli anni di piazza Fontana – dà la sua versione dei fatti tralasciando di entrare nel dettaglio di come Pinelli cadde dalla finestra; nel corso degli anni, pur essendo stato contattato dalla stampa – fino allo sfinimento – affinché fornisse chiarimenti su tutto quanto fosse di sua conoscenza, Allegra non ha mai voluto dire nulla.
Antonino Allegra (ex questore): «Avevamo verificato che le prime dichiarazioni di Pinelli in merito al suo alibi per il tardo pomeriggio del 12 dicembre 1969 erano false. Pinelli aveva detto di essersi recato al bar di via Morgantini – che si trovava poco lontano da casa sua e dove era solito andare – e di aver giocato a carte fino alle 17:30. Dai controlli effettuati in loco, due persone affermavano di aver effettivamente giocato con Pinelli e anche altri avventori del bar, seduti al tavolo vicino, ricordavano di aver visto Pinelli giocare a carte. Tuttavia i titolari del bar – Pietro e Mario Gaviorno, rispettivamente padre e figlio – smentivano che la partita cui gli avventori si riferivano si fosse tenuta il 12 dicembre perché, quel pomeriggio, Pinelli arrivò al bar alle 14:30 circa in compagnia di uno sconosciuto che poi si rivelò essere Antonino Sottosanti, un estremista di destra che, stranamente, aveva fornito un alibi a Tito Pulsinelli – un compagno di Pinelli – in relazione all’attentato del 19 novembre 1969 ai danni della caserma di Pubblica Sicurezza “Garibaldi” di Milano. Secondo i Gaviorno, Pinelli e il Sottosanti – persona che loro vedevano per la prima volta – si allontanavano poco dopo aver bevuto un caffè. Premesso ciò, giungiamo alla sera del 15 dicembre, quando Pinelli avrebbe dovuto essere interrogato sia in relazione all’alibi falso, sia in relazione ai suoi rapporti con Valpreda. Quello doveva essere l’interrogatorio definitivo perché, essendoci stati i funerali delle vittime, nessuno aveva avuto tempo di interrogare Pinelli ed avendo noi dichiarato il suo fermo nella mattina del giorno 14, avremmo dovuto rilasciarlo o tradurlo in carcere entro la mattina del giorno 16. Decisi che l’interrogatorio fosse svolto dal dottor Calabresi che, avendo trascorso il pomeriggio a casa, avrebbe preso servizio dalle 20:00 del 15 dicembre alle 8:00 del mattino seguente. Mi raccomandai con Calabresi affinché, prima di condurre l’interrogatorio vero e proprio, si informasse con Pinelli del suo rapporto con Valpreda e che ciò mi fosse subito riferito prima della mattina del 16 in quanto dovevo partire urgentemente per Roma e portare con me quel verbale. Questo mini-interrogatorio avrebbe dovuto portare via tre quarti d’ora al massimo ma, siccome Pinelli continuava a cambiare versione e a ritrattare ciò che aveva detto un istante prima, ci volle molto più tempo tanto che mi recai due volte nell’ufficio di Calabresi a sollecitare ciò che avevo espressamente chiesto. Dopo che Pinelli precipitò dalla finestra, il questore Guida si affrettò a parlare di suicidio… Egli non aveva alcun obbligo in quel momento. Venne svegliato di notte, si alzò, si vestì, venne in Questura e, dopo cinque minuti, ricevette i giornalisti. Lui doveva dire semplicemente di portare pazienza perché si doveva rendere conto della situazione. Dopo di che eventualmente avrebbe potuto parlare. Poteva quindi limitarsi a dire poche cose, invece ha parlato un po’ di più non rendendosi conto, secondo me, che qualunque cosa si dicesse quando si aveva a che fare con certi ambienti, era sempre pericolosa perché poteva essere fraintesa ed anche fuorviata. Il Questore ingenuamente disse quello che gli passava per la mente in quel momento, ma non mi sembra che abbia commesso un grande delitto, perché lui credeva veramente, in quel momento lì, che Pinelli potesse essersi suicidato per non sopportare questa grossa responsabilità.»
Una cosa che però né il prefetto Serra né il questore Allegra dicono – peraltro tanto importante da gettare una luce differente sui fatti di quella notte – è che, da tempo, l'Ufficio Politico di Milano tentava di annoverare Giuseppe Pinelli come proprio informatore. Un personaggio del calibro di Pinelli, per via delle sue conoscenze all’interno del mondo anarchico, avrebbe senza dubbio aiutato la Polizia a capirne le logiche e coglierne anticipatamente ogni possibile piano eversivo. Proprio in quest’ottica andrebbe quindi visto l’avvicinamento di Luigi Calabresi verso il ferroviere col famoso scambio di libri di cui abbiamo parlato. E quando Pinelli si rifiutò, la Polizia lo avrebbe preso di mira fermandolo con qualsiasi pretesto e minacciandolo di fargli perdere il lavoro.
La campagna diffamatoria nei confronti di Luigi Calabresi culminerà il 17 maggio 1972 quando, in via Cherubini a Milano, il commissario verrà ucciso sotto casa a colpi d’arma da fuoco mentre si apprestava a salire sulla sua FIAT 500 per andare al lavoro. Per la sua morte, nel 1997, la Corte di Cassazione condannerà Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani, Ovidio Bompressi e Leonardo Marino – tutti membri di Lotta Continua – come mandanti ed esecutori materiali dell’omicidio.
Sia la storia di Giuseppe Pinelli che quella di Luigi Calabresi danno il senso tangibile di cosa sia stata la vicenda della strage di piazza Fontana, dove tutto è indefinito, nebuloso e misterioso. Dove ci si muove in una “zona grigia” nella quale non si riesce a risalire alla verità vera. Così è accaduto per l’omicidio del commissario Calabresi e così è accaduto per la morte di Pinelli: in tutti questi anni, la moglie Licia e le figlie Claudia e Silvia hanno provato, in ogni modo possibile, a stabilire senza ombra di dubbio come andarono le cose quella sera. Anni di ricerche, di procedimenti giudiziari in cui molti legali le hanno aiutate pro bono, non sono bastati a stabilire perché Giuseppe Pinelli sia morto. E, nonostante tutte e tre siano ben consce che Giuseppe sia caduto dalla finestra durante una fase concitata di un interrogatorio spintosi troppo in là, finora, ad oltre cinquantun anni di distanza, nessuno ha detto loro la verità che meritano di avere. La medesima richiesta di far luce sulla morte di Pinelli è stata fatta, nel maggio nel 2009, dall’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: poco prima di dimettersi, in una cerimonia di commemorazione delle vittime delle stragi tenutasi al Quirinale dove c’erano sia i famigliari di Pinelli che di Calabresi, ha ammesso che Giuseppe Pinelli è morto da innocente e che, per tale motivo, dovesse essere finalmente svelata tutta la verità sulla notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969.


Indicata dalla freccia, la finestra al quarto piano della Questura di Milano dalla quale è caduto Giuseppe Pinelli (fotografia reperita su Internet)


L'ex magistrato Gerardo D'Ambrosio che si occupò dell'inchiesta sulla morte di Giuseppe Pinelli (fotografia reperita su Internet)

Giuseppe Pinelli ritratto, da sinistra, con la figlia Silvia, la moglie Licia e la figlia Claudia (fotografia reperita su Internet)

30 aprile 2021

LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA (puntata n° 6)

Fra tutte le persone che, in diretta sul primo canale RAI, stanno assistendo alle esequie delle vittime dell’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, ce n’è una che si chiama Pasquale Juliano e che, nella storia che stiamo raccontando, rivestirà un ruolo fondamentale. Il signor Juliano, che fino a pochi mesi prima si trovava a Padova, sta seguendo la cerimonia funebre da Ruvo di Puglia – in provincia di Bari – a ben ottocentocinquanta chilometri da Milano. In realtà sono tre giorni che Juliano è incollato al televisore, esattamente dal 12 dicembre quando sono esplose le bombe nel capoluogo lombardo e nella capitale.
Di Pasquale Juliano avremo modo di parlare più avanti e di farlo in maniera estremamente approfondita; per ora ricordiamoci il suo nome e torniamo a Milano, a quel venerdì 12 dicembre 1969 ed a ciò che sta accadendo quella stessa sera, dopo che, in piazza Fontana, si è consumata la tragedia che ha colpito al cuore tutto il Paese.
Sono circa le 18:40 quando, al circolo anarchico di via Scaldasole che si trova nel quartiere Ticinese, arriva un’auto-civetta dell’Ufficio Politico della Questura di Milano. L’equipaggio è composto dal commissario Luigi Calabresi e da due agenti. Sono lì per effettuare una perquisizione e fermare alcuni anarchici. Mentre stanno per entrare nell’edificio, arriva un uomo in sella ad un motorino: si chiama Giuseppe Pinelli – ma tutti lo chiamano “Pino” – ed è uno dei principali attivisti del circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa” da cui è appena venuto via.
Non appena il commissario Calabresi vede Pinelli, lo invita a seguirlo in Questura per delle domande. E Pinelli, senza batter ciglio, lo fa: riaccende il suo motorino ed attraversa mezza città seguendo l’auto della Polizia. Quando arrivano in Questura, il commissario Calabresi accompagna Pinelli all’interno del salone sito al quarto piano, dove si trova l’Ufficio Politico. Pinelli va così ad aggiungersi al centinaio di persone fermate che attendono di essere interrogate.
Giuseppe Pinelli, classe 1928, è originario di Milano e dal 1954 lavora alla stazione ferroviaria di Porta Garibaldi come manovratore. Si sposa l’anno successivo con Licia Rognini; la loro unione darà alla luce le figlie Claudia (nel 1960) e Silvia (nel 1961).
Dopo aver militato nella resistenza antifascista, Pinelli non abbandona gli ideali libertari che, proprio durante la guerra, si sono radicati profondamente in lui: nel 1969 aderisce al movimento Gioventù Libertaria per poi fondare, solo due anni più tardi, il circolo “Sacco e Vanzetti”. A seguito dello sfratto esecutivo avvenuto all’inizio del 1968, il circolo viene chiuso e, nel maggio di quello stesso anno, Giuseppe Pinelli inaugura il circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa” di cui, come abbiamo detto, diverrà uno dei maggiori attivisti ed anche un rappresentante di spicco dell’intero panorama anarchico milanese.
Luigi Calabresi nasce a Roma nel 1937 e, dopo essersi laureato in giurisprudenza all’università “La Sapienza” nel 1964, decide di fare il concorso per il ruolo di vice commissario nel Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza. Lo vince nel 1965 e viene trasferito a Milano, dove inizia subito a lavorare nell’Ufficio Politico comandato dal commissario capo Antonino Allegra. Calabresi ha così il modo di entrare in contatto con gli ambienti anarchici e della sinistra extraparlamentare che, proprio in quegli anni, iniziano ad organizzarsi in gruppi più strutturati nei quali si cominciava a prendere coscienza della lotta di classe come strumento volto ad ottenere maggiori diritti nel mondo del lavoro e quell’eguaglianza sociale che fornisse condizioni di vita migliori a chiunque.
Sposato con Gemma Capra, è un cattolico fervente ed osservante che preferisce, nel suo lavoro, impiegare il dialogo a scapito di qualunque manifestazione di forza; proprio per questo, con alcuni esponenti anarchici e di sinistra – come Mario Capanna e lo stesso Giuseppe Pinelli – Luigi Calabresi, nel frattempo promosso commissario, instaura un rapporto orientato al confronto pacifico affinché le agitazioni e le manifestazioni di piazza non sfociassero in scontri armati fra dimostranti e Polizia.
Sono trascorsi tre giorni da quando Giuseppe Pinelli è stato fermato: secondo quanto prescrive la legge, le persone sottoposte al fermo di polizia possono essere trattenute per un massimo di quarantott’ore trascorse le quali, in mancanza di un provvedimento dell’autorità giudiziaria che ne decreti il trasferimento in carcere, devono essere rilasciate. Quasi tutti i fermati vengono mandati a S, Vittore – il carcere di Milano – o rilasciati. Giuseppe Pinelli, invece, nonostante le quarantott’ore previste siano ormai trascorse da un pezzo, è ancora in Questura.
Achille Serra (ex prefetto): «Erano circa le 23:30 del 15 dicembre e Giuseppe Pinelli era nella stanza di Luigi Calabresi; insieme ai due, c’erano quattro poliziotti ed un tenente dei Carabinieri. Pinelli, da quando era stato fermato, non aveva ancora fatto alcuna ammissione. Ad un certo punto, Calabresi venne convocato dal dottor Allegra ed uscì dalla stanza.»
Nell’ufficio di Calabresi, oltre a quest’ultimo e a Giuseppe Pinelli, ci sono i brigadieri di Pubblica Sicurezza Antonio Vito Donato Panessa, Giuseppe Antonio Caracuta, Carlo Mario Mainardi, Pietro Mucilli – tutti in forza all’Ufficio Politico – e il tenente dei Carabinieri Savino Lograno. Giuseppe Pinelli è molto provato e stanco: ha mangiato pochissimo – qualche panino imbottito e nulla di più – e dormito ancora meno, trascorrendo quasi tutto il tempo nello stanzone al quarto piano dove venivano posti i fermati in attesa di interrogatorio.
Achille Serra (ex prefetto): «Quando Calabresi si recò dal suo capo, quest’ultimo pensò di tentare un bluff per verificare la reazione che avrebbe avuto Pinelli. L’idea di Antonino Allegra era quella di dire al ferroviere che uno dei suoi compagni aveva ammesso di essere coinvolto nell’attentato di piazza Fontana così da mettere Pinelli in un angolo e, magari, farlo cadere in contraddizione e chiarire il suo ruolo eventuale nella strage. Calabresi rientrò nell’ufficio dove l’aria era pregna del fumo delle sigarette che Pinelli e gli altri fumavano in continuazione. “Valpreda ha parlato!”, esclamò Calabresi, sapendo di mentire poiché Valpreda non aveva dichiarato un bel niente. Giuseppe Pinelli rimase attonito, confuso. Non seppe più cosa dire a parte, con voce colma di delusione ed amarezza: “È la fine dell’anarchia”. Di certo mai avrebbe immaginato che uno dei suoi compagni potesse aver compiuto una nefandezza simile. Calabresi, quindi, prese il verbale dell’interrogatorio per portarlo ad Allegra ed uscì nuovamente dal suo ufficio lasciando Pinelli in compagnia dei suoi uomini e del tenente Lograno.»
Ma chi è il Valpreda di cui parla Luigi Calabresi?
Pietro Valpreda nasce a Milano nel 1932 e, quando avviene la strage di piazza Fontana, ha 37 anni. Fa il ballerino di professione e, proprio per questo, da Milano si è trasferito a Roma dove ottiene diversi ruoli a teatro, al cinema ed in televisione. Lavora, perfino, nelle compagnie di Carlo Dapporto e Walter Chiari.
Frequentatore dei circoli anarchici milanesi e compagno di Giuseppe Pinelli fin dai primi anni Sessanta, Pietro Valpreda, una volta giunto a Roma, non abbandona gli ideali anarchici. Si avvicina al circolo anarchico “Bakunin” dove conosce Roberto Gargamelli ed altri militanti coi quali, dopo qualche tempo, fonderà il circolo anarchico “22 marzo”.
La mattina del 15 dicembre, mentre in Duomo si stanno celebrando i funerali delle vittime della strage e Giuseppe Pinelli è confinato nel salone al quarto piano della Questura con gli altri fermati, Pietro Valpreda entra nel palazzo di giustizia del capoluogo lombardo: è stato convocato dal giudice Antonio Amati per essere interrogato sul cosiddetto Bollettino degli Iconoclasti in cui Valpreda, Aniello D’Errico e Leonardo Claps – “gli Iconoclasti”, appunto – avevano fatto riferimento agli attentati dinamitardi al padiglione della FIAT presso la Fiera Campionaria e a quello della Stazione Centrale del 25 aprile 1969. Il manifesto si era concluso con un attacco frontale e diretto a papa Paolo VI e, a causa di ciò, oltre ad essere indiziati per le bombe di aprile, i tre uomini erano pure accusati del reato di vilipendio a capo di stato straniero.
Sapendo di essere estraneo alle bombe del 25 aprile e di non incorrere in sanzioni pesanti per l’accusa di vilipendio, anziché presentarsi all’interrogatorio insieme al suo avvocato, Pietro Valpreda preferisce recarsi in tribunale in compagnia della prozia Rachele Torri – sorella di sua nonna materna – presso cui il ballerino trova alloggio quando soggiorna a Milano.
Dopo l’interrogatorio col giudice Amati, Valpreda e la signora Rachele stanno per uscire dal tribunale; all’improvviso, però, accade qualcosa.
Due uomini si avvicinano a Valpreda e, dopo averlo affiancato, lo afferrano per le braccia, lo sollevano di peso e lo portano in una stanza. Valpreda è sgomento e non capisce cosa stia succedendo: gli uomini sono poliziotti e lo stanno arrestando. La signora Rachele corre loro appresso, e in dialetto milanese, urla al nipote: «Pietro, ma dov’è che ti portano!? Cos’hai fatto!?»
Nell’androne del tribunale, proprio in quel momento, si trova a passare un giornalista del Corriere della Sera che si chiama Giorgio Zicari – ricordiamoci il suo nome perché lo ritroveremo più avanti – il quale assiste all’arresto di Valpreda. Immaginando si tratti di una cosa grossa per via della dinamica della scena, si affretta a seguire i tre uomini e a giungere nei pressi della stanza dove il ballerino era stato condotto. Dall’interno – lo scriverà sul giornale – sente una persona urlare: «Ma chi siete voi anarchici?! Che cosa volete?! Perché amate così tanto il sangue?!».
Dal tribunale, Pietro Valpreda viene condotto in via Fatebenefratelli, in Questura. Da lì viene trasferito a Roma, nel carcere di Regina Coeli, dove verrà interrogato per tutta la notte. Anche i giudici di Roma, infatti, lo avevano convocato per gli attentati del 25 aprile di cui erano indiziati gli anarchici. Ma lui, spiegando che era stato convocato a Milano per gli stessi motivi, aveva chiesto un rinvio dell’interrogatorio. La mattina dopo – è il 16 dicembre – il giudice Vittorio Occorsio gli contesta formalmente l’accusa di omicidio volontario e concorso in strage per quattordici persone – perché fino a quel momento le vittime sono ancora quattordici – e di lesioni gravissime nei confronti di altre ottanta: in sintesi, per gli inquirenti, l’esecutore materiale dell’attentato di piazza Fontana è lui, Pietro Valpreda.
Ora che abbiamo conosciuto Pietro Valpreda ed abbiamo visto come sia entrato a gamba tesa nella nostra storia, dobbiamo tornare al quarto piano della Questura di Milano, dove abbiamo lasciato Giuseppe Pinelli nell’ufficio del commissario Calabresi.
Il terzo colpo di scena della nostra storia giunge inaspettato pochi minuti prima della mezzanotte quando, improvvisamente, Giuseppe Pinelli cade dalla finestra dell’ufficio in cui era interrogato: Calabresi è appena uscito dalla sua stanza quando sente un urlo lancinante ed un tonfo sordo. Rientra immediatamente vedendo i poliziotti ed il tenente affacciati alla finestra. I loro volti sono sconvolti e Pinelli non c’è più: si trova quattro piani più sotto, sopra un’aiuola del cortile interno della Questura che, purtroppo, non basterà ad attutire la caduta del ferroviere.
Soccorso e trasportato all’ospedale Fatebenefratelli in stato di incoscienza, Giuseppe Pinelli morirà all’1:50 del 16 dicembre 1969 in seguito ai traumi riportati dalla caduta; i medici, pur portandolo in sala operatoria per un intervento chirurgico d’urgenza, non riusciranno a salvargli la vita.

Giuseppe Pinelli (fotografia reperita su Internet)

Pietro Valpreda (fotografia reperita su Internet)

Luigi Calabresi (fotografia reperita su Internet)

07 marzo 2021

LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA (puntata n° 5)

I funerali delle vittime di piazza Fontana si tengono tre giorni dopo, lunedì 15 dicembre 1969: è una giornata fredda e nebbiosa, come quelle che c’erano una volta a Milano.
All’obitorio di via Mangiagalli, visto lo stato pietoso dei corpi e l’impossibilità fisica di poterli vestire coi loro abiti, il personale medico pensa di avvolgere, nella bandiera tricolore, ciò che resta delle salme. Ma tutte le famiglie si oppongono a tale decisione, per cui i corpi vengono avvolti in normali lenzuoli e deposti dentro alle bare.
Paolo Dendena (figlio di Pietro Dendena): «Quando ci dissero che mio padre, insieme alle altre vittime della strage, sarebbe stato avvolto dentro al tricolore, sia mia madre che mia sorella Francesca si opposero fermamente. Non era infatti possibile che, in Italia, una persona entrasse in una banca per lavorare e non ne uscisse più.»
Le sedici bare, tutte uguali e fatte di scuro legno di mogano, partono in ordine alfabetico dall’obitorio di via Mangiagalli per dirigersi verso il Duomo, luogo in cui le esequie verranno celebrate. Nel percorso, che transita anche da piazza Fontana, il più lungo corteo funebre che l’Italia abbia mai visto è salutato da tanti cittadini che, agli incroci, scendono dalle auto togliendosi il cappello in segno di rispetto.
Fortunato Zinni (ex dipendente e funzionario della Banca Nazionale dell’Agricoltura): «Il lunedì dei funerali, la Banca Nazionale dell’Agricoltura aprì alle 8:30 in punto. Le macerie erano state rimosse in fretta e furia e, nel salone, esattamente vicino al buco che l’esplosione aveva creato sul pavimento, erano state poste delle corone di fiori sorvegliate da due carabinieri in alta uniforme. Una volta giunto in piazza Duomo, ricordo che la cosa che mi colpì maggiormente fu la grandissima folla presente al rito funebre. Erano tantissimi ma c’era un silenzio assoluto, interrotto soltanto dal pianto di qualcuno. Molti pregavano, altri si facevano il segno della croce… I loro sguardi mi bloccavano tanto che, ad ogni passo, mi sembrava di non toccare il selciato che avevo sotto ai piedi. C’erano tutti – io sono convinto che ci fosse tutta la Milano che mandava avanti la città – e nessuno li aveva chiamati: erano venuti da soli.»
Nel Duomo di Milano – sul cui portone principale campeggia la scritta «Milano s’inchina alle vittime innocenti e prega pace» – si assiepano più di ventimila persone mentre all’esterno, nella piazza e nelle vie adiacenti, se ne contano almeno trecentomila. Ci sono i metalmeccanici della Marelli, della Breda e della Falk – che si occupano del servizio d’ordine – e la gente comune – impiegati, studenti, casalinghe, liberi professionisti – venuta lì per testimoniare la propria vicinanza ai parenti delle vittime. Infine, in rappresentanza dello Stato, ci sono tutte le autorità con, in testa, il presidente della Camera Sandro Pertini e quello del Consiglio Mariano Rumor che arriva a Milano con oltre un’ora di ritardo.
Nella piazza stracolma di gente, non si sente volare una mosca: non ci sono slogan, né striscioni, né fischi e né applausi; c’è solo quell’enorme massa di gente silenziosa e composta che partecipa, commossa, al dolore dei parenti delle vittime della strage.
Paolo Dendena (figlio di Pietro Dendena): «Ricordo di aver smesso di piangere… Ero accanto a mia madre e a mia sorella e continuavo a fare il giro della bara di mio padre come a volergli dare un’ultima carezza. Ero un bambino di 10 anni e, pur capendo che mio padre era morto, non mi rendevo ancora conto di cosa volesse dire crescere senza di lui. Mia madre, quasi a volerci dare tutta la forza di questo mondo, ricordo che ci disse: “Anche se il papà ce l’hanno ucciso, voi due dovrete essere forti perché avete tutto il diritto di crescere e di vivere!” Nella piazza, affollata di gente, c’era un silenzio che io definisco, da sempre, “assordante”: potevo sentire i pianti di qualcuno, ma il rumore dei nostri passi era talmente forte da somigliare ad un rullo di tamburi.»
Carlo Arnoldi (figlio di Giovanni Arnoldi): «Io guardavo solamente la bara di mio papà. Mia madre e mia sorella piangevano e potevo udire i loro singhiozzi in maniera distinta. Ma la cosa che sentivo maggiormente, in quella giornata tristissima, erano i nostri passi che risuonavano fortissimo sul sagrato del Duomo.»
Paolo Silva (figlio di Carlo Silva): «Il giorno dei funerali lo ricordo benissimo come se fosse oggi. Il cielo era plumbeo e in piazza Duomo c’era una folla immensa che rappresentava tutte le categorie sociali. Alcuni si erano arrampicati sia sui lampioni che sulla statua equestre di Vittorio Emanulele II presente dinanzi alla cattedrale. La cosa che però ricordo meglio, e che indispettì sia noi che le altre famiglie, fu il ritardo del presidente Rumor. Era inaccettabile che un presidente del Consiglio giungesse in ritardo ai funerali delle vittime di una strage – mai vista prima in Italia – come fu quella di piazza Fontana. E fu per questo che, quando fece il giro delle bare per salutare i parenti ed arrivò da noi tendendoci la mano per le condoglianze, sia io che mio fratello, come fecero altri, non ricambiammo il suo gesto. Lui, sorpreso, ritirò la mano e disse: “Vi prometto che i responsabili verranno presto assicurati alla giustizia!”»
Paolo Dendena (figlio di Pietro Dendena): «Il presidente Rumor arrivò in ritardo e questo ci dette molto fastidio. È proprio da quel giorno che ho sempre provato un’enorme repulsione per quella carezza compassionevole che Rumor mi diede sulla testa per dimostrare la sua vicinanza al lutto che mi aveva colpito. Da quel momento in poi, infatti, restammo abbandonati a noi stessi tanto da non avere mai avuto giustizia. Anche mia madre e mia sorella, come quel giorno fecero in parecchi, non diedero la mano a Rumor. Fu quasi come se sentissero dentro che lo Stato, ben presto, ci avrebbe lasciato soli.»
Nel frattempo che in Duomo si celebrano i funerali delle vittime della strage, gli inquirenti sono già sulle tracce dei possibili responsabili dell’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura. E lo sono fin da subito, ovvero dalle ore immediatamente successive allo scoppio della bomba: l’attentato di piazza Fontana è opera degli anarchici e degli ambienti di estrema sinistra.
La Polizia ne è assolutamente certa: il commissario Luigi Calabresi, in forza all’Ufficio Politico della Questura di Milano, uscendo dalla banca di piazza Fontana, lo dichiarerà ai giornalisti già quel 12 dicembre 1969.  E, poche ore dopo, lo confermerà anche il prefetto Libero Mazza che, in un telegramma indirizzato al presidente del Consiglio Mariano Rumor, scriverà: «Ipotesi attendibile che deve formularsi indirizza indagini verso gruppi anarcoidi aut comunque frange estremiste. Est già iniziata, previe intese autorità giudiziaria, vigorosa azione rivolta at identificazione et arresto responsabili»
Nonostante le indagini – come dirà il questore Marcello Guida durante la conferenza stampa del 13 dicembre – sembrino aperte a tutte le ipotesi, l’obiettivo della Polizia sono gli anarchici ed i membri di estrema sinistra: sono sempre loro che mettono le bombe e, con quegli obiettivi precisi scelti fra le banche e l’Altare della Patria, non è assolutamente possibile che possa trattarsi di altri.
La sera stessa dell’attentato in piazza Fontana, la Polizia ferma più di centocinquanta persone, rastrellate qua e là nei vari circoli anarchici della città e nei luoghi di ritrovo dei militanti di estrema sinistra. Vengono condotte tutte in Questura in attesa di essere interrogate.
Achille Serra (ex prefetto): «La sera del 12 dicembre, effettuammo più di un centinaio di fermi e parecchie perquisizioni. Quasi tutti i fermati appartenevano agli ambienti della sinistra extraparlamentare e della frangia anarchica. C’erano vecchie e nuove conoscenze che avrebbero dovuto essere interrogate per vagliarne il coinvolgimento nell’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura.»
Benedetta Tobagi (giornalista e scrittrice): «Nonostante il questore Guida affermi che tutte le ipotesi fossero aperte e che la Polizia stava indagando a trecentosessanta gradi, la sera del 12 dicembre, in Questura, c’era una netta prevalenza di militanti appartenenti all’area anarchica e della sinistra extraparlamentare.»
La sera stessa dell’attentato, in alcune zone della città vengono rinvenuti alcuni manifesti di Lotta Continua e Potere Operaio – due organizzazioni di estrema sinistra sconfinanti nella sfera anarchica – che rivendicano la paternità della strage. È proprio questo che spinge la Polizia a concentrarsi su un gruppo di anarchici ben preciso: è il circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa” – uno dei più noti di Milano – che è spesso frequentato da diversi appartenenti sia a Lotta Continua che a Potere Operaio.
Ugo Paolillo (ex magistrato): «Quando vidi i manifesti a firma di Lotta Continua e Potere Operaio, non diedi loro molto credito. La carta di quei manifesti era completamente differente da quella che entrambi i gruppi – che stampavano volantini e manifesti in quantità industriale – utilizzavano normalmente. Era come se qualcuno volesse che indagassimo proprio in direzione degli ambienti anarchici di sinistra.»
Il circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa” si trova in piazzale Lugano ed è frequentato in maggioranza da studenti e da operai che non si riconoscono nelle formazioni sindacali tradizionali.
Luciano Lanza (giornalista): «Il circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa” svolgeva le attività tipiche di quell’epoca: organizzava volantinaggio, manifestazioni e, dall’autunno del 1969, divenne il punto d’incontro di quei sindacati “autonomi” che si muovevano al di fuori delle organizzazioni sindacali ufficiali.»
Achille Serra (ex prefetto): «Quella sera si mobilitarono i Carabinieri e si mobilitò la Polizia. Ci venne ordinato di fare una ricerca di tutti gli anarchici e di portarli in Questura. Così ci mettemmo in macchina ed iniziammo a cercarli partendo dai punti d’incontro a noi noti, primo tra tutti il circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa”.»


Il Duomo di Milano durante i funerali del 15 dicembre 1969 (fotografia reperita su Internet)


Scorcio della folla immensa accorsa per partecipare ai funerali delle vittime della strage (fotografia reperita su Internet)

L'entrata del Duomo di Milano con la scritta «Milano s'inchina alle vittime innocenti e prega pace» (fotografia reperita su Archivio De Bellis - Fotogramma)

La folla assiepata sulla statua equestre di Vittorio Emanuele II in piazza Duomo, a Milano (fotografia reperita su Archivio De Bellis - Fotogramma)


Una donna viene soccorsa dopo essere svenuta durante i funerali delle vittime della strage (fotografia reperita su Archivio De Bellis - Fotogramma)


Scorcio della navata centrale con le bare delle vittime della strage e il Duomo colmo di gente (fotografia reperita su Archivio de Bellis - Fotogramma)


Scorcio della navata centrale con le bare delle vittime della strage e il Duomo colmo di gente (fotografia reperita su Archivio de Bellis - Fotogramma)


Il presidente della Camera Sandro Pertini e il presidente del Consiglio Mariano Rumor durante i funerali delle vittime della strage (fotografia reperita su Archivio de Bellis - Fotogramma)