Se
Pietro Valpreda e gli anarchici non hanno nulla a che vedere con gli attentati
di Milano e di Roma, chi è stato a portare quella Mosbach-Gruber nera, colma di
gelignite, all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana
per uccidere, in un batter di ciglia, diciassette persone e ferirne ottantasei?
Nell’opinione pubblica e in molti addetti ai lavori inizia ad insinuarsi il dubbio che, nei fatti di piazza Fontana, siano troppe le cose che non tornino. Alcuni giornalisti – fra loro Camilla Cederna, Corrado Stajano, Giorgio Bocca, Giampaolo Pansa – coordinati dall’avvocato Eduardo Di Giovanni e dal giornalista Marco Ligini (appartenente a Lotta Continua) creano un collettivo di “contro-informazione” che punta a cercare la verità: saranno queste persone che conieranno il termine “strage di Stato”, che diventa anche il titolo del libro che racconta la loro inchiesta.
Giorgio Boatti (giornalista e scrittore): «Il lavoro del gruppo di contro-informazione è stato molto importante per due motivi essenziali: in primo luogo perché è riuscito a fare emergere i piccoli brandelli di verità che venivano adeguatamente nascosti; in secondo luogo, perché ha fornito un modo per interpretarli. In sintesi, la contro-informazione ha dato, all’opinione pubblica, una sorta di “kit interpretativo” che ha aiutato a comprendere cosa stava accadendo sotto gli occhi della nazione intera. Il lavoro del collettivo aiutò a distinguere la verità dalle menzogne e a capire che, quando si parla di stragi come fu quella di piazza Fontana, il potere costituito non è mai neutrale ma diviene parte attiva di tali nefandezze. La contro-informazione aiutò ad identificare il buono dal meno buono e dal cattivo e, non per ultimo, aiutò a constatare come, nel fenomeno stragista che iniziò con l’attentato alla Banca dell’Agricoltura, vi fosse sempre lo stesso modus operandi che si ripeteva all’infinito. Ecco: questo sparuto gruppo di giornalisti ed avvocati – che io definisco “veri democratici” – fece un lavoro superbo nonostante i pochissimi mezzi a disposizione.»
Ad affiancare il collettivo di contro-informazione nella ricerca della verità, ci sono anche poliziotti e magistrati che, da qualche tempo, pensano di aver imboccato la direzione giusta per catturare mandanti ed esecutori della strage. Per capire di cosa stiamo parlando, però, dobbiamo tornare a Ruvo di Puglia, dove avevamo lasciato Pasquale Juliano mentre, sgomento dinanzi al televisore, assiste ai funerali delle vittime della strage di piazza Fontana.
Ma chi è Pasquale Juliano e, soprattutto, cos’ha a che fare con la storia che stiamo raccontando?
Pasquale Juliano nasce il 31 maggio 1932 ad Ostuni, in provincia di Brindisi, da padre napoletano e madre pugliese. Dopo la maturità classica, si iscrive all’università di Bari dove, nel 1956, si laurea in giurisprudenza. Intrapresa la carriera forense, il giovane Juliano inizia a lavorare come procuratore legale in attesa trascorrano i sei anni necessari a diventare avvocato. Giunto a metà percorso – siamo nel 1959 – Pasquale conosce Rosa, se ne innamora e la sposa in quello stesso anno. Il matrimonio con la sua amata cambia totalmente i piani del futuro avvocato: la paga che percepisce come procuratore legale non basta a mantenerli entrambi – a quei tempi un procuratore aveva un salario pari alla metà di quello di un avvocato e, a livello operativo, poteva patrocinare solo alcune cause – per cui Pasquale deve trovare un’alternativa che gli permetta di lavorare subito a stipendio pieno. Così decide, sempre nel 1959, di partecipare a diversi concorsi pubblici, finendo per vincere quello di vice commissario nelle Guardie di Pubblica Sicurezza. Col grado di vice commissario aggiunto, il primo incarico di Juliano è presso la Questura di Matera. È qui che, nel 1960, Rosa e Pasquale hanno Guglielmo, il loro primo figlio. Per i novelli genitori, Matera sembra la città ideale per mettere le radici: è piccola, è a misura d’uomo ed ha un bassissimo tasso delinquenziale. Ma solo dopo due anni di permanenza nella città lucana, Juliano viene trasferito a Novara dove, col grado di commissario e grazie alle sue capacità di acuto osservatore e fine investigatore, diventa capo della Squadra Mobile. Resta nella città piemontese fino al 1966; nel frattempo, la famiglia di Pasquale e Rosa si allarga con l’arrivo, nel 1963, del secondogenito Antonio. Nel 1972, infine, la nascita di Graziano – il terzo maschietto di casa – allieterà la vita della famiglia Juliano. In questi anni, Pasquale lavora sodo e si fa sempre più apprezzare sia dai suoi superiori sia dagli uomini sotto il suo comando: il commissario è zelante ed attento ma, soprattutto, utilizza metodi di indagine ancora pressoché sconosciuti nel lavoro di polizia. Ecco perché, ad un certo punto, nel 1966 verrà trasferito a Padova dove, sempre come capo della Squadra Mobile, inizierà le indagini che si riveleranno cruciali per la nostra storia.
Padova, in quegli anni, nonostante fosse una città apparentemente tranquilla, è in realtà molto difficile poiché molto attiva dal punto di vista politico, con particolare menzione all’eversione di destra. E, quando Juliano vi giunge, le bombe esplodono già da un po’: è il 30 aprile 1968 quando il primo ordigno scoppia di fronte alla casa del questore Ferruccio Allitto Bonanno, funzionario che, nel 1972, ritroveremo a capo della Questura di Milano quando verrà ucciso il commissario Calabresi.
Il flusso di esplosioni nel 1968 sembra non avere fine: il 2 luglio una bomba esplode nei pressi del Liceo Classico “Tito Livio” e, il 16 ottobre, ne scoppia un’altra all’ingresso dell’università. L’anno successivo non è da meno: il 26 gennaio 1969 una bomba esplode vicino al palazzo di giustizia; il 5 febbraio, un’altra fa saltare in aria l’entrata del Gazzettino e, il 29 marzo, diverse bombe molotov vengono lanciate contro le sedi del Movimento Sociale Italiano e del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria. Ma è il 15 aprile 1969 che i “bombaroli” danno il meglio di loro stessi: oltre ad un attacco alla sede del Partito Comunista Italiano, una bomba viene piazzata nello studio di Enrico Giuseppe Opocher, filosofo e magnifico rettore dell’Università degli Studi di Padova.
A base di nitrato di potassio, zolfo, carbone, polvere di alluminio e magnesio, l’ordigno viene posto, sotto mentite spoglie, su uno degli scaffali della libreria del rettorato ed esplode poco prima delle 23:00 di quella stessa sera, quando l’università è chiusa e gli uffici sono deserti. I danni provocati dall’esplosione sono ingenti: libri, suppellettili e parte del mobilio vanno a fuoco così come vanno in frantumi i vetri ed il vasellame. Porte ed infissi vengono scardinati e le pareti vengono investite, a mezz’aria, da una pioggia di schegge che l’energia dell’esplosione dissemina in giro come fossero proiettili. Segni evidenti dell’esplosione sono, inoltre, ben visibili nei locali adiacenti all’ufficio di Opocher. Dalle perizie effettuate nello studio del rettore, gli esperti della Scientifica confermeranno che la bomba era confezionata in un contenitore metallico posto all’interno di una borsa di plastica completa di manico e fibbia. Lo stesso rettore, interrogato nei giorni successivi, dirà agli inquirenti che, senza alcun dubbio, l’attentato di cui era stato vittima aveva una matrice neofascista.
Pasquale Juliano inizia le indagini sugli attentati dinamitardi il 16 aprile 1969, il giorno dopo lo scoppio della bomba nell’ufficio del rettore Opocher: è lo stesso questore di Padova – il dottor Federico Manganella – che, deluso dai risultati ottenuti dal suo Ufficio Politico, decide di affidare l’inchiesta al giovane commissario. Il ragionamento del Questore è molto semplice e lineare: acclarata la matrice politica degli attentati che in tutte le questure d’Italia apparteneva, per competenza, all’Ufficio Politico, secondo Manganella era impossibile che si colpissero indiscriminatamente gli obiettivi più disparati – e fra questi le sedi di partiti politici sia di destra che di sinistra – senza che l’Ufficio Politico, a parte i sospetti sui soliti anarchici e sui membri della sinistra extra-parlamentare, riuscisse a trovare altre piste su cui lavorare. Meglio, quindi, affidare le indagini a gente nuova che vedesse le cose con occhi diversi e che, magari, giungesse in breve tempo a qualche risultato degno di nota.
Il commissario Juliano si mette subito al lavoro relazionando, quotidianamente, sia il Questore sia la Procura della Repubblica: inizia a girare per la città e a sentire i suoi confidenti. Prende informazioni dalle persone che pensa possano sapere qualcosa ed inizia ad effettuare accertamenti e perquisizioni.
Il primo frutto del lavoro del commissario Juliano giunge inaspettato una ventina di giorni dopo l’attentato al rettore Opocher: alla sala operativa della Questura di Padova, arriva la telefonata di un uomo che vuole restare anonimo, che afferma di avere informazioni sugli attentati di quel periodo e che chiede espressamente di voler parlare con Pasquale Juliano.
Pasquale Juliano (ex questore): «Ero nel mio ufficio quando, dal centralino, mi passarono una telefonata. Quando risposi, un uomo mi chiese se fossi il commissario Juliano. Alla mia riposta affermativa, l’uomo mi disse di avere informazioni sugli attentati dinamitardi che avevano colpito Padova a partire dalla primavera del 1968. Aggiunse che, per parlare, voleva 5.000.000 di lire e che, solo dopo aver ricevuto tale compenso, mi avrebbe svelato la sua identità ed i fatti che voleva raccontarmi. Gli risposi che si trattava di tanti soldi e che non era una cosa per la quale avrei potuto decidere io liberamente. L’uomo mi invitò a parlarne coi miei superiori e si congedò dicendomi che, da lì a qualche giorno, mi avrebbe richiamato per sapere cos’avevamo deciso.”
Al commissario Juliano quella telefonata appare come un’oasi nel deserto: non gli sembra vero di aver trovato la direzione giusta da imboccare, visto che era trascorso ormai parecchio tempo dall’inizio degli attentati e la Polizia non aveva ancora individuato nessun attentatore. Quel giorno stesso, Juliano riferisce al Questore in merito alla telefonata e riceve il benestare a trattare con lo sconosciuto.
Pasquale Juliano (ex questore): «Il Questore mi ordinò di dire allo sconosciuto che, se le informazioni in suo possesso fossero state utili, gli avremmo dato un premio in denaro e così, quando l’uomo richiamò, gli spiegai che prima avremmo verificato le sue dichiarazioni e che, solamente dopo, gli sarebbe stata corrisposta una ricompensa.»
Dall’altro capo del filo lo sconosciuto accetta e, finalmente, i due uomini si incontrano in Questura, nell’ufficio di Juliano, che rimane stupito di trovarsi dinanzi il giovane Nicolò Pezzato, una vecchia conoscenza della Polizia legata alla criminalità comune.
Pasquale Juliano (ex questore): «Quando mi trovai di fronte Pezzato, mi chiese subito se volessi sapere delle bombe. Gli chiesi, a mia volta, di quali bombe parlasse e lui accennò a quelle esplose alle sedi dell’MSI e del PSIUP del 29 marzo 1969. In più, fece riferimento ad un attentato dinamitardo alla sede del PCI di Rovigo e ad un altro nei confronti dell’onorevole Franco Franchi, membro dell’MSI di Vicenza. Mi disse che gli attentatori erano personaggi appartenenti alla destra extra-parlamentare che simpatizzavano per il Movimento Sociale. Domandai a Pezzato come facesse a sapere chi fossero gli autori materiali degli attentati e lui rispose che, da qualche tempo, era entrato in contatto con alcuni di loro. Aggiunse inoltre che, se gli avessi concesso un po’ di tempo, avrebbe raccolto molte più informazioni.»
Di fronte a queste parole, Juliano si convince che Nicolò Pezzato sarebbe potuto diventare quella “testa di ponte” che serviva alla Polizia per districarsi nel nugolo di attentati dinamitardi del biennio 1968/1969; senza pensarci due volte, strappa un foglietto dal suo block-notes, ci scrive sopra il suo numero privato di casa – cosa che, fino a quel momento, il commissario si era sempre ben guardato dal fare – e lo consegna a Pezzato dicendogli di utilizzarlo ogni qualvolta ve ne fosse stato il bisogno, perfino di notte.
Gli incontri fra Pezzato e Juliano iniziano così a farsi via via più frequenti e sempre con lo stesso cliché: Pezzato parla di questo o quell’attentato, fa riferimento a date e snocciola nomi su nomi come quelli di Massimiliano Fachini, Domenico Obriedan, Gustavo Bocchini Padiglione, Francesco Petraroli, Giuseppe Brancato.
Ma più Pezzato parla e più Juliano va in confusione: il poliziotto non ha idea di chi siano le persone nominate dall’inaspettato confidente perché queste sono al di fuori della criminalità comune con cui Juliano si è confrontato sino a quel momento. Per cui, durante uno degli incontri, il commissario chiede a Pezzato di fargli uno specchietto riassuntivo nel quale, per ogni attentato, vi fossero elencati i nomi di chi era coinvolto. Il confidente accetta, non prima di aver rammentato a Juliano che la Polizia doveva rispettare la sua parte di accordo e dargli un po’ di denaro.
Quando Juliano consegna a Manganella lo specchietto redatto da Pezzato, il Questore ne rimane talmente colpito che autorizza il commissario a consegnare la somma di 20.000 lire al confidente, con impegno di firma, da parte di quest’ultimo, della ricevuta di avvenuta riscossione. Juliano, bisognoso di supporto per districarsi nel modo della politica extra-parlamentare, ne approfitta per chiedere espressamente a Manganella se fosse possibile coinvolgere il collega Saverio Molino – capo dell’Ufficio Politico – nelle indagini.
Pasquale Juliano (ex questore): «Quando Pezzato mi consegnò lo specchietto che gli chiesi di redigere, lo portai al questore Manganella. Avevo assoluto bisogno di dare un senso a tutti i nomi elencati da Pezzato; perciò, chiesi al Questore di coinvolgere il capo dell’Ufficio Politico affinché mi desse un aiuto a svolgere le indagini e mi permettesse di fare chiarezza sui vari attentati. Il Questore era riluttante e, sulle prime, ribadì la sua volontà riguardo l’esclusiva direzione delle indagini che voleva restasse solo mia evitando che Molino intervenisse (d’altronde lo aveva escluso fin dal principio). Ma poi, vista la mia insistenza affinché cambiasse idea, il dottor Manganella decise di accontentarmi.»
Il coinvolgimento di Molino, però, non si dimostra affatto determinante così come Juliano si aspetta: ogni qualvolta che Juliano lo relaziona in merito alle informazioni ricevute da Pezzato, il capo dell’Ufficio Politico si limita ad ascoltare senza aprir bocca e dare alcuna indicazione. E a Juliano pare molto strano che Molino non dica nulla su nomi che dovrebbe senz’altro conoscere perché direttamente legati all’attentato al PSIUP e all’MSI; nonostante ciò, continua ad indagare sperando in cuor suo che, presto o tardi, Molino si decida a dargli un supporto nel senso compiuto del termine.
Dopo giorni di intenso lavoro anche notturno – nel 1969 la Polizia era ancora un corpo militare in cui non esistevano sindacati ed in cui gli ordini ricevuti non si discutevano – Juliano pretende che, all’ennesimo incontro con Pezzato, partecipino sia il questore Manganella sia il commissario Molino. Durante quest’incontro, Nicolò Pezzato parla di un giovane di Thiene – un piccolo paesino in provincia di Vicenza – che avrebbe custodito l’esplosivo utilizzato per gli attentati. Di quest’uomo, però, Pezzato non conosce il nome ma sa che è il responsabile dei volontari dell’MSI. E, dopo aver ascoltato le dichiarazioni del confidente di Juliano, finalmente Molino apre bocca affermando che le informazioni di Pezzato sono attendibili e che l’indagine sta procedendo nella giusta direzione.
Ma ecco che, ad inizio giugno del 1969, accade qualcosa. D’altronde – lo abbiamo ormai visto più volte – la nostra storia è talmente ricca di colpi di scena che, se fosse un film, lascerebbe gli spettatori incollati alle poltrone e senza fiato.
Per capire di cosa stiamo parlando, dobbiamo andare nell’appartamento buio di Pasquale Juliano: è notte e tutti dormono. Ad un certo punto, il telefono inizia a squillare. Juliano si sveglia con riluttanza perché ha sonno, ma sa che deve comunque rispondere: a quell’ora, infatti, la telefonata poteva giungere solo dalla Questura. Juliano risponde e, sorpreso, sente la voce di Pezzato dall’altro capo del ricevitore.
Pasquale Juliano (ex questore): «Quella notte il telefono squillò. Mi alzai e, cercando di non svegliare moglie e figli, andai a rispondere. Al telefono era Pezzato. Mentalmente maledissi il giorno che gli diedi il mio numero privato di casa, ma ormai la frittata era fatta. Gli chiesi cosa volesse a quell’ora e Pezzato mi disse che dovevamo incontrarci subito perché aveva una cosa importantissima da dirmi. Vista l’ora tarda, risposi che sarebbe stato meglio rimandare l’incontro all’indomani mattina, ma Pezzato insistette affinché ci incontrassimo, quella stessa notte, da lì a mezz’ora.»
I due uomini si incontrano in via Tommaseo, vicino alla chiesa della Pace e poco lontano dalla stazione ferroviaria. E se oggi quel posto è brulicante di gente quando la Fiera di Padova è aperta e per via della presenza di molti negozi e bar, a fine anni Sessanta la zona era poco frequentata e pure poco illuminata. In sintesi, il luogo ideale dove un poliziotto potesse incontrare un confidente.
Quando Juliano arriva, Nicolò Pezzato è già lì che lo aspetta. Il commissario chiede a Pezzato cos’avesse di tanto urgente da dirgli ed il confidente risponde che un suo amico – tale Francesco Tommasoni – doveva assolutamente parlare al commissario in merito agli attentati dinamitardi di quel periodo. Juliano dice a Pezzato che avrebbe incontrato il suo amico e si raccomanda di mandare Tommasoni in Questura il prima possibile. Premesso che la collaborazione di Tommasoni fosse tutt’altro che disinteressata perché era totalmente a scopo di lucro, l’uomo si reca in Questura qualche giorno dopo l’incontro notturno tra Pezzato e Juliano.
Pasquale Juliano (ex questore): «Quando Tommasoni si presentò nel mio ufficio chiedendo denaro in cambio di informazioni, dissi anche a lui che, prima di elargirgli qualsiasi compenso, si sarebbero rese necessarie delle verifiche alle sue dichiarazioni. E così come la cosa aveva già funzionato con Pezzato, funzionò pure con Tommasoni. Mi disse che conosceva un gruppo di persone, molto pericolose, che avevano il loro quartier generale a Padova ma che, per com’era organizzato, poteva operare anche in grandi centri come Milano e Roma. Io risposi che Pezzato mi aveva già riferito di un gruppo del genere, ma Tommasoni replicò dicendomi che le persone cui si riferiva erano altre e non le stesse di cui mi aveva detto Pezzato.»
I nomi che Tommasoni rivelerà a Juliano saranno i nomi che, d’ora in avanti, diverranno il cardine fondamentale della nostra storia sia per il ruolo che rivestiranno, sia per ciò che riguarderà, molto presto, la carriera del commissario stesso: si tratta dell’avvocato padovano Franco Freda, del libraio padovano Giovanni Ventura e di Marco Pozzan, che di professione fa il bidello presso l’istituto per ciechi di Padova “Luigi Configliachi”.
Nell’opinione pubblica e in molti addetti ai lavori inizia ad insinuarsi il dubbio che, nei fatti di piazza Fontana, siano troppe le cose che non tornino. Alcuni giornalisti – fra loro Camilla Cederna, Corrado Stajano, Giorgio Bocca, Giampaolo Pansa – coordinati dall’avvocato Eduardo Di Giovanni e dal giornalista Marco Ligini (appartenente a Lotta Continua) creano un collettivo di “contro-informazione” che punta a cercare la verità: saranno queste persone che conieranno il termine “strage di Stato”, che diventa anche il titolo del libro che racconta la loro inchiesta.
Giorgio Boatti (giornalista e scrittore): «Il lavoro del gruppo di contro-informazione è stato molto importante per due motivi essenziali: in primo luogo perché è riuscito a fare emergere i piccoli brandelli di verità che venivano adeguatamente nascosti; in secondo luogo, perché ha fornito un modo per interpretarli. In sintesi, la contro-informazione ha dato, all’opinione pubblica, una sorta di “kit interpretativo” che ha aiutato a comprendere cosa stava accadendo sotto gli occhi della nazione intera. Il lavoro del collettivo aiutò a distinguere la verità dalle menzogne e a capire che, quando si parla di stragi come fu quella di piazza Fontana, il potere costituito non è mai neutrale ma diviene parte attiva di tali nefandezze. La contro-informazione aiutò ad identificare il buono dal meno buono e dal cattivo e, non per ultimo, aiutò a constatare come, nel fenomeno stragista che iniziò con l’attentato alla Banca dell’Agricoltura, vi fosse sempre lo stesso modus operandi che si ripeteva all’infinito. Ecco: questo sparuto gruppo di giornalisti ed avvocati – che io definisco “veri democratici” – fece un lavoro superbo nonostante i pochissimi mezzi a disposizione.»
Ad affiancare il collettivo di contro-informazione nella ricerca della verità, ci sono anche poliziotti e magistrati che, da qualche tempo, pensano di aver imboccato la direzione giusta per catturare mandanti ed esecutori della strage. Per capire di cosa stiamo parlando, però, dobbiamo tornare a Ruvo di Puglia, dove avevamo lasciato Pasquale Juliano mentre, sgomento dinanzi al televisore, assiste ai funerali delle vittime della strage di piazza Fontana.
Ma chi è Pasquale Juliano e, soprattutto, cos’ha a che fare con la storia che stiamo raccontando?
Pasquale Juliano nasce il 31 maggio 1932 ad Ostuni, in provincia di Brindisi, da padre napoletano e madre pugliese. Dopo la maturità classica, si iscrive all’università di Bari dove, nel 1956, si laurea in giurisprudenza. Intrapresa la carriera forense, il giovane Juliano inizia a lavorare come procuratore legale in attesa trascorrano i sei anni necessari a diventare avvocato. Giunto a metà percorso – siamo nel 1959 – Pasquale conosce Rosa, se ne innamora e la sposa in quello stesso anno. Il matrimonio con la sua amata cambia totalmente i piani del futuro avvocato: la paga che percepisce come procuratore legale non basta a mantenerli entrambi – a quei tempi un procuratore aveva un salario pari alla metà di quello di un avvocato e, a livello operativo, poteva patrocinare solo alcune cause – per cui Pasquale deve trovare un’alternativa che gli permetta di lavorare subito a stipendio pieno. Così decide, sempre nel 1959, di partecipare a diversi concorsi pubblici, finendo per vincere quello di vice commissario nelle Guardie di Pubblica Sicurezza. Col grado di vice commissario aggiunto, il primo incarico di Juliano è presso la Questura di Matera. È qui che, nel 1960, Rosa e Pasquale hanno Guglielmo, il loro primo figlio. Per i novelli genitori, Matera sembra la città ideale per mettere le radici: è piccola, è a misura d’uomo ed ha un bassissimo tasso delinquenziale. Ma solo dopo due anni di permanenza nella città lucana, Juliano viene trasferito a Novara dove, col grado di commissario e grazie alle sue capacità di acuto osservatore e fine investigatore, diventa capo della Squadra Mobile. Resta nella città piemontese fino al 1966; nel frattempo, la famiglia di Pasquale e Rosa si allarga con l’arrivo, nel 1963, del secondogenito Antonio. Nel 1972, infine, la nascita di Graziano – il terzo maschietto di casa – allieterà la vita della famiglia Juliano. In questi anni, Pasquale lavora sodo e si fa sempre più apprezzare sia dai suoi superiori sia dagli uomini sotto il suo comando: il commissario è zelante ed attento ma, soprattutto, utilizza metodi di indagine ancora pressoché sconosciuti nel lavoro di polizia. Ecco perché, ad un certo punto, nel 1966 verrà trasferito a Padova dove, sempre come capo della Squadra Mobile, inizierà le indagini che si riveleranno cruciali per la nostra storia.
Padova, in quegli anni, nonostante fosse una città apparentemente tranquilla, è in realtà molto difficile poiché molto attiva dal punto di vista politico, con particolare menzione all’eversione di destra. E, quando Juliano vi giunge, le bombe esplodono già da un po’: è il 30 aprile 1968 quando il primo ordigno scoppia di fronte alla casa del questore Ferruccio Allitto Bonanno, funzionario che, nel 1972, ritroveremo a capo della Questura di Milano quando verrà ucciso il commissario Calabresi.
Il flusso di esplosioni nel 1968 sembra non avere fine: il 2 luglio una bomba esplode nei pressi del Liceo Classico “Tito Livio” e, il 16 ottobre, ne scoppia un’altra all’ingresso dell’università. L’anno successivo non è da meno: il 26 gennaio 1969 una bomba esplode vicino al palazzo di giustizia; il 5 febbraio, un’altra fa saltare in aria l’entrata del Gazzettino e, il 29 marzo, diverse bombe molotov vengono lanciate contro le sedi del Movimento Sociale Italiano e del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria. Ma è il 15 aprile 1969 che i “bombaroli” danno il meglio di loro stessi: oltre ad un attacco alla sede del Partito Comunista Italiano, una bomba viene piazzata nello studio di Enrico Giuseppe Opocher, filosofo e magnifico rettore dell’Università degli Studi di Padova.
A base di nitrato di potassio, zolfo, carbone, polvere di alluminio e magnesio, l’ordigno viene posto, sotto mentite spoglie, su uno degli scaffali della libreria del rettorato ed esplode poco prima delle 23:00 di quella stessa sera, quando l’università è chiusa e gli uffici sono deserti. I danni provocati dall’esplosione sono ingenti: libri, suppellettili e parte del mobilio vanno a fuoco così come vanno in frantumi i vetri ed il vasellame. Porte ed infissi vengono scardinati e le pareti vengono investite, a mezz’aria, da una pioggia di schegge che l’energia dell’esplosione dissemina in giro come fossero proiettili. Segni evidenti dell’esplosione sono, inoltre, ben visibili nei locali adiacenti all’ufficio di Opocher. Dalle perizie effettuate nello studio del rettore, gli esperti della Scientifica confermeranno che la bomba era confezionata in un contenitore metallico posto all’interno di una borsa di plastica completa di manico e fibbia. Lo stesso rettore, interrogato nei giorni successivi, dirà agli inquirenti che, senza alcun dubbio, l’attentato di cui era stato vittima aveva una matrice neofascista.
Pasquale Juliano inizia le indagini sugli attentati dinamitardi il 16 aprile 1969, il giorno dopo lo scoppio della bomba nell’ufficio del rettore Opocher: è lo stesso questore di Padova – il dottor Federico Manganella – che, deluso dai risultati ottenuti dal suo Ufficio Politico, decide di affidare l’inchiesta al giovane commissario. Il ragionamento del Questore è molto semplice e lineare: acclarata la matrice politica degli attentati che in tutte le questure d’Italia apparteneva, per competenza, all’Ufficio Politico, secondo Manganella era impossibile che si colpissero indiscriminatamente gli obiettivi più disparati – e fra questi le sedi di partiti politici sia di destra che di sinistra – senza che l’Ufficio Politico, a parte i sospetti sui soliti anarchici e sui membri della sinistra extra-parlamentare, riuscisse a trovare altre piste su cui lavorare. Meglio, quindi, affidare le indagini a gente nuova che vedesse le cose con occhi diversi e che, magari, giungesse in breve tempo a qualche risultato degno di nota.
Il commissario Juliano si mette subito al lavoro relazionando, quotidianamente, sia il Questore sia la Procura della Repubblica: inizia a girare per la città e a sentire i suoi confidenti. Prende informazioni dalle persone che pensa possano sapere qualcosa ed inizia ad effettuare accertamenti e perquisizioni.
Il primo frutto del lavoro del commissario Juliano giunge inaspettato una ventina di giorni dopo l’attentato al rettore Opocher: alla sala operativa della Questura di Padova, arriva la telefonata di un uomo che vuole restare anonimo, che afferma di avere informazioni sugli attentati di quel periodo e che chiede espressamente di voler parlare con Pasquale Juliano.
Pasquale Juliano (ex questore): «Ero nel mio ufficio quando, dal centralino, mi passarono una telefonata. Quando risposi, un uomo mi chiese se fossi il commissario Juliano. Alla mia riposta affermativa, l’uomo mi disse di avere informazioni sugli attentati dinamitardi che avevano colpito Padova a partire dalla primavera del 1968. Aggiunse che, per parlare, voleva 5.000.000 di lire e che, solo dopo aver ricevuto tale compenso, mi avrebbe svelato la sua identità ed i fatti che voleva raccontarmi. Gli risposi che si trattava di tanti soldi e che non era una cosa per la quale avrei potuto decidere io liberamente. L’uomo mi invitò a parlarne coi miei superiori e si congedò dicendomi che, da lì a qualche giorno, mi avrebbe richiamato per sapere cos’avevamo deciso.”
Al commissario Juliano quella telefonata appare come un’oasi nel deserto: non gli sembra vero di aver trovato la direzione giusta da imboccare, visto che era trascorso ormai parecchio tempo dall’inizio degli attentati e la Polizia non aveva ancora individuato nessun attentatore. Quel giorno stesso, Juliano riferisce al Questore in merito alla telefonata e riceve il benestare a trattare con lo sconosciuto.
Pasquale Juliano (ex questore): «Il Questore mi ordinò di dire allo sconosciuto che, se le informazioni in suo possesso fossero state utili, gli avremmo dato un premio in denaro e così, quando l’uomo richiamò, gli spiegai che prima avremmo verificato le sue dichiarazioni e che, solamente dopo, gli sarebbe stata corrisposta una ricompensa.»
Dall’altro capo del filo lo sconosciuto accetta e, finalmente, i due uomini si incontrano in Questura, nell’ufficio di Juliano, che rimane stupito di trovarsi dinanzi il giovane Nicolò Pezzato, una vecchia conoscenza della Polizia legata alla criminalità comune.
Pasquale Juliano (ex questore): «Quando mi trovai di fronte Pezzato, mi chiese subito se volessi sapere delle bombe. Gli chiesi, a mia volta, di quali bombe parlasse e lui accennò a quelle esplose alle sedi dell’MSI e del PSIUP del 29 marzo 1969. In più, fece riferimento ad un attentato dinamitardo alla sede del PCI di Rovigo e ad un altro nei confronti dell’onorevole Franco Franchi, membro dell’MSI di Vicenza. Mi disse che gli attentatori erano personaggi appartenenti alla destra extra-parlamentare che simpatizzavano per il Movimento Sociale. Domandai a Pezzato come facesse a sapere chi fossero gli autori materiali degli attentati e lui rispose che, da qualche tempo, era entrato in contatto con alcuni di loro. Aggiunse inoltre che, se gli avessi concesso un po’ di tempo, avrebbe raccolto molte più informazioni.»
Di fronte a queste parole, Juliano si convince che Nicolò Pezzato sarebbe potuto diventare quella “testa di ponte” che serviva alla Polizia per districarsi nel nugolo di attentati dinamitardi del biennio 1968/1969; senza pensarci due volte, strappa un foglietto dal suo block-notes, ci scrive sopra il suo numero privato di casa – cosa che, fino a quel momento, il commissario si era sempre ben guardato dal fare – e lo consegna a Pezzato dicendogli di utilizzarlo ogni qualvolta ve ne fosse stato il bisogno, perfino di notte.
Gli incontri fra Pezzato e Juliano iniziano così a farsi via via più frequenti e sempre con lo stesso cliché: Pezzato parla di questo o quell’attentato, fa riferimento a date e snocciola nomi su nomi come quelli di Massimiliano Fachini, Domenico Obriedan, Gustavo Bocchini Padiglione, Francesco Petraroli, Giuseppe Brancato.
Ma più Pezzato parla e più Juliano va in confusione: il poliziotto non ha idea di chi siano le persone nominate dall’inaspettato confidente perché queste sono al di fuori della criminalità comune con cui Juliano si è confrontato sino a quel momento. Per cui, durante uno degli incontri, il commissario chiede a Pezzato di fargli uno specchietto riassuntivo nel quale, per ogni attentato, vi fossero elencati i nomi di chi era coinvolto. Il confidente accetta, non prima di aver rammentato a Juliano che la Polizia doveva rispettare la sua parte di accordo e dargli un po’ di denaro.
Quando Juliano consegna a Manganella lo specchietto redatto da Pezzato, il Questore ne rimane talmente colpito che autorizza il commissario a consegnare la somma di 20.000 lire al confidente, con impegno di firma, da parte di quest’ultimo, della ricevuta di avvenuta riscossione. Juliano, bisognoso di supporto per districarsi nel modo della politica extra-parlamentare, ne approfitta per chiedere espressamente a Manganella se fosse possibile coinvolgere il collega Saverio Molino – capo dell’Ufficio Politico – nelle indagini.
Pasquale Juliano (ex questore): «Quando Pezzato mi consegnò lo specchietto che gli chiesi di redigere, lo portai al questore Manganella. Avevo assoluto bisogno di dare un senso a tutti i nomi elencati da Pezzato; perciò, chiesi al Questore di coinvolgere il capo dell’Ufficio Politico affinché mi desse un aiuto a svolgere le indagini e mi permettesse di fare chiarezza sui vari attentati. Il Questore era riluttante e, sulle prime, ribadì la sua volontà riguardo l’esclusiva direzione delle indagini che voleva restasse solo mia evitando che Molino intervenisse (d’altronde lo aveva escluso fin dal principio). Ma poi, vista la mia insistenza affinché cambiasse idea, il dottor Manganella decise di accontentarmi.»
Il coinvolgimento di Molino, però, non si dimostra affatto determinante così come Juliano si aspetta: ogni qualvolta che Juliano lo relaziona in merito alle informazioni ricevute da Pezzato, il capo dell’Ufficio Politico si limita ad ascoltare senza aprir bocca e dare alcuna indicazione. E a Juliano pare molto strano che Molino non dica nulla su nomi che dovrebbe senz’altro conoscere perché direttamente legati all’attentato al PSIUP e all’MSI; nonostante ciò, continua ad indagare sperando in cuor suo che, presto o tardi, Molino si decida a dargli un supporto nel senso compiuto del termine.
Dopo giorni di intenso lavoro anche notturno – nel 1969 la Polizia era ancora un corpo militare in cui non esistevano sindacati ed in cui gli ordini ricevuti non si discutevano – Juliano pretende che, all’ennesimo incontro con Pezzato, partecipino sia il questore Manganella sia il commissario Molino. Durante quest’incontro, Nicolò Pezzato parla di un giovane di Thiene – un piccolo paesino in provincia di Vicenza – che avrebbe custodito l’esplosivo utilizzato per gli attentati. Di quest’uomo, però, Pezzato non conosce il nome ma sa che è il responsabile dei volontari dell’MSI. E, dopo aver ascoltato le dichiarazioni del confidente di Juliano, finalmente Molino apre bocca affermando che le informazioni di Pezzato sono attendibili e che l’indagine sta procedendo nella giusta direzione.
Ma ecco che, ad inizio giugno del 1969, accade qualcosa. D’altronde – lo abbiamo ormai visto più volte – la nostra storia è talmente ricca di colpi di scena che, se fosse un film, lascerebbe gli spettatori incollati alle poltrone e senza fiato.
Per capire di cosa stiamo parlando, dobbiamo andare nell’appartamento buio di Pasquale Juliano: è notte e tutti dormono. Ad un certo punto, il telefono inizia a squillare. Juliano si sveglia con riluttanza perché ha sonno, ma sa che deve comunque rispondere: a quell’ora, infatti, la telefonata poteva giungere solo dalla Questura. Juliano risponde e, sorpreso, sente la voce di Pezzato dall’altro capo del ricevitore.
Pasquale Juliano (ex questore): «Quella notte il telefono squillò. Mi alzai e, cercando di non svegliare moglie e figli, andai a rispondere. Al telefono era Pezzato. Mentalmente maledissi il giorno che gli diedi il mio numero privato di casa, ma ormai la frittata era fatta. Gli chiesi cosa volesse a quell’ora e Pezzato mi disse che dovevamo incontrarci subito perché aveva una cosa importantissima da dirmi. Vista l’ora tarda, risposi che sarebbe stato meglio rimandare l’incontro all’indomani mattina, ma Pezzato insistette affinché ci incontrassimo, quella stessa notte, da lì a mezz’ora.»
I due uomini si incontrano in via Tommaseo, vicino alla chiesa della Pace e poco lontano dalla stazione ferroviaria. E se oggi quel posto è brulicante di gente quando la Fiera di Padova è aperta e per via della presenza di molti negozi e bar, a fine anni Sessanta la zona era poco frequentata e pure poco illuminata. In sintesi, il luogo ideale dove un poliziotto potesse incontrare un confidente.
Quando Juliano arriva, Nicolò Pezzato è già lì che lo aspetta. Il commissario chiede a Pezzato cos’avesse di tanto urgente da dirgli ed il confidente risponde che un suo amico – tale Francesco Tommasoni – doveva assolutamente parlare al commissario in merito agli attentati dinamitardi di quel periodo. Juliano dice a Pezzato che avrebbe incontrato il suo amico e si raccomanda di mandare Tommasoni in Questura il prima possibile. Premesso che la collaborazione di Tommasoni fosse tutt’altro che disinteressata perché era totalmente a scopo di lucro, l’uomo si reca in Questura qualche giorno dopo l’incontro notturno tra Pezzato e Juliano.
Pasquale Juliano (ex questore): «Quando Tommasoni si presentò nel mio ufficio chiedendo denaro in cambio di informazioni, dissi anche a lui che, prima di elargirgli qualsiasi compenso, si sarebbero rese necessarie delle verifiche alle sue dichiarazioni. E così come la cosa aveva già funzionato con Pezzato, funzionò pure con Tommasoni. Mi disse che conosceva un gruppo di persone, molto pericolose, che avevano il loro quartier generale a Padova ma che, per com’era organizzato, poteva operare anche in grandi centri come Milano e Roma. Io risposi che Pezzato mi aveva già riferito di un gruppo del genere, ma Tommasoni replicò dicendomi che le persone cui si riferiva erano altre e non le stesse di cui mi aveva detto Pezzato.»
I nomi che Tommasoni rivelerà a Juliano saranno i nomi che, d’ora in avanti, diverranno il cardine fondamentale della nostra storia sia per il ruolo che rivestiranno, sia per ciò che riguarderà, molto presto, la carriera del commissario stesso: si tratta dell’avvocato padovano Franco Freda, del libraio padovano Giovanni Ventura e di Marco Pozzan, che di professione fa il bidello presso l’istituto per ciechi di Padova “Luigi Configliachi”.
Pasquale Juliano con sua moglie Rosa (fotografia concessa da Antonio Juliano, figlio di Pasquale Juliano)