30 aprile 2021

LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA (puntata n° 6)

Fra tutte le persone che, in diretta sul primo canale RAI, stanno assistendo alle esequie delle vittime dell’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, ce n’è una che si chiama Pasquale Juliano e che, nella storia che stiamo raccontando, rivestirà un ruolo fondamentale. Il signor Juliano, che fino a pochi mesi prima si trovava a Padova, sta seguendo la cerimonia funebre da Ruvo di Puglia – in provincia di Bari – a ben ottocentocinquanta chilometri da Milano. In realtà sono tre giorni che Juliano è incollato al televisore, esattamente dal 12 dicembre quando sono esplose le bombe nel capoluogo lombardo e nella capitale.
Di Pasquale Juliano avremo modo di parlare più avanti e di farlo in maniera estremamente approfondita; per ora ricordiamoci il suo nome e torniamo a Milano, a quel venerdì 12 dicembre 1969 ed a ciò che sta accadendo quella stessa sera, dopo che, in piazza Fontana, si è consumata la tragedia che ha colpito al cuore tutto il Paese.
Sono circa le 18:40 quando, al circolo anarchico di via Scaldasole che si trova nel quartiere Ticinese, arriva un’auto-civetta dell’Ufficio Politico della Questura di Milano. L’equipaggio è composto dal commissario Luigi Calabresi e da due agenti. Sono lì per effettuare una perquisizione e fermare alcuni anarchici. Mentre stanno per entrare nell’edificio, arriva un uomo in sella ad un motorino: si chiama Giuseppe Pinelli – ma tutti lo chiamano “Pino” – ed è uno dei principali attivisti del circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa” da cui è appena venuto via.
Non appena il commissario Calabresi vede Pinelli, lo invita a seguirlo in Questura per delle domande. E Pinelli, senza batter ciglio, lo fa: riaccende il suo motorino ed attraversa mezza città seguendo l’auto della Polizia. Quando arrivano in Questura, il commissario Calabresi accompagna Pinelli all’interno del salone sito al quarto piano, dove si trova l’Ufficio Politico. Pinelli va così ad aggiungersi al centinaio di persone fermate che attendono di essere interrogate.
Giuseppe Pinelli, classe 1928, è originario di Milano e dal 1954 lavora alla stazione ferroviaria di Porta Garibaldi come manovratore. Si sposa l’anno successivo con Licia Rognini; la loro unione darà alla luce le figlie Claudia (nel 1960) e Silvia (nel 1961).
Dopo aver militato nella resistenza antifascista, Pinelli non abbandona gli ideali libertari che, proprio durante la guerra, si sono radicati profondamente in lui: nel 1969 aderisce al movimento Gioventù Libertaria per poi fondare, solo due anni più tardi, il circolo “Sacco e Vanzetti”. A seguito dello sfratto esecutivo avvenuto all’inizio del 1968, il circolo viene chiuso e, nel maggio di quello stesso anno, Giuseppe Pinelli inaugura il circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa” di cui, come abbiamo detto, diverrà uno dei maggiori attivisti ed anche un rappresentante di spicco dell’intero panorama anarchico milanese.
Luigi Calabresi nasce a Roma nel 1937 e, dopo essersi laureato in giurisprudenza all’università “La Sapienza” nel 1964, decide di fare il concorso per il ruolo di vice commissario nel Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza. Lo vince nel 1965 e viene trasferito a Milano, dove inizia subito a lavorare nell’Ufficio Politico comandato dal commissario capo Antonino Allegra. Calabresi ha così il modo di entrare in contatto con gli ambienti anarchici e della sinistra extraparlamentare che, proprio in quegli anni, iniziano ad organizzarsi in gruppi più strutturati nei quali si cominciava a prendere coscienza della lotta di classe come strumento volto ad ottenere maggiori diritti nel mondo del lavoro e quell’eguaglianza sociale che fornisse condizioni di vita migliori a chiunque.
Sposato con Gemma Capra, è un cattolico fervente ed osservante che preferisce, nel suo lavoro, impiegare il dialogo a scapito di qualunque manifestazione di forza; proprio per questo, con alcuni esponenti anarchici e di sinistra – come Mario Capanna e lo stesso Giuseppe Pinelli – Luigi Calabresi, nel frattempo promosso commissario, instaura un rapporto orientato al confronto pacifico affinché le agitazioni e le manifestazioni di piazza non sfociassero in scontri armati fra dimostranti e Polizia.
Sono trascorsi tre giorni da quando Giuseppe Pinelli è stato fermato: secondo quanto prescrive la legge, le persone sottoposte al fermo di polizia possono essere trattenute per un massimo di quarantott’ore trascorse le quali, in mancanza di un provvedimento dell’autorità giudiziaria che ne decreti il trasferimento in carcere, devono essere rilasciate. Quasi tutti i fermati vengono mandati a S, Vittore – il carcere di Milano – o rilasciati. Giuseppe Pinelli, invece, nonostante le quarantott’ore previste siano ormai trascorse da un pezzo, è ancora in Questura.
Achille Serra (ex prefetto): «Erano circa le 23:30 del 15 dicembre e Giuseppe Pinelli era nella stanza di Luigi Calabresi; insieme ai due, c’erano quattro poliziotti ed un tenente dei Carabinieri. Pinelli, da quando era stato fermato, non aveva ancora fatto alcuna ammissione. Ad un certo punto, Calabresi venne convocato dal dottor Allegra ed uscì dalla stanza.»
Nell’ufficio di Calabresi, oltre a quest’ultimo e a Giuseppe Pinelli, ci sono i brigadieri di Pubblica Sicurezza Antonio Vito Donato Panessa, Giuseppe Antonio Caracuta, Carlo Mario Mainardi, Pietro Mucilli – tutti in forza all’Ufficio Politico – e il tenente dei Carabinieri Savino Lograno. Giuseppe Pinelli è molto provato e stanco: ha mangiato pochissimo – qualche panino imbottito e nulla di più – e dormito ancora meno, trascorrendo quasi tutto il tempo nello stanzone al quarto piano dove venivano posti i fermati in attesa di interrogatorio.
Achille Serra (ex prefetto): «Quando Calabresi si recò dal suo capo, quest’ultimo pensò di tentare un bluff per verificare la reazione che avrebbe avuto Pinelli. L’idea di Antonino Allegra era quella di dire al ferroviere che uno dei suoi compagni aveva ammesso di essere coinvolto nell’attentato di piazza Fontana così da mettere Pinelli in un angolo e, magari, farlo cadere in contraddizione e chiarire il suo ruolo eventuale nella strage. Calabresi rientrò nell’ufficio dove l’aria era pregna del fumo delle sigarette che Pinelli e gli altri fumavano in continuazione. “Valpreda ha parlato!”, esclamò Calabresi, sapendo di mentire poiché Valpreda non aveva dichiarato un bel niente. Giuseppe Pinelli rimase attonito, confuso. Non seppe più cosa dire a parte, con voce colma di delusione ed amarezza: “È la fine dell’anarchia”. Di certo mai avrebbe immaginato che uno dei suoi compagni potesse aver compiuto una nefandezza simile. Calabresi, quindi, prese il verbale dell’interrogatorio per portarlo ad Allegra ed uscì nuovamente dal suo ufficio lasciando Pinelli in compagnia dei suoi uomini e del tenente Lograno.»
Ma chi è il Valpreda di cui parla Luigi Calabresi?
Pietro Valpreda nasce a Milano nel 1932 e, quando avviene la strage di piazza Fontana, ha 37 anni. Fa il ballerino di professione e, proprio per questo, da Milano si è trasferito a Roma dove ottiene diversi ruoli a teatro, al cinema ed in televisione. Lavora, perfino, nelle compagnie di Carlo Dapporto e Walter Chiari.
Frequentatore dei circoli anarchici milanesi e compagno di Giuseppe Pinelli fin dai primi anni Sessanta, Pietro Valpreda, una volta giunto a Roma, non abbandona gli ideali anarchici. Si avvicina al circolo anarchico “Bakunin” dove conosce Roberto Gargamelli ed altri militanti coi quali, dopo qualche tempo, fonderà il circolo anarchico “22 marzo”.
La mattina del 15 dicembre, mentre in Duomo si stanno celebrando i funerali delle vittime della strage e Giuseppe Pinelli è confinato nel salone al quarto piano della Questura con gli altri fermati, Pietro Valpreda entra nel palazzo di giustizia del capoluogo lombardo: è stato convocato dal giudice Antonio Amati per essere interrogato sul cosiddetto Bollettino degli Iconoclasti in cui Valpreda, Aniello D’Errico e Leonardo Claps – “gli Iconoclasti”, appunto – avevano fatto riferimento agli attentati dinamitardi al padiglione della FIAT presso la Fiera Campionaria e a quello della Stazione Centrale del 25 aprile 1969. Il manifesto si era concluso con un attacco frontale e diretto a papa Paolo VI e, a causa di ciò, oltre ad essere indiziati per le bombe di aprile, i tre uomini erano pure accusati del reato di vilipendio a capo di stato straniero.
Sapendo di essere estraneo alle bombe del 25 aprile e di non incorrere in sanzioni pesanti per l’accusa di vilipendio, anziché presentarsi all’interrogatorio insieme al suo avvocato, Pietro Valpreda preferisce recarsi in tribunale in compagnia della prozia Rachele Torri – sorella di sua nonna materna – presso cui il ballerino trova alloggio quando soggiorna a Milano.
Dopo l’interrogatorio col giudice Amati, Valpreda e la signora Rachele stanno per uscire dal tribunale; all’improvviso, però, accade qualcosa.
Due uomini si avvicinano a Valpreda e, dopo averlo affiancato, lo afferrano per le braccia, lo sollevano di peso e lo portano in una stanza. Valpreda è sgomento e non capisce cosa stia succedendo: gli uomini sono poliziotti e lo stanno arrestando. La signora Rachele corre loro appresso, e in dialetto milanese, urla al nipote: «Pietro, ma dov’è che ti portano!? Cos’hai fatto!?»
Nell’androne del tribunale, proprio in quel momento, si trova a passare un giornalista del Corriere della Sera che si chiama Giorgio Zicari – ricordiamoci il suo nome perché lo ritroveremo più avanti – il quale assiste all’arresto di Valpreda. Immaginando si tratti di una cosa grossa per via della dinamica della scena, si affretta a seguire i tre uomini e a giungere nei pressi della stanza dove il ballerino era stato condotto. Dall’interno – lo scriverà sul giornale – sente una persona urlare: «Ma chi siete voi anarchici?! Che cosa volete?! Perché amate così tanto il sangue?!».
Dal tribunale, Pietro Valpreda viene condotto in via Fatebenefratelli, in Questura. Da lì viene trasferito a Roma, nel carcere di Regina Coeli, dove verrà interrogato per tutta la notte. Anche i giudici di Roma, infatti, lo avevano convocato per gli attentati del 25 aprile di cui erano indiziati gli anarchici. Ma lui, spiegando che era stato convocato a Milano per gli stessi motivi, aveva chiesto un rinvio dell’interrogatorio. La mattina dopo – è il 16 dicembre – il giudice Vittorio Occorsio gli contesta formalmente l’accusa di omicidio volontario e concorso in strage per quattordici persone – perché fino a quel momento le vittime sono ancora quattordici – e di lesioni gravissime nei confronti di altre ottanta: in sintesi, per gli inquirenti, l’esecutore materiale dell’attentato di piazza Fontana è lui, Pietro Valpreda.
Ora che abbiamo conosciuto Pietro Valpreda ed abbiamo visto come sia entrato a gamba tesa nella nostra storia, dobbiamo tornare al quarto piano della Questura di Milano, dove abbiamo lasciato Giuseppe Pinelli nell’ufficio del commissario Calabresi.
Il terzo colpo di scena della nostra storia giunge inaspettato pochi minuti prima della mezzanotte quando, improvvisamente, Giuseppe Pinelli cade dalla finestra dell’ufficio in cui era interrogato: Calabresi è appena uscito dalla sua stanza quando sente un urlo lancinante ed un tonfo sordo. Rientra immediatamente vedendo i poliziotti ed il tenente affacciati alla finestra. I loro volti sono sconvolti e Pinelli non c’è più: si trova quattro piani più sotto, sopra un’aiuola del cortile interno della Questura che, purtroppo, non basterà ad attutire la caduta del ferroviere.
Soccorso e trasportato all’ospedale Fatebenefratelli in stato di incoscienza, Giuseppe Pinelli morirà all’1:50 del 16 dicembre 1969 in seguito ai traumi riportati dalla caduta; i medici, pur portandolo in sala operatoria per un intervento chirurgico d’urgenza, non riusciranno a salvargli la vita.

Giuseppe Pinelli (fotografia reperita su Internet)

Pietro Valpreda (fotografia reperita su Internet)

Luigi Calabresi (fotografia reperita su Internet)