I funerali delle vittime di piazza Fontana si
tengono tre giorni dopo, lunedì 15 dicembre 1969: è una giornata fredda e
nebbiosa, come quelle che c’erano una volta a Milano.
All’obitorio di via Mangiagalli, visto lo stato pietoso dei corpi e l’impossibilità fisica di poterli vestire coi loro abiti, il personale medico pensa di avvolgere, nella bandiera tricolore, ciò che resta delle salme. Ma tutte le famiglie si oppongono a tale decisione, per cui i corpi vengono avvolti in normali lenzuoli e deposti dentro alle bare.
Paolo Dendena (figlio di Pietro Dendena): «Quando ci dissero che mio padre, insieme alle altre vittime della strage, sarebbe stato avvolto dentro al tricolore, sia mia madre che mia sorella Francesca si opposero fermamente. Non era infatti possibile che, in Italia, una persona entrasse in una banca per lavorare e non ne uscisse più.»
Le sedici bare, tutte uguali e fatte di scuro legno di mogano, partono in ordine alfabetico dall’obitorio di via Mangiagalli per dirigersi verso il Duomo, luogo in cui le esequie verranno celebrate. Nel percorso, che transita anche da piazza Fontana, il più lungo corteo funebre che l’Italia abbia mai visto è salutato da tanti cittadini che, agli incroci, scendono dalle auto togliendosi il cappello in segno di rispetto.
Fortunato Zinni (ex dipendente e funzionario della Banca Nazionale dell’Agricoltura): «Il lunedì dei funerali, la Banca Nazionale dell’Agricoltura aprì alle 8:30 in punto. Le macerie erano state rimosse in fretta e furia e, nel salone, esattamente vicino al buco che l’esplosione aveva creato sul pavimento, erano state poste delle corone di fiori sorvegliate da due carabinieri in alta uniforme. Una volta giunto in piazza Duomo, ricordo che la cosa che mi colpì maggiormente fu la grandissima folla presente al rito funebre. Erano tantissimi ma c’era un silenzio assoluto, interrotto soltanto dal pianto di qualcuno. Molti pregavano, altri si facevano il segno della croce… I loro sguardi mi bloccavano tanto che, ad ogni passo, mi sembrava di non toccare il selciato che avevo sotto ai piedi. C’erano tutti – io sono convinto che ci fosse tutta la Milano che mandava avanti la città – e nessuno li aveva chiamati: erano venuti da soli.»
Nel Duomo di Milano – sul cui portone principale campeggia la scritta «Milano s’inchina alle vittime innocenti e prega pace» – si assiepano più di ventimila persone mentre all’esterno, nella piazza e nelle vie adiacenti, se ne contano almeno trecentomila. Ci sono i metalmeccanici della Marelli, della Breda e della Falk – che si occupano del servizio d’ordine – e la gente comune – impiegati, studenti, casalinghe, liberi professionisti – venuta lì per testimoniare la propria vicinanza ai parenti delle vittime. Infine, in rappresentanza dello Stato, ci sono tutte le autorità con, in testa, il presidente della Camera Sandro Pertini e quello del Consiglio Mariano Rumor che arriva a Milano con oltre un’ora di ritardo.
Nella piazza stracolma di gente, non si sente volare una mosca: non ci sono slogan, né striscioni, né fischi e né applausi; c’è solo quell’enorme massa di gente silenziosa e composta che partecipa, commossa, al dolore dei parenti delle vittime della strage.
Paolo Dendena (figlio di Pietro Dendena): «Ricordo di aver smesso di piangere… Ero accanto a mia madre e a mia sorella e continuavo a fare il giro della bara di mio padre come a volergli dare un’ultima carezza. Ero un bambino di 10 anni e, pur capendo che mio padre era morto, non mi rendevo ancora conto di cosa volesse dire crescere senza di lui. Mia madre, quasi a volerci dare tutta la forza di questo mondo, ricordo che ci disse: “Anche se il papà ce l’hanno ucciso, voi due dovrete essere forti perché avete tutto il diritto di crescere e di vivere!” Nella piazza, affollata di gente, c’era un silenzio che io definisco, da sempre, “assordante”: potevo sentire i pianti di qualcuno, ma il rumore dei nostri passi era talmente forte da somigliare ad un rullo di tamburi.»
Carlo Arnoldi (figlio di Giovanni Arnoldi): «Io guardavo solamente la bara di mio papà. Mia madre e mia sorella piangevano e potevo udire i loro singhiozzi in maniera distinta. Ma la cosa che sentivo maggiormente, in quella giornata tristissima, erano i nostri passi che risuonavano fortissimo sul sagrato del Duomo.»
Paolo Silva (figlio di Carlo Silva): «Il giorno dei funerali lo ricordo benissimo come se fosse oggi. Il cielo era plumbeo e in piazza Duomo c’era una folla immensa che rappresentava tutte le categorie sociali. Alcuni si erano arrampicati sia sui lampioni che sulla statua equestre di Vittorio Emanulele II presente dinanzi alla cattedrale. La cosa che però ricordo meglio, e che indispettì sia noi che le altre famiglie, fu il ritardo del presidente Rumor. Era inaccettabile che un presidente del Consiglio giungesse in ritardo ai funerali delle vittime di una strage – mai vista prima in Italia – come fu quella di piazza Fontana. E fu per questo che, quando fece il giro delle bare per salutare i parenti ed arrivò da noi tendendoci la mano per le condoglianze, sia io che mio fratello, come fecero altri, non ricambiammo il suo gesto. Lui, sorpreso, ritirò la mano e disse: “Vi prometto che i responsabili verranno presto assicurati alla giustizia!”»
Paolo Dendena (figlio di Pietro Dendena): «Il presidente Rumor arrivò in ritardo e questo ci dette molto fastidio. È proprio da quel giorno che ho sempre provato un’enorme repulsione per quella carezza compassionevole che Rumor mi diede sulla testa per dimostrare la sua vicinanza al lutto che mi aveva colpito. Da quel momento in poi, infatti, restammo abbandonati a noi stessi tanto da non avere mai avuto giustizia. Anche mia madre e mia sorella, come quel giorno fecero in parecchi, non diedero la mano a Rumor. Fu quasi come se sentissero dentro che lo Stato, ben presto, ci avrebbe lasciato soli.»
Nel frattempo che in Duomo si celebrano i funerali delle vittime della strage, gli inquirenti sono già sulle tracce dei possibili responsabili dell’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura. E lo sono fin da subito, ovvero dalle ore immediatamente successive allo scoppio della bomba: l’attentato di piazza Fontana è opera degli anarchici e degli ambienti di estrema sinistra.
La Polizia ne è assolutamente certa: il commissario Luigi Calabresi, in forza all’Ufficio Politico della Questura di Milano, uscendo dalla banca di piazza Fontana, lo dichiarerà ai giornalisti già quel 12 dicembre 1969. E, poche ore dopo, lo confermerà anche il prefetto Libero Mazza che, in un telegramma indirizzato al presidente del Consiglio Mariano Rumor, scriverà: «Ipotesi attendibile che deve formularsi indirizza indagini verso gruppi anarcoidi aut comunque frange estremiste. Est già iniziata, previe intese autorità giudiziaria, vigorosa azione rivolta at identificazione et arresto responsabili»
Nonostante le indagini – come dirà il questore Marcello Guida durante la conferenza stampa del 13 dicembre – sembrino aperte a tutte le ipotesi, l’obiettivo della Polizia sono gli anarchici ed i membri di estrema sinistra: sono sempre loro che mettono le bombe e, con quegli obiettivi precisi scelti fra le banche e l’Altare della Patria, non è assolutamente possibile che possa trattarsi di altri.
La sera stessa dell’attentato in piazza Fontana, la Polizia ferma più di centocinquanta persone, rastrellate qua e là nei vari circoli anarchici della città e nei luoghi di ritrovo dei militanti di estrema sinistra. Vengono condotte tutte in Questura in attesa di essere interrogate.
Achille Serra (ex prefetto): «La sera del 12 dicembre, effettuammo più di un centinaio di fermi e parecchie perquisizioni. Quasi tutti i fermati appartenevano agli ambienti della sinistra extraparlamentare e della frangia anarchica. C’erano vecchie e nuove conoscenze che avrebbero dovuto essere interrogate per vagliarne il coinvolgimento nell’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura.»
Benedetta Tobagi (giornalista e scrittrice): «Nonostante il questore Guida affermi che tutte le ipotesi fossero aperte e che la Polizia stava indagando a trecentosessanta gradi, la sera del 12 dicembre, in Questura, c’era una netta prevalenza di militanti appartenenti all’area anarchica e della sinistra extraparlamentare.»
La sera stessa dell’attentato, in alcune zone della città vengono rinvenuti alcuni manifesti di Lotta Continua e Potere Operaio – due organizzazioni di estrema sinistra sconfinanti nella sfera anarchica – che rivendicano la paternità della strage. È proprio questo che spinge la Polizia a concentrarsi su un gruppo di anarchici ben preciso: è il circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa” – uno dei più noti di Milano – che è spesso frequentato da diversi appartenenti sia a Lotta Continua che a Potere Operaio.
Ugo Paolillo (ex magistrato): «Quando vidi i manifesti a firma di Lotta Continua e Potere Operaio, non diedi loro molto credito. La carta di quei manifesti era completamente differente da quella che entrambi i gruppi – che stampavano volantini e manifesti in quantità industriale – utilizzavano normalmente. Era come se qualcuno volesse che indagassimo proprio in direzione degli ambienti anarchici di sinistra.»
Il circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa” si trova in piazzale Lugano ed è frequentato in maggioranza da studenti e da operai che non si riconoscono nelle formazioni sindacali tradizionali.
Luciano Lanza (giornalista): «Il circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa” svolgeva le attività tipiche di quell’epoca: organizzava volantinaggio, manifestazioni e, dall’autunno del 1969, divenne il punto d’incontro di quei sindacati “autonomi” che si muovevano al di fuori delle organizzazioni sindacali ufficiali.»
Achille Serra (ex prefetto): «Quella sera si mobilitarono i Carabinieri e si mobilitò la Polizia. Ci venne ordinato di fare una ricerca di tutti gli anarchici e di portarli in Questura. Così ci mettemmo in macchina ed iniziammo a cercarli partendo dai punti d’incontro a noi noti, primo tra tutti il circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa”.»
All’obitorio di via Mangiagalli, visto lo stato pietoso dei corpi e l’impossibilità fisica di poterli vestire coi loro abiti, il personale medico pensa di avvolgere, nella bandiera tricolore, ciò che resta delle salme. Ma tutte le famiglie si oppongono a tale decisione, per cui i corpi vengono avvolti in normali lenzuoli e deposti dentro alle bare.
Paolo Dendena (figlio di Pietro Dendena): «Quando ci dissero che mio padre, insieme alle altre vittime della strage, sarebbe stato avvolto dentro al tricolore, sia mia madre che mia sorella Francesca si opposero fermamente. Non era infatti possibile che, in Italia, una persona entrasse in una banca per lavorare e non ne uscisse più.»
Le sedici bare, tutte uguali e fatte di scuro legno di mogano, partono in ordine alfabetico dall’obitorio di via Mangiagalli per dirigersi verso il Duomo, luogo in cui le esequie verranno celebrate. Nel percorso, che transita anche da piazza Fontana, il più lungo corteo funebre che l’Italia abbia mai visto è salutato da tanti cittadini che, agli incroci, scendono dalle auto togliendosi il cappello in segno di rispetto.
Fortunato Zinni (ex dipendente e funzionario della Banca Nazionale dell’Agricoltura): «Il lunedì dei funerali, la Banca Nazionale dell’Agricoltura aprì alle 8:30 in punto. Le macerie erano state rimosse in fretta e furia e, nel salone, esattamente vicino al buco che l’esplosione aveva creato sul pavimento, erano state poste delle corone di fiori sorvegliate da due carabinieri in alta uniforme. Una volta giunto in piazza Duomo, ricordo che la cosa che mi colpì maggiormente fu la grandissima folla presente al rito funebre. Erano tantissimi ma c’era un silenzio assoluto, interrotto soltanto dal pianto di qualcuno. Molti pregavano, altri si facevano il segno della croce… I loro sguardi mi bloccavano tanto che, ad ogni passo, mi sembrava di non toccare il selciato che avevo sotto ai piedi. C’erano tutti – io sono convinto che ci fosse tutta la Milano che mandava avanti la città – e nessuno li aveva chiamati: erano venuti da soli.»
Nel Duomo di Milano – sul cui portone principale campeggia la scritta «Milano s’inchina alle vittime innocenti e prega pace» – si assiepano più di ventimila persone mentre all’esterno, nella piazza e nelle vie adiacenti, se ne contano almeno trecentomila. Ci sono i metalmeccanici della Marelli, della Breda e della Falk – che si occupano del servizio d’ordine – e la gente comune – impiegati, studenti, casalinghe, liberi professionisti – venuta lì per testimoniare la propria vicinanza ai parenti delle vittime. Infine, in rappresentanza dello Stato, ci sono tutte le autorità con, in testa, il presidente della Camera Sandro Pertini e quello del Consiglio Mariano Rumor che arriva a Milano con oltre un’ora di ritardo.
Nella piazza stracolma di gente, non si sente volare una mosca: non ci sono slogan, né striscioni, né fischi e né applausi; c’è solo quell’enorme massa di gente silenziosa e composta che partecipa, commossa, al dolore dei parenti delle vittime della strage.
Paolo Dendena (figlio di Pietro Dendena): «Ricordo di aver smesso di piangere… Ero accanto a mia madre e a mia sorella e continuavo a fare il giro della bara di mio padre come a volergli dare un’ultima carezza. Ero un bambino di 10 anni e, pur capendo che mio padre era morto, non mi rendevo ancora conto di cosa volesse dire crescere senza di lui. Mia madre, quasi a volerci dare tutta la forza di questo mondo, ricordo che ci disse: “Anche se il papà ce l’hanno ucciso, voi due dovrete essere forti perché avete tutto il diritto di crescere e di vivere!” Nella piazza, affollata di gente, c’era un silenzio che io definisco, da sempre, “assordante”: potevo sentire i pianti di qualcuno, ma il rumore dei nostri passi era talmente forte da somigliare ad un rullo di tamburi.»
Carlo Arnoldi (figlio di Giovanni Arnoldi): «Io guardavo solamente la bara di mio papà. Mia madre e mia sorella piangevano e potevo udire i loro singhiozzi in maniera distinta. Ma la cosa che sentivo maggiormente, in quella giornata tristissima, erano i nostri passi che risuonavano fortissimo sul sagrato del Duomo.»
Paolo Silva (figlio di Carlo Silva): «Il giorno dei funerali lo ricordo benissimo come se fosse oggi. Il cielo era plumbeo e in piazza Duomo c’era una folla immensa che rappresentava tutte le categorie sociali. Alcuni si erano arrampicati sia sui lampioni che sulla statua equestre di Vittorio Emanulele II presente dinanzi alla cattedrale. La cosa che però ricordo meglio, e che indispettì sia noi che le altre famiglie, fu il ritardo del presidente Rumor. Era inaccettabile che un presidente del Consiglio giungesse in ritardo ai funerali delle vittime di una strage – mai vista prima in Italia – come fu quella di piazza Fontana. E fu per questo che, quando fece il giro delle bare per salutare i parenti ed arrivò da noi tendendoci la mano per le condoglianze, sia io che mio fratello, come fecero altri, non ricambiammo il suo gesto. Lui, sorpreso, ritirò la mano e disse: “Vi prometto che i responsabili verranno presto assicurati alla giustizia!”»
Paolo Dendena (figlio di Pietro Dendena): «Il presidente Rumor arrivò in ritardo e questo ci dette molto fastidio. È proprio da quel giorno che ho sempre provato un’enorme repulsione per quella carezza compassionevole che Rumor mi diede sulla testa per dimostrare la sua vicinanza al lutto che mi aveva colpito. Da quel momento in poi, infatti, restammo abbandonati a noi stessi tanto da non avere mai avuto giustizia. Anche mia madre e mia sorella, come quel giorno fecero in parecchi, non diedero la mano a Rumor. Fu quasi come se sentissero dentro che lo Stato, ben presto, ci avrebbe lasciato soli.»
Nel frattempo che in Duomo si celebrano i funerali delle vittime della strage, gli inquirenti sono già sulle tracce dei possibili responsabili dell’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura. E lo sono fin da subito, ovvero dalle ore immediatamente successive allo scoppio della bomba: l’attentato di piazza Fontana è opera degli anarchici e degli ambienti di estrema sinistra.
La Polizia ne è assolutamente certa: il commissario Luigi Calabresi, in forza all’Ufficio Politico della Questura di Milano, uscendo dalla banca di piazza Fontana, lo dichiarerà ai giornalisti già quel 12 dicembre 1969. E, poche ore dopo, lo confermerà anche il prefetto Libero Mazza che, in un telegramma indirizzato al presidente del Consiglio Mariano Rumor, scriverà: «Ipotesi attendibile che deve formularsi indirizza indagini verso gruppi anarcoidi aut comunque frange estremiste. Est già iniziata, previe intese autorità giudiziaria, vigorosa azione rivolta at identificazione et arresto responsabili»
Nonostante le indagini – come dirà il questore Marcello Guida durante la conferenza stampa del 13 dicembre – sembrino aperte a tutte le ipotesi, l’obiettivo della Polizia sono gli anarchici ed i membri di estrema sinistra: sono sempre loro che mettono le bombe e, con quegli obiettivi precisi scelti fra le banche e l’Altare della Patria, non è assolutamente possibile che possa trattarsi di altri.
La sera stessa dell’attentato in piazza Fontana, la Polizia ferma più di centocinquanta persone, rastrellate qua e là nei vari circoli anarchici della città e nei luoghi di ritrovo dei militanti di estrema sinistra. Vengono condotte tutte in Questura in attesa di essere interrogate.
Achille Serra (ex prefetto): «La sera del 12 dicembre, effettuammo più di un centinaio di fermi e parecchie perquisizioni. Quasi tutti i fermati appartenevano agli ambienti della sinistra extraparlamentare e della frangia anarchica. C’erano vecchie e nuove conoscenze che avrebbero dovuto essere interrogate per vagliarne il coinvolgimento nell’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura.»
Benedetta Tobagi (giornalista e scrittrice): «Nonostante il questore Guida affermi che tutte le ipotesi fossero aperte e che la Polizia stava indagando a trecentosessanta gradi, la sera del 12 dicembre, in Questura, c’era una netta prevalenza di militanti appartenenti all’area anarchica e della sinistra extraparlamentare.»
La sera stessa dell’attentato, in alcune zone della città vengono rinvenuti alcuni manifesti di Lotta Continua e Potere Operaio – due organizzazioni di estrema sinistra sconfinanti nella sfera anarchica – che rivendicano la paternità della strage. È proprio questo che spinge la Polizia a concentrarsi su un gruppo di anarchici ben preciso: è il circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa” – uno dei più noti di Milano – che è spesso frequentato da diversi appartenenti sia a Lotta Continua che a Potere Operaio.
Ugo Paolillo (ex magistrato): «Quando vidi i manifesti a firma di Lotta Continua e Potere Operaio, non diedi loro molto credito. La carta di quei manifesti era completamente differente da quella che entrambi i gruppi – che stampavano volantini e manifesti in quantità industriale – utilizzavano normalmente. Era come se qualcuno volesse che indagassimo proprio in direzione degli ambienti anarchici di sinistra.»
Il circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa” si trova in piazzale Lugano ed è frequentato in maggioranza da studenti e da operai che non si riconoscono nelle formazioni sindacali tradizionali.
Luciano Lanza (giornalista): «Il circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa” svolgeva le attività tipiche di quell’epoca: organizzava volantinaggio, manifestazioni e, dall’autunno del 1969, divenne il punto d’incontro di quei sindacati “autonomi” che si muovevano al di fuori delle organizzazioni sindacali ufficiali.»
Achille Serra (ex prefetto): «Quella sera si mobilitarono i Carabinieri e si mobilitò la Polizia. Ci venne ordinato di fare una ricerca di tutti gli anarchici e di portarli in Questura. Così ci mettemmo in macchina ed iniziammo a cercarli partendo dai punti d’incontro a noi noti, primo tra tutti il circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa”.»
Il Duomo di Milano durante i funerali del 15 dicembre 1969 (fotografia reperita su Internet)
Scorcio della folla immensa accorsa per partecipare ai funerali delle vittime della strage (fotografia reperita su Internet)
L'entrata del Duomo di Milano con la scritta «Milano s'inchina alle vittime innocenti e prega pace» (fotografia reperita su Archivio De Bellis - Fotogramma)
La folla assiepata sulla statua equestre di Vittorio Emanuele II in piazza Duomo, a Milano (fotografia reperita su Archivio De Bellis - Fotogramma)
La folla assiepata sulla statua equestre di Vittorio Emanuele II in piazza Duomo, a Milano (fotografia reperita su Archivio De Bellis - Fotogramma)
Una donna viene soccorsa dopo essere svenuta durante i funerali delle vittime della strage (fotografia reperita su Archivio De Bellis - Fotogramma)