10 dicembre 2023

LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA (puntata n° 12)

La sera stessa di quel 16 giugno 1969, una volante della Questura va a prelevare Albero Muraro al numero 15 di piazza dell’Insurrezione 26 aprile: per Pasquale Juliano, il racconto del portiere sarà di fondamentale importanza per chiarire l’identità della persona che era entrata all’interno dello stabile, in quale appartamento si fosse diretta, per quanto tempo vi si fosse trattenuta e se avesse con sé un pacchetto in entrata o in uscita.
Il signor Muraro, senza incertezza alcuna, fa mettere a verbale che quella sera, verso le ore 19:00, un ragazzo, dell’apparente età di circa 25 anni e con indosso una camicia a fiori, era entrato nell’androne del condominio presso cui prestava servizio come portiere. Il giovane si era diretto senza indugio verso l’ascensore ed era salito ai piani superiori. Dopo circa tre quarti d’ora, il ragazzo era sceso e, non appena aveva messo piede nella piazza antistante allo stabile, era stato fermato da alcuni uomini che si erano poi rivelati essere poliziotti in borghese. E quando gli investigatori chiedono a Muraro se si fosse trattenuto a chiacchierare con Patrese una volta che questi era uscito dall’ascensore, l’ex carabiniere nega la circostanza nella maniera più assoluta.
Andato via il signor Muraro, Il commissario Juliano tira finalmente un sospiro di sollievo: la deposizione del portiere coincide perfettamente coi fatti che lui e i suoi avevano vissuto in prima persona proprio quella sera, Senza contare che il signor Muraro, oltre ad aver prestato servizio nell’Arma – questo rappresentava di per sé un’importante garanzia riguardo la veridicità delle sue dichiarazioni – e a non aver nessun interesse a mentire, non era nemmeno a conoscenza di quali indagini la Polizia stesse svolgendo tanto da poterle sviare in qualche modo.
Juliano, stanco morto, decide di tornarsene a casa: la giornata era stata lunghissima, anzi infinita. Non sarebbe successo nulla fino all’indomani quando, da lì alle prime luci dell’alba, sarebbero partite tutte le altre perquisizioni che il giudice Fais aveva firmato pochi giorni prima. Il commissario Juliano non vi avrebbe partecipato di persona, ma era sicuro che questa volta la Polizia avrebbe trovato armi ed esplosivo in grosse quantità. Ma mentre sta per uscire dall’ufficio, Noventa lo ferma.
Pasquale Juliano (ex questore): «Stavo per tornarmene finalmente a casa quando incrociai il maresciallo Noventa. Mi chiese cosa sarebbe successo se Pezzato e Tommasoni ci avessero fatto fare un altro buco nell’acqua… Di sicuro tutti quanti avrebbero pensato che quei due ci raccontavano balle solo per fare soldi e che noi avevamo abboccato all’amo come dei sempliciotti. Ma siccome, col denaro racimolato fino a quel momento, né Pezzato e né Tommasoni sarebbero diventati milionari, confidai al mio maresciallo che le ultime 500 lire gliele avevo date di tasca mia affinché si comprassero almeno un pacchetto di sigarette ciascuno.»
Dopo aver trascorso una nottata a rigirarsi nel letto perché preoccupato per le perquisizioni dell’indomani mattina, il Capo della Squadra Mobile giunge in ufficio di buon’ora. Ma neanche a farlo apposta, Noventa era stato profetico: nonostante la Polizia avesse effettuato le perquisizioni allo stesso momento e tutte in parallelo affinché nessuno dei perquisiti avesse il tempo materiale di avvisare i rispettivi “camerati”, i risultati ottenuti si erano rivelati estremamente scarsi. Nessuna santabarbara né, tantomeno, armi a palate ed esplosivo a quintali. Solo poche cianfrusaglie e qualche arma da fuoco detenuta illegalmente.
Pasquale Juliano, una volta rientrati i suoi uomini, stenta a credere alle proprie orecchie.
A casa di Pier Giorgio Pavanetto, la Polizia trova suo fratello Maurizio: vengono rinvenuti alcuni fucili da caccia inutilizzabili e mai denunciati, una pistola lanciarazzi a doppia canna, qualche cartuccia per fucile ed una maschera antigas. A casa di Gustavo Bocchini Padiglione saltano fuori una pistola ad aria compressa completa di pallini, una pistola Beretta calibro 22 con due scovoli per pulirne la canna, due scatole da cinquanta proiettili cadauna ed un coltello a serramanico. Nella sua autovettura, invece, la Polizia recupera un tirapugni ed una pistola calibro 6,35 con cinque proiettili. Nulla, invece, viene rinvenuto nelle abitazioni di Massimiliano Fachini, Giuseppe Brancato e Francesco Petraroli.
Dopo un primo attimo di sconforto e pur messo dinanzi all’ennesimo fiasco, il Capo della Squadra Mobile in cuor suo sa di aver imboccato la strada giusta. E sa altrettanto bene che sia il gruppo di Fachini che quello di Freda, Ventura e Pozzan, hanno a che fare con gli attentati dinamitardi di quella prima metà del 1969. Odina così ai suoi uomini di convocare tutti i destinatari dei provvedimenti di perquisizione e di farlo il prima possibile: l’idea del commissario Juliano è quella di far crollare qualcuno dei coinvolti con un interrogatorio faccia a faccia. Se uno solo tra Fachini, Petraroli, Pavanetto, Brancato e Bocchini Padiglione avesse fatto delle ammissioni, il resto della storia sarebbe arrivato da solo.
Il primo a trovarsi dinanzi al Capo della Mobile è Maurizio Pavanetto: il giovane dichiara che le armi rinvenutegli in casa dalla Polizia erano state trovate da lui e da suo fratello un po’ nei dintorni della Certosa di Vigodarzere e un po’ in alcune case diroccate che si trovavano nei terreni amministrati dal padre. Maurizio, vedendo quelle vecchie armi, si era messo in testa di farsi una collezione privata e, pur sapendo che occorreva la specifica licenza rilasciata dalla Questura, si giustifica dichiarando che i fucili erano talmente malconci e rovinati che non sarebbero mai stati in grado di sparare. Durante la guerra, quei terreni erano stati requisiti dai tedeschi per farne un arsenale e, siccome anche la maschera antigas era stata ritrovata nei medesimi posti, secondo Pavanetto non si poteva assolutamente parlare di armi occultate in quanto i luoghi dei rinvenimenti erano accessibili a chiunque. E quando Pasquale Juliano chiede a Maurizio Pavanetto se conoscesse gli altri soggetti coinvolti nelle perquisizioni, l’uomo ammette di conoscere personalmente Giuseppe Brancato perché era stato suo compagno di scuola fino all’anno precedente. Degli altri, invece, Pavanetto dice di conoscerli di vista e limitatamente alla sfera lavorativa: la famiglia Pavanetto commerciava nel settore enologico ed il Movimento Sociale di Padova figurava tra i clienti dell’azienda a conduzione famigliare. Maurizio stesso, in più di un’occasione, si era recato alla sede dell’MSI per portarvi il vino che gli era stato ordinato.
Dopo Pavanetto è il turno di Giuseppe Brancato: il ragazzo racconta a Juliano di essere stato compagno di scuola di Maurizio Pavanetto, di frequentare attivamente il FUAN pur non essendone tesserato, di aver partecipato alla manifestazione indetta dall’MSI in ricordo di Benito Mussolini e, infine, di essersi trovato in mezzo ai tafferugli scoppiati il 16 aprile davanti al Comune di Padova tra esponenti di Lotta Continua, membri delle rappresentanze sindacali e militanti di destra. Il commissario, quindi, chiede a Brancato se conoscesse Massimiliano Fachini e in quali rapporti si trovasse con lui. Il ventenne risponde di essere stato una volta sola a casa di Fachini per parlare del matrimonio di quest’ultimo che stava per approssimarsi. Per il resto, i rapporti tra i due si limitavano alla sfera politica ed universitaria per via dei consigli che Fachini stava dando a Brancato quando aveva appreso che questi si era iscritto alla facoltà di scienze statistiche. Lavorativamente parlando, alla data dell’interrogatorio Brancato risultava essere disoccupato dopo aver aiutato suo padre nel bar di famiglia di via Tommaseo e, per circa venti giorni, essere stato rappresentante della ditta Tipo Film di Milano.
Anche con Francesco Petraroli, il commissario Juliano non giunge a nulla di concreto: l’uomo racconta al Capo della Squadra Mobile di essersi iscritto all’MSI nel 1968 e di aver conosciuto i compagni di partito nel momento in cui era diventato membro dell’organizzazione politica. Aggiunge di aver partecipato direttamente a volantinaggi, a manifestazioni indette dall’MSI e alle poche campagne elettorali che c’erano state. Anche lui, il 16 aprile 1969, era stato coinvolto nella manifestazione violenta dinanzi al municipio ma che non vi aveva partecipato attivamente poiché, nel momento in cui erano cominciati gli scontri, aveva appena preso la parola nella sala consiliare del comune. Sentiti i rumori, Petraroli era sceso in strada ma era stato caricato da gente di sinistra armata di bastoni e spranghe. Fuggito verso la sede del Movimento Sociale, era riuscito a rimanere tutto intero e a tornare a casa. Alla specifica domanda del commissario Juliano su Pezzato e Patrese, Petraroli si limita a dire di conoscerli in maniera superficiale – soprattutto Pezzato che non gli piaceva per via dei reati comuni nei quali era risultato coinvolto – e di non sapere quali altri rapporti esistessero tra i due all’infuori di quelli politici.
Gustavo Bocchini Padiglione è il migliore del gruppo perché ha la riposta pronta ad ogni domanda che il commissario Juliano gli rivolge: la Beretta calibro 22 è stata acquistata con regolare porto d’armi rilasciatogli proprio dalla Questura di Padova; è sufficiente effettuare un controllo in archivio per verificare che sta dicendo la verità. La pistola ad aria compressa, invece, gli è stata concessa in prestito da un amico affinché eliminasse un piccolo topolino che Bocchini Padiglione aveva allevato insieme ad altri due; tre galli nel pollaio erano troppi ed uno dei tre topolini doveva morire. Per la pistola calibro 6,35 ecco come stavano le cose: apparteneva al padre che era stato vice prefetto di Padova e che era defunto quattrodici anni prima, nel 1955. L’arma risaliva alla Seconda Guerra Mondiale quando il padre prestava servizio nell’aeronautica e, da sempre, era rimasta in casa: all’inizio nel comodino della camera da letto e poi, alla nascita dei figli, dentro un armadio chiuso a chiave. Per caso, all’inizio del 1960, la pistola viene ritrovata e la madre di Gustavo la ripone nel ripostiglio a mo’ di cimelio. Nessuno, in famiglia, si era poi premurato di denunciare l’arma e tutti se ne erano dimenticati fino alla perquisizione di quella mattina da parte della Polizia. Per quanto concerne, infine, il coltello a serramanico e il tirapugni, Bocchini Padiglione afferma di non sapere che il primo andasse denunciato e come il secondo fosse finto nella sua autovettura. Nei giorni seguenti, ascoltata dalla Polizia, la signora Gabriella Volpato vedova Bocchini Padiglione avallerà le dichiarazioni rese dal figlio in sede di interrogatorio. In merito alla politica, anche Bocchini Padiglione aveva avuto gli stessi trascorsi degli altri interrogati: partecipazioni nel FUAN, nell’MSI, volantinaggi, manifestazioni e cose del genere. E nulla più di superficiali conoscenze degli altri membri della sezione del Movimento Sociale. Anche su Fachini, il racconto del giovane Gustavo è molto sintetico perché, al di là di conoscerlo in qualità di consigliere provinciale del FUAN, lo aveva accompagnato a casa con la macchina una sera dell’inverno passato. Soprattutto, però, Bocchini Padiglione nega con forza di aver compiuto alcuna azione illegale e, men che meno, di aver mai toccato esplosivi in vita sua.
Il “piatto forte”, Pasquale Juliano se lo riserva per ultimo: Massimiliano Fachini.
Pasquale Juliano (ex questore): «Quando fu il momento di interrogare Massimiliano Fachini, questi aveva già nominato un legale di fiducia, tale avvocato Giangaleazzo Brancaleon. Gli domandai delle armi e dell’esplosivo ritrovati nelle mani di Giancarlo Patrese e Fachini ripose di non saperne nulla così come non sapeva che intenzioni avesse il giovane che avevamo fermato in piazza dell’Insurrezione. Conosceva Patrese così come conosceva tutti gli altri perquisiti perché Fachini coordinava il FUAN padovano ma, da qui ad essere coinvolto in fatti delittuosi di qualsiasi natura, ce ne correva… In ogni caso, Fachini negò sia di aver consegnato il pacchetto a Patrese sia di averlo visto nella giornata del 16 giugno perché alle 17:10 era uscito per recarsi nel suo ufficio ed era rientrato a casa alle 19:00 passate per restarci fino al giorno dopo.»
Anche sulla presenza del manifesto del FUAN all’interno del pacco ritrovato nelle mani di Patrese, Massimiliano Fachini non sa fornire una risposta: una risma di quei manifesti – risalenti addirittura a fine 1967 – era stata rubata, dall’università, insieme a dell’altro materiale di cancelleria qualche tempo prima e, pertanto, chiunque avrebbe potuto utilizzare un volantino per avvolgerci dentro la pistola e l’esplosivo che Giancarlo Patrese aveva con sé.
Pasquale Juliano è affranto: tutto il lavoro profuso in quei giorni non era servito a nulla. Nonostante vi fossero state delle denunce – una per Patrese, già detenuto in carcere, per porto e possesso abusivo di armi ed esplosivo; ed altre tre, per detenzione abusiva di armi, emesse nei confronti di Gustavo Bocchini Padiglione, sua madre e Maurizio Pavanetto – nessuna delle persone perquisite aveva ammesso alcunché. Tutti parevano essere dei santi del paradiso scesi sulla terra. Sì, certo: ognuno di loro aveva confessato di avere simpatie per gli ambienti di destra ma, a parte questo, nessuno che fosse un “bombarolo” e che avesse mai commesso reati gravi. In sintesi, erano tutti dei bravissimi ragazzi. Magari un po’ avventati – questo sì – ma non certo delinquenti di professione.
La speranza di Juliano di risolvere “l’affare Patrese” va a farsi benedire: l’uomo, seppur detenuto, continua a dare per vera la sua versione dei fatti mentre i confidenti del commissario, in coro, replicano che l’unica persona che sta mentendo è Patrese.
Nei giorni seguenti non succede nulla di importante: Juliano torna ai reati comuni propri della Squadra Mobile e, di tanto in tanto, Pezzato e Tommasoni si fanno vivi per chiedere soldi al funzionario. Che, da uomo buono qual è, spesso glieli dà di tasca propria senza utilizzare quelli promessi dal questore Manganella.
La notte tra il 30 giugno e il 1° luglio 1969, però, accade qualcosa.
Mentre si accinge a rientrare a casa, Nicolò Pezzato viene avvicinato da Giuseppe Brancato. Al confidente del commissario Juliano, quando improvvisamente si ritrova dinanzi Brancato, quasi viene un mezzo colpo. Brancato se ne accorge e, tra il serio e il faceto, comincia ad incalzare il povero Pezzato facendo strani discorsi. Sulle prime Pezzato non capisce dove Brancato voglia andare a parare, visto che accenna a diverbi tra amici causati da donne o da debiti non onorati. Ma nel momento preciso in cui Giuseppe Brancato, nella maniera più tranquilla di questo mondo, fa l’esplicito riferimento agli amici che venivano traditi da certi doppiogiochisti vendutisi “agli sbirri”, Nicolò Pezzato capisce che la sua attività di confidente è stata scoperta e che, molto presto, sarebbe stato investito da una valanga di guai da cui non aveva la minima idea su come avrebbe fatto ad uscirne.

Il logo del FUAN - Fronte Universitario d'Azione Nazionale (fotografia reperita su Internet)

Massimiliano Fachini negli anni Sessanta (fotografia reperita su Internet)